CONTROINFORMAZIONE INTERNAZIONALE N.8

LA PACE IMPERIALISTA E' GUERRA

Collettivo Comunisti Prigionieri "Wotta Sitta" (prima parte)

CRISI E GUERRA

"La nostra epoca, l'epoca della borghesia si distingue più delle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato".

(Marx - Engels)

1. Gli ultimi anni hanno visto intensificarsi il dominio di classe della borghesia imperialista sul mondo intero sotto la spinta del capitale monopolistico, che cerca di superare la crisi mai risolta degli anni '70 con l'accelerazione del processo di concentrazione, centralizzazione e internazionalizzazione dei capitali.

Questo processo, che porta con sé una profonda mutazione delle forme del dominio di classe, genera, da una parte, contraddizioni crescenti ed esplosive tra capitali già di per sé multiproduttivi e multinazionali, tra Stati, tra aree economiche, mettendo a nudo i limiti intrinseci dell'epoca della globalizzazione e dell'interdipendenza economica; dall'altra, si risolve in un attacco diretto alle condizioni di vita di miliardi di proletari e di interi popoli in tutto il mondo, attraverso la politica spietata decisa e controllata degli organismi sovranazionali del capitalismo, dal G7 all'ONU, al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale, fino alla NATO.

La guerra del Golfo è stata la dimostrazione più chiara e visibile di questo dominio di classe intensificato dalla determinazione imperialista a non accettare alcuna messa in discussione dei suoi interessi e del suo assetto di potere internazionale. Gli anni '90 si sono aperti con lo scenario più logico e concreto dell'imperialismo di questa epoca: la guerra e il rapporto di guerra che caratterizza lo scontro oggi e, di conseguenza, gli effetti tragici del dominio della barbarie sulla vita umana.

La potenza dell'occidente non si è tradotta in un "nuovo ordine mondiale", ma in un periodo di grandi sconvolgimenti, di conflitti e di instabilità crescenti. La fine dell'ordine stabilito a Yalta si rivela più traumatica e complessa del previsto. Se quello di Yalta è costato i morti della II Guerra Mondiale, quello che le potenze imperialiste, USA in testa, vanno cercando di imporre sembra che non chiederà costi minori. Sarebbe idealistico pensarlo, d'altra parte, e lasciamo ai riformisti e revisionisti le loro pericolose illusioni e fandonie, preferendo ricordarci delle lezioni della storia, che ha sempre dimostrato come,, crollato un equilibrio del potere, sia inevitabilmente necessaria una nuova guerra per costruirne un altro. Da Versailles a Yalta, a...

L'imperialismo è guerra. La guerra è sempre stato il modo attraverso cui la borghesia ha cercato di risolvere le sue crisi scaricando in modo distruttivo sul proletariato i costi della sua riproduzione.

C'è da aggiungere che oggi la guerra non può certo dirsi esaurita con la vittoria della coalizione occidentale nel Golfo, perché quest'ultimo decennio del secolo ha già visto lo scoppiare incessante di una moltitudine di guerre nelle varie aree geopolitiche del mondo. La guerra è tornata di nuovo, anche in Europa con vasti e crescenti conflitti armati e guerre civili, che scuotono in particolare l'ex territorio yugoslavo e quello della ex Unione Sovietica.

Questo scenario che scorre davanti a tutti noi con quotidiana tragicità, assume una fisionomia precisa e in sviluppo proprio in quest'area che costituisce il vero centro nervoso dell'intero pianeta, perché attraversato dall'insieme delle contraddizioni di quest'epoca. Da quella principale e oggi dominante tra proletariato e borghesia, a quella esplosiva tra Nord e Sud, a quella generata dai conflitti economici e politici interimperialistici già esistenti e che tendono a svilupparsi tra le potenze mondiali nella spartizione e dominio dell'intero pianeta.

La borghesia imperialista europea sta accelerando i passi necessari ed irrinunciabili, pur nel loro realizzarsi contraddittorio, per far avanzare il processo di integrazione economica, politica e militare degli Stati europei e "farsi blocco", cioè soggetto politico capace di stabilire politiche omogenee vincolanti al suo interno e di proiettarsi significativamente verso il resto del mondo.

Il "1992" non vuole essere la semplice celebrazione formale della nascita della "Unione Europea", ma il momento della realizzazione pratica dell'insieme dei passaggi fondamentali e di non ritorno per esserlo concretamente. In questa direzione l' "Unione Europea" è un avanzamento del dominio di classe nell'intero territorio continentale e della sua proiezione imperialista nelle altre aree del mondo a cominciare da quella contigua e inscindibilmente legata del Mediterraneo-Medio Oriente, come ha già dimostrato il suo coinvolgimento attivo nella guerra del Golfo.

L'Europa partecipa e vuole partecipare da protagonista al "nuovo ordine mondiale".

Per restare all'Italia basti ricordare le azioni di guerra contro il popolo iracheno degli "eroi" Bellini e Cocciolone e dei loro altri compari dell'aviazione un anno fa, i ponti aerei per liberarsi dei profughi albanesi e per controllarli nel loro paese ormai sottoposto ad un nuovo protettorato italiano, e le missioni politiche e militari in crescendo in Yugoslavia, vero e proprio cortile di casa di De Michelis e soci, o nel lontano Salvador.

Ovviamente le mire della "Grande Germania", dell'Inghilterra, della Francia e della resuscitata Spagna non sono da meno e possono contare si di un ben più rilevante patrimonio di colonizzazione mondiale. Il "1992" vede gli Stati europei tesi alla conquista e allo sfruttamento delle risorse e dei popoli del mondo come 500 anni fa.

I proletari in Europa e nel mondo intero hanno percepito da tempo la nuova qualità dello scontro e la loro resistenza contro le strategie capitalistiche sempre più indirizzate al profitto e sempre più distruttive, non è mai cessata. Le lotte proletarie, i processi di emancipazione e di liberazione devono fare i conti con un avanzamento micidiale della controrivoluzione preventiva, che ha inciso pesantemente su molte esperienze rivoluzionarie, e che cerca di colpire anticipatamente il coagularsi di nuove. Tuttavia si possono già individuare molti aspetti del passaggio ad una nuova epoca rivoluzionaria segnata da uno scontro più profondo in cui le lotte proletarie nel mondo si trovano sempre più connesse e legate contro il nemico comune. La mobilitazione di massa e le iniziative delle forze rivoluzionarie nelle aree dei centri imperialisti e in quelle della periferia durante la guerra del Golfo, ha indubbiamente contribuito a rafforzare il terreno dell'antimperialismo e dell'internazionalismo proletario. nella stessa direzione si muovono le molteplici forme di resistenza proletaria e le diverse iniziative rivoluzionarie che cominciano a colpire e sabotare l'insieme dei processi che caratterizzano il "1992" e che sono visti dai proletari come un punto di svolta capitalistica sotto il segno della "deregulation" e della reazione.

Una tendenza che vede l'intensificarsi dello sfruttamento proletario, l'ampliarsi della disoccupazione e della marginalizzazione, il peggioramento delle condizioni di vita, l'affermarsi di una esistenza sempre più alienata nei centri metropolitani e l'imporsi di politiche sempre più repressive, razziste e fasciste contro i popoli che premono alle frontiere della "fortezza Europa".

Cinquecento anni fa la "conquista dell'America" fu l'inizio di una nuova epoca e di una politica europea di oppressione nei confronti dei paesi e dei popoli che possedevano risorse e ricchezze che avrebbero consentito al capitalismo nascente, e alla classe emergente che lo sosteneva, di stabilire una colonizzazione ed un dominio mondiale.

Non solo. L'impoverimento progressivo di quei popoli - base del progresso della "sviluppata e civile Europa" - si accompagnò spesso al loro sterminio.

Come scrive Marx su "Il Capitale":

"La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l'incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Occidentali, la trasformazione dell'Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l'aurora della produzione capitalistica. Questi procedimenti idilliaci sono momenti fondamentali della accumulazione originaria".

I dati della ricerca storica misurano la qualità di questi "procedimenti idilliaci": nel 1500 la popolazione del globo era dell'ordine di 400 milioni di abitanti, 80 dei quali residenti in America. Cinquanta anni dopo, di questi 80 milioni ne restavano 10. Limitando il discorso al Messico, alla vigilia della "Conquista" la popolazione era di 25 milioni di abitanti, nel 1600 erano ridotti ad un milione.

Questo è il senso storico del processo che il capitalismo vuole celebrare con le infinite manifestazioni per il "Quinto Centenario della scoperta dell'America". Se i paesi europei sono ancora una volta alla testa di queste iniziative non è per semplice spirito celebrativo quanto per rilanciare le ragioni attuali dell'accumulazione capitalistica a vantaggio dei grandi monopoli mondiali. Un neocolonialismo che vede protagonista la CEE nello sforzo di aggiudicarsi risorse e spazi crescenti nello sfruttamento del Tricontinente in competizione con i capitali statunitensi e giapponesi. La penetrazione dei capitali europei è la forma della "Conquista" di oggi; una nuova spartizione del mondo.

Il filo delle lotte proletarie che si vanno intrecciando nelle diverse aree geografiche contro l'imperialismo statunitense, europeo e giapponese sta concretizzando un nuovo internazionalismo proletario che mette radicalmente in discussione e combatte i presupposti di fondo su cui è nata e si è sviluppata la formazione sociale capitalistica.

Le strategie economiche e politiche che da anni guidano la ristrutturazione capitalista stanno producendo contraddizioni di classe e sociali crescenti, che definiscono e misurano la guerra di classe di questa epoca. Un processo di proletarizzazione di dimensioni vastissime, in conseguenza del modificarsi della divisione del lavoro a livello planetario, caratterizza la seconda metà del secolo. L'avanzata del capitalismo ha gettato nella condizione di proletari la maggior parte della popolazione mondiale, a cui viene progressivamente impedita ogni possibilità di sussistenza non capitalistica. nelle aree del centro come in quelle della periferia, nel Nord come nel Sud e nell'Est. Sempre più ogni essere umano si trova di fronte alla "nuda legge del profitto", agli effetti disumani di un processo di oppressione e distruzione dell'uomo, della natura e dell'ambiente, di proporzioni mai viste, perché il capitalismo interviene ormai direttamente su di essi per le sue necessità di valorizzazione, riproduzione ed espansione.

Questo complesso di fattori giunti a completa maturazione a questo stadio di sviluppo avanzato del capitalismo metropolitano, non fa che espandere ed ingigantire le tensioni ed i conflitti sociali proiettando sempre più donne e uomini in una immediata dimensione di lotta di classe. Contemporaneamente stabilisce un terreno di connessione oggettiva delle lotte dei proletari e dei popoli del mondo, quello contro il sistema economico, politico e militare che si è storicamente affermato e che ruota attorno agli USA e al nuovo dispiegamento che lo caratterizza negli ultimi anni.

Lottare in Europa contro l'insieme di politiche che spingono in avanti la dinamica di integrazione europea e che a un tempo estendono la sua proiezione imperialista nel mondo, significa avere la consapevolezza che in Europa Occidentale, oggi più di ieri, convergono molte delle linee di scontro tra imperialismo e rivoluzione, tra neocolonialismo e lotte di liberazione nel mondo.

Significa anche essere concretamente a fianco della

"campagna di resistenza indigena e popolare" che i campesinos, gli indigeni e le forze popolari hanno lanciato contro la celebrazione del "Quinto Centenario" per fare sentire "la loro voce di fronte all'ignominia dell'oppressione coloniale, neocoloniale e imperialista [...] Allo scopo di consolidare la nostra identità e di rafforzare la nostra lotta di liberazione in tutto il continente".

(Dichiarazione di Quito, delle Organizzazioni Campesino-Indigene).

2. Gli ultimi anni hanno visto approfondirsi la crisi del capitalismo e le contraddizioni che essa ha prodotto in ogni area del mondo, perché la crisi generatasi nei centri imperialisti occidentali si è riversata pesantemente nel Sud e nei paesi dell'Est, per il livello di interdipendenza dell'economia mondiale.

La borghesia imperialista oggi deve fare i conti con una situazione generale di recessione economica e moltiplicare gli interventi per rimettere in moto un sistema produttivo bloccato, incapace di produrre profitti sufficienti a valorizzare l'intera massa di capitali e di garantire un respiro adeguato, tra una crisi e l'altra, per rilanciare l'economia. Il susseguirsi dei Vertici del G-7 ha consentito di tenere sotto controllo gli effetti più devastanti attraverso una gestione sovranazionale degli interventi più urgenti da adottare, scaricando i costi più pesanti della crisi sui paesi del Sud e dell'Est. Ma è evidente che non si è ancora realizzata una seria possibilità di superamento della crisi in cui l'intero sistema si dibatte dagli anni 70.

In questa situazione solo i grandi monopoli riescono a trovare i capitali ed i mercati per svilupparsi da veri pescecani vincenti nella guerra della concorrenza. Con strategie planetarie cercano di contrastare la caduta dei saggi di profitto, intensificando il processo di concentrazione e di internazionalizzazione, tentando di aumentare la massa di plusvalore attraverso continui salti tecnologici ed una riorganizzazione planetaria della produzione? Ma ciò non basta a risolvere la crisi di sovrapproduzione di capitali che attraversa il sistema mondiale, questi sono interventi che tendono semplicemente a rinviare nel tempo le conseguenze più gravi, a concentrare ulteriormente i capitali a spese di quelli più deboli, che vengono assorbiti dai monopoli più forti e a scaricare i costi più pesanti sui paesi delle aree dominate. E, in definitiva, non fa che creare le condizioni per un ulteriore calo del saggio di profitto, e rendere la crisi sempre più complessa e meno risolvibile, nonostante gli organismi sovranazionali che cercano di tenerla sotto controllo con interventi di politica finanziaria concertati.

Con la crescita dei monopoli multinazionali si accelera la caduta delle barriere nazionali e si sviluppa l'unità e l'integrazione internazionale del capitale.

Come dice Marx:

"Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo in tutti i paesi... ha tolto all'industria le basi nazionali".

Lo stadio monopolistico del capitalismo già analizzato da Lenin all'inizio del secolo, ha raggiunto oggi un livello incomparabile, comportando enormi modificazioni negli assetti di potere e nelle relazioni interne agli Stati e tra gli Stati nel segno della globalizzazione e dell'interdipendenza economica.

Questo processo è tutt'altro che lineare: l'interdipendenza non fa che sviluppare un livello più alto di contraddizioni capitalistiche ed estendere la crisi su scala mondiale. Sviluppa, in definitiva, la tendenza alla guerra, che è insita oggettivamente nella stessa dialettica tra concorrenza e concentrazione dei capitali, come unica soluzione alla crisi.

3. Alla fine degli anni 70 diventa evidente che l'eccezionale movimento di ristrutturazione e di ridispiegamento con cui la borghesia imperialista mira a stabilire la sua egemonia mondiale non basta per superare la crisi.

"Quando il modello di accumulazione capitalistica fordista e il rapporto imperialista di tipo neocolonialista crollano, diventa chiaro agli occidentali che non ci sarà nessun superamento durevole senza una massa in discussione fondamentale della divisione di Yalta e senza una riunificazione-riorganizzazione del mercato mondiale sotto il dominio dei monopoli. Rompere la contraddizione Est/Ovest, con la sua eliminazione a medio termine superare questo vecchio ordine considerato come limite per una nuova fase di monopolizzazione".

(Prigionieri di Action Directe, dicembre 1991).

L'aggressività della politica di Reagan prima e di Bush poi, che hanno spinto ad un livello mai raggiunto la "guerra fredda" assediando letteralmente l'URSS e i paesi del Patto di Varsavia sul piano politico, economico e militare, nasceva da questa esigenza intrinseca del capitalismo occidentale ormai impossibilitato a trovare soluzioni alla crisi al suo interno.

Va ribadito con chiarezza, d'altra parte, che l'attacco del capitalismo occidentale trovava spazio nelle profonde modificazioni che nel corso degli anni avevano cambiato il volto della formazione sociale sovietica e il ruolo dello "Stato socialista" con l'abbandono della lotta di classe e con la progressiva apertura al mercato mondiale.

Le necessità poste dal processo di industrializzazione accelerata ha richiesto una pianificazione economica centralizzata in funzione di una rapida accumulazione capitalistica e ha fondato un modello di sviluppo delle forze produttive centrato sul capitalismo di Stato. Si è andata così formando progressivamente una burocrazia di stato e di partito a cui era delegato l'insieme dei processi decisionali e il potere reale. Parallelamente si è formata una vasta classe operaia e fasce sempre più ampie della popolazione si sono proletarizzate entrando a far parte della struttura produttiva capitalistica. La continua mobilitazione interna contro l'aggressione imperialista, la massiccia sovrastruttura ideologica e la garanzia a questa classe proletaria di condizioni di vita "dignitose", attraverso una serie di interventi di politica sociale, sono stati per anni elementi fondamentali dello sviluppo del capitalismo di Stato sovietico, che hanno potuto contenere, finché hanno retto, la dinamica in espansione del conflitto di classe.

In questo contesto i burocrati sovietici, e dell'intero COMECON, preso atto dell'unità del mercato mondiale, e dell'impossibilità dell'autosufficienza del capitalismo occidentale, fin dagli anni '60 avevano aperto i loro paesi alle importazioni occidentali e avevano cercato sbocchi nel mercato mondiale, dimensionandosi necessariamente rispetto alla divisione internazionale del lavoro esistente. Avevano consentito, inoltre, a varie multinazionali occidentali, di impiantare comparti e segmenti di produzioni all'interno dell'Unione Sovietica e degli Stati del COMECON. In questo modo non avevano fatto che aggravare la crisi complessiva del sistema sovietico, finendo per importare al suo interno gli effetti devastanti della crisi capitalistica generatasi in occidente; ponendo l'economia sovietica in una situazione di forte dipendenza che la indeboliva ancora di più nei confronti delle strategie dei monopoli occidentali e la spingeva verso un pesante indebitamento finanziario nei confronti del FMI e della Banca Mondiale.

La competizione con il complesso militare-industriale occidentale, portata all'estremo con il progetto statunitense delle "guerre stellari", ha indebolito e dissestato ulteriormente l'economia sovietica nel suo complesso.

In questo quadro i processi di efficientizzazione e razionalizzazione produttiva, la riforma complessiva della formazione sociale sovietica, per adeguarla pienamente alle leggi del mercato capitalistico, messi in atto con la Perestroika di Gorbaciov non potevano certo frenare in tempi brevi la crisi dell'URSS. Hanno approfondito, invece, le contraddizioni all'interno dei diversi settori della borghesia di Stato e di partito e, contemporaneamente, con il taglio delle spese sociali, la mobilità della forza-lavoro, l'innalzamento della produttività, hanno messo a nudo profonde contraddizioni di classe facendo saltare per sempre il "patto classe-stato" su cui si reggeva il sistema di potere sovietico.

Per tutti gli anni '80 abbiamo assistito, in URSS, al micidiale intrecciarsi degli effetti della crisi economica e sociale interna, di cui il polarizzarsi dello scontro di classe e il sorgere delle spinte centrifughe dei nazionalismi sono gli aspetti più evidenti, con quelli prodotti dalla competizione/aggressione economica degli USA e dell'intero Occidente scatenata per favorire la disgregazione dell'area economica dell'Est e per costruire rapidamente le condizioni per la sua completa integrazione nel mercato mondiale e per la penetrazione incontrollata dei capitali occidentali.

Oggi il crollo dell'area COMECON e la disgregazione dell'URSS sanciscono la fine del "bipolarismo" stabilito a Yalta come sistema di equilibrio planetario post-Seconda Guerra Mondiale e aprono un periodo caratterizzato da una profonda instabilità a livello mondiale.

All'interno del territorio della ex URSS vanno intensificandosi le dinamiche contraddittorie.

In primo luogo, il processo di riconversione verso una economia di "libero mercato" e di privatizzazione capitalistica delle strutture monopolistiche di stato esistenti accelera la tendenza all'integrazione nel sistema economico occidentale e nelle sue istituzioni-cardine (dal FMI/BM al GATT e, seppure non a breve termine, alla NATO e al G-7. Ciò sta portando alla completa sparizione del sistema sociale sovietico per consentire i margini di accumulazione necessari allo sviluppo delle imprese private e di monopoli economici in grado di predisporsi alla competizione sull'intero mercato mondiale. La politica che lo zar Eltsin persegue concretamente per rafforzare la "Grande Russia" è l'aspetto più esemplare della tendenza antiproletaria in atto.

L'estendersi della penetrazione delle multinazionali occidentali, alla ricerca di condizioni di valorizzazione più vantaggiose e per stabilire posizioni privilegiate di sfruttamento e controllo degli enormi mercati dell'ex URSS, velocizza ulteriormente la trasformazione radicale dei rapporti di produzione favorendo lo sviluppo del processo di concentrazione e internazionalizzazione dei capitali e, ad un tempo, concorrenza interimperialista. Già ora, ad esempio, l'amministrazione USA, di fronte alle maggiori possibilità di penetrazione all'Est aperto ai monopoli CEE e giapponesi, non esita ad ostacolare ogni intesa che possa, anche indirettamente, favorire l'affermarsi di una "area economica di libero scambio dall'Atlantico agli Urali" (per non parlare dell'avanzata giapponese verso l'area asiatica dell'ex URSS...).

L'insieme di questi mutamenti della formazione sociale sovietica si traduce in un approfondimento delle contraddizioni di segno capitalistico e in una intensificazione della lotta di classe in Russia e in ciascuna delle repubbliche della neonata Confederazione di Stati Indipendenti (CSI). Il drammatico peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei proletari fino al loro puro e semplice affamamento, il manifestarsi e il moltiplicarsi delle proteste e delle lotte proletarie in tutta la CSI, si accompagnano ad una pesante ridefinizione autoritaria degli Stati, degli assetti di potere nella Russia e nelle altre repubbliche, per consentire la ristrutturazione produttiva e controllare/contenere le esplosioni sociali che ne derivano.

Questo insieme di profonde trasformazioni aprono all'interno della CSI un nuovo significativo scontro di classe, di enormi proporzioni, in una situazione già sconvolta dall'espandersi dei conflitti etnici e dall'affermarsi crescente dei nazionalismi.

Questo ingresso di milioni di uomini e donne nella lotta di classe e il radicarsi della contraddizione tra proletariato e borghesia nell'intero territorio dell'ex URSS, dimostra quanto il progetto imperialista di "nuovo ordine mondiale, che dovrebbe sorgere dalle ceneri del "bipolarismo", sia utopico e di improbabile realizzazione.

Il crollo del "blocco dell'Est" non significa affatto la "fine del comunismo". Tutt'altro. L'entrata di centinaia di milioni di proletari sull'aperto terreno dello scontro di classe riafferma ancor più l'esigenza della rivoluzione comunista e di un rilancio dell'internazionalismo proletario.

4. Con gli anni '90 si apre un periodo di riorganizzazione mondiale e di ridefinizione della divisione internazionale del lavoro di difficile valutazione al momento, e di nuove contraddizioni e competizioni capitalistiche nel quadro di un equilibrio di forze mutato a favore dei paesi occidentali.

Questa fase è attraversata da tempo da una contraddizione storica causata dall'agire di due fattori contrastanti. La perdita di egemonia USA, che aggrava la crisi capitalistica in quanto con essa viene meno il centro di un sistema di rapporti imperialisti sempre più complessi e, nello stesso tempo, la politica militare sempre più aggressiva degli Stati Uniti, che cercano di porre un freno al loro declino imponendo ovunque la pax americana.

Tutto questo non fa che accrescere l'instabilità del sistema mondiale e moltiplicare i conflitti e le spinte centrifughe: accelerare oggettivamente la tendenza alla guerra.

Oggi gli USA stanno spingendo al massimo livello il loro ruolo di gendarme mondiale, sia per far fronte ad ogni possibile sviluppo progressista e/o rivoluzionario nel Sud del mondo, sia per cercare di assestare la loro leadership in rapporto alle altre potenze interne al sistema imperialista.

Dagli anni '70, infatti, la perdita di egemonia USA è una spina nel fianco delle amministrazioni statunitensi, che dai tempi di Carter e Reagan si sforzano di riconquistare una centralità all'economia e al sistema di potere USA, contro l'emergere delle nuove potenze Giappone e CEE. La guerra USA è una scelta generale e strategica delle amministrazioni statunitensi perché essi sono ormai costretti a muoversi sul terreno della guerra per riaffermare una centralità e riconquistare un'egemonia perduta da anni.

"Per gli USA questa guerra [quella del Golfo] è l'occasione opportuna per legare la questione del ruolo di leadership all'interno del blocco occidentale ancora di più alla forza militare. Nello stesso tempo con questa guerra vogliono naturalmente risanare la loro economia sfasciata. Attualmente nel Golfo ha luogo anche la lotta di concorrenza degli Stati-cuore imperialisti, cioè del centro, l'uno contro l'altro, per il potere futuro e l'influenza nella regione medio-orientale e l'egemonia all'interno del campo imperialista".

(RAF, Commando Ciro Rizzato 15/2/91).

Fin dalla guerra nel Golfo, gli scopi statunitensi sono stati espliciti. Vinta la guerra le dichiarazioni per riaffermare l'egemonia USA sono diventate continue ed aggressive.

Da quelle dei generali del Pentagono:

"L'importante è capire che noi non smobilitiamo come dopo la II. Guerra Mondiale o dopo la Corea. Il mondo è ancora un posto veramente pericoloso... L'ultima lezione che dobbiamo trarre da questa operazione è che è importante rimanere impegnati in tutto il mondo. Non è il momento di tornare a casa. Dobbiamo rimanere in Europa, nel Sud-Est asiatico, in Medioriente così come nel Pacifico"

(Colin Powell, intervista del 18/4/91).

A quelle di Bush di fronte alla grave recessione interna in USA nel post-guerra:

"Noi siamo l'indiscusso e rispettato leader del mondo... La guerra fredda è finita e noi dobbiamo rimanere impegnati oltre oceano per guidare la ristrutturazione economica, costruire liberi mercati. Noi vinceremo la guerra della competizione economica"

(discorso alla Nazione, febbraio '92).

Ma questa guerra alla recessione interna, per gli USA sembra già persa in partenza, di fronte all'avanzare della crisi e ai disastri economici interni prodotti negli anni '80 dalle politiche reaganiane degli armamenti e oggi dall'intervento nel Golfo. I dati della crisi USA restano confermati nel tempo e tendono ad aggravare tre aspetti principali.

Gli USA sono il paese con il più elevato debito estero ed esso continua ad aumentare. Sono il paese più colpito dalla recessione economica: le industrie statunitensi di alta tecnologia sono sempre meno competitive rispetto a quelle giapponesi ed europee, e controllano sempre di meno le loro quote di mercato. Nel complesso si allarga il fossato tra USA-Giappone-RFT sul piano della crescita industriale (il tasso di crescita dell'anno 1989/90 è rispettivamente: - 0,5%, + 6,8%, + 5,6!). Infine i livelli di disoccupazione e povertà all'interno dell'impero sono in continua aumento e tali da far ricordare gli scenari della depressione degli anni '30.

L'insicurezza del posto di lavoro e di un reddito garantito ha colpito fasce crescenti della popolazione statunitense, diffondendo un panico generalizzato in stridente contrasto con il ruolo di superpotenza mondiale, ma comprensibile di fronte alla bancarotta di imprese-simbolo per l' "american way of life", come PANAM, TWA, MACI'S, e la crisi di giganti planetari come IBM, General Motors, Ford... Per non parlare dei timori incontrollabili generati dai ricorrenti rischi di crolli finanziari a Wall Street!

Gli afro-americani, i portoricani, gli ispanici, i nativi americani e settori sempre più vasti di classe operaia, sono le fasce di popolazione più direttamente colpite tanto dalla recessione prolungata quanto dalle misure economiche adottate dall'amministrazione Bush.

L'acuirsi della lotta di classe segna sempre di più il conflitto sociale anche nel cuore dell'impero.

5. Il rapporto Nord-Sud oggi è un rapporto di guerra su tutti i fronti perché le necessità di sfruttamento delle risorse e di controllo del mercato a favore delle strategie di espansione planetaria dei monopoli mondiali impongono di stroncare ogni forma di potere autonomo nelle aree del Sud.

L'imperialismo occidentale non solo cerca di impedire che si affermino le lotte di liberazione e di autodeterminazione dei popoli e contribuisce attivamente con le sue strategie sovranazionali (direttive del FMI in testa), le sue operazioni speciali, alle politiche di repressione del proletariato in ogni angolo del Tricontinente, ma non consente più ad alcuna borghesia nazionale di raggiungere quella soglia di potere economico-politico-militare che possa porla nelle condizioni di svolgere un ruolo guida nell'area geopolitica in cui è inserita e di manifestare una qualche autonomia dall'impero e dalle sue esigenze.

Se il modello imperialista della "guerra a bassa intensità", aveva già portato alle occupazioni militari di Grenada, Panama, all'assedio decennale del Nicaragua sandinista fino al suo crollo, all'intervento in Salvador contro la guerriglia e alla "guerra della droga" come modello operativo contro le lotte di liberazione in Perù, Colombia e in tutta l'America Latina, la guerra contro l'Irak degli USA e della coalizione occidentale sotto l'ombrello ONU, chiarisce il nuovo significato del diritto internazionale del "nuovo ordine mondiale" che si vuole costruire.

La sconfitta dell'Irak deve costituire un monito e una lezione per tutti i paesi del Tricontinente e per le borghesie nazionali arrivate al potere nei diversi paesi con la dissoluzione degli imperi coloniali.

Di fronte ai processi di ricompradorizzazione, di pacificazione forzata e di guerra messi in atto dall'imperialismo in ogni area del mondo deve diventare chiaro ad ogni borghesia nazionale che nessuna opposizione verrà più tollerata.

Le borghesie nazionali non solo non riescono più a mantenere un ruolo progressista verso il cambiamento, ma devono trasformarsi direttamente in cinghie di trasmissione degli interessi imperialistici nei paesi del Tricontinente.

Questa nuova realtà dello scontro pone milioni di proletari del Sud direttamente a contatto con la dimensione internazionale del loro nemico - nulla è più chiaro dell'esempio fornito dalla guerra nel Golfo - e crea le condizioni oggettive di un antagonismo sempre più forte contro l'imperialismo e il suo sistema di sfruttamento, affamamento e distruzione del Sud.

Nell'area mediorientale, in particolare, l'aggressione imperialista ha come scopo quello di frantumare anche la sola idea della Nazione Araba, costruendo divisioni e schieramenti contrapposti all'interno delle borghesie arabe fino al consolidamento di un fronte di alleanze con l'imperialismo statunitense ed europeo.

Nello stesso tempo USA e CEE hanno riaffermato il ruolo strategico, in funzione occidentale, dell'entità sionista nell'intera area con continui aumenti degli aiuti economici e militari e con l'aperto sostegno politico a livello internazionale. Parallelamente hanno affidato alla Turchia un ruolo-cardine nella regione, dotandola di strumenti e basi militari che la rendono un vero avamposto della NATO anche negli interventi contro i popoli del Medio Oriente.

Con questo significativo salto di qualità l'imperialismo cerca di stabilizzare l'area mediorientale liquidando il ruolo della rivoluzione palestinese, controllando l'espandersi della lotta di liberazione del popolo curdo e facendo arretrare l'intero fronte di lotta del popolo arabo.

Ma si trova sempre più di fronte al carattere esplosivo delle contraddizioni aperte dalle questioni palestinese e curda, diventate ormai i principali catalizzatori delle aspirazioni antimperialiste nella regione, e dell'estendersi delle lotte proletarie in molti paesi arabi.

La strategia di guerra contro il Sud è guidata dagli USA, ma vede necessariamente un ruolo attivo della CEE e del Giappone, che non possono non partecipare alla creazione del "nuovo ordine mondiale" per le loro esigenze strategiche. Pur nelle divergenze di interessi, essi sono uniti agli USA nella guerra imperialista contro il Sud del mondo. Ieri contro l'Irak, oggi contro la Libia, ...

Questo scenario definisce nettamente il ruolo della "Unione Europea" e della stessa Italia, e ha già portato a nuove e concrete decisioni e ridislocazioni dei centri di comando e delle forze NATO, in quanto è la strategia dell'alleanza ad essere cambiata, diventando planetaria, dotandosi di una forza di rapido intervento capace di essere protagonista a fianco degli USA nelle "operazioni di polizia internazionale" in particolare contro il Sud. Intorno agli USA i gendarmi del mondo si sono moltiplicati e vanno attrezzandosi per il futuro come dimostra il dibattito in corso in Europa e in Giappone per dotarsi di una politica e di una forza militare autonoma.

La nuova epoca aperta dalla fine del "bipolarismo" e segnata dal persistere della crisi di egemonia USA, vede una profonda ridefinizione degli assetti di potere e delle strategie imperialiste mondiali come dimostrano le decisioni che i vertici del G-7 sono costretti ad adottare per adeguarsi ai cambiamenti in atto. Con il vertice di Londra (luglio '91)

"il G-7 si è evoluto in una specie di direttorio politico globale di Europa, USA, Canada, Giappone... Il mondo si sta muovendo verso un nuovo tipo di superpotenza; di coalizione la quale riconosce che nessuno, inclusi gli USA, è in grado di risolvere i problemi contando esclusivamente sul proprio peso. Ma non lo possono fare neppure le Nazioni Unite senza una potente e determinata leadership".

(International Herald Tribune, 25/7/91).

Questo direttorio mondiale sta agendo di fatto da tempo ed ha trasformato l'ONU in un suo braccio politico e il "diritto internazionale" in uno strumento di legittimazione di ogni intervento. Lo si è visto con le risoluzioni ONU adottate prima, durante e dopo la guerra del Golfo e con quelle che sono state decise recentemente contro la Libia. Si è affermata così - come dice De Michelis - "la grande idea-forza, il vero concetto nuovo di questo scorcio di secolo... sospendere la sovranità (di uno Stato) se essa è esercitata in modo criminale".

In questo modo la vocazione principale dell'ONU diventa il diritto di ingerenza negli affari interni di singoli Stati e di intervento "a fini umanitari", fino all'idea di predisporre una "forza militare internazionale" sempre pronta, come è emerso nel Consiglio di Sicurezza del febbraio '92, che ha visto la prima significativa presenza della Russia, aspirante nuova potenza al posto della scomparsa URSS. Su queste basi e con questi strumenti l'imperialismo ha costruito le premesse per intensificare ed estendere la guerra al Sud.

Nell'epoca dell'interdipendenza planetaria il diritto imperialista di ingerenza ed intervento è generalizzato: "L'idea statunitense del nuovo ordine mondiale è che ogni situazione in ogni parte del mondo porterà a tensioni in altri paesi della stessa regione e da qui comporterà disordine nel mondo. Così gli USA hanno avanzato certi principi per ristabilire l'ordine nel mondo" (Forward, luglio 1991).

6. La spinta alla mondializzazione dell'economia come risposta alla crisi capitalistica ha portato ad un mondo caratterizzato dai processi di globalizzazione ed interdipendenza economica, che attraversano ormai ogni area del centro e della periferia generando violentissime contraddizioni a livello planetario. Dentro questo orizzonte si sviluppa la tendenza alla concentrazione e internazionalizzazione dei capitali portando all'estremo la concorrenza tra monopoli multinazionali e multiproduttivi e la polarizzazione tra ricchezza e miseria, tra borghesia e proletariato. Un processo che non fa che alimentare le contraddizioni e moltiplicare gli scontri interimperialistici nel mondo intero.

Oggi assistiamo ad una tappa intermedia - molto più avanzata di quella analizzata da Lenin - di questa spinta alla mondializzazione: la regionalizzazione, cioè l'aggregazione economica in aree continentali per creare le condizioni attraverso cui i capitali più forti si uniscono, costruendo monopoli regionali continentali, per raggiungere le dimensioni necessarie a vincere la concorrenza e a valorizzarsi. Questo è il punto di equilibrio attualmente raggiunto dal capitalismo per sopravvivere alla crisi, ma anche un processo che in prospettiva aggraverà e moltiplicherà i conflitti e gli scontri tra i diversi blocchi regionali, alimentando ancora di più la tendenza alla guerra, di fronte alla crisi dell'intero sistema e alla competizione spietata tra monopoli economici regionali con urgenza di profitto e di mercato sempre più grandi.

Ciò significa, semplicemente, che la dinamica unitaria che spinge ed accelera i processi di aggregazione economica continentale e regionale approfondisce, contemporaneamente, la dinamica contraddittoria all'interno del sistema capitalistico, per la proiezione planetaria dei monopoli, degli Stati e dei blocchi regionali. Già oggi la battaglia da tempo in atto a livello del GATT (Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e Commerciali) mette a nudo le reciproche politiche protezionistiche a livello di area e, quindi, la vera e propria guerra economica che si va addensando.

Come altrettanto evidente è l'aggressività dei monopoli più forti, e degli Stati che li sostengono, al di là delle loro aree di riferimento e mercato. Queste sono soprattutto delle piattaforme/fortezze dentro cui rafforzarsi per proiettarsi con più successo verso l'esterno.

La tendenza a superare la crisi con la costituzione di "blocchi regionali" in realtà, ripropone ad un livello diverso e più alto la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. Se da una parte la regionalizzazione porta con sé il superamento delle forme di dominio e di rapporti produttivi ad ambito nazionale, dall'altra crea un'altra gabbia per le forze produttive, destinata a trasformarsi in una nuova catena per il loro sviluppo. Di fatto è l'impronta "cosmopolita", mondiale, data alla produzione dalla borghesia fin dal sorgere del capitalismo, che non accetta barriere di alcun genere alla sua espansione. L'ambito regionale, in prospettiva si rivela altrettanto asfittico e limitante di quello nazionale, per le stesse politiche protezionistiche e di difesa adottate a livello di area!

Alla fine, irrimediabilmente,

"questi rapporti (di produzione) da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro catene"

(Marx).

Assieme al consolidarsi e potenziarsi nel corso degli anni del polo economico-politico-militare europeo, con la sua proiezione naturale nell'area mediorientale-mediterranea-africana, ha preso vita la formazione di un'area di libero scambio nel Nord-America, dall'Alaska al Messico, attorno agli USA, con proiezione nell'area Caraibica e Latino-americana, come anche un terzo processo nel Sud-Est Asiatico intorno al Giappone, con proiezione nell'intera area dell'Oceano Pacifico.

Questo potente processo di concentrazione in poli economici regionali investe l'intero centro imperialista e assesta la tendenza in atto alla definizione di un'area del dollaro intorno agli USA, di una dello yen attorno al Giappone e di una terza dell'ECU intorno alla "Unione Europea". Essi si presentano come i principali processi di stabilizzazione del nuovo ordine economico e della nuova divisione internazionale del lavoro.

Anche nelle aree del Tricontinente hanno cominciato a prendere forma diversi processi di aggregazione in blocchi economici regionali. Da quello nell'area mediterranea della "Unione del Maghreb Arabo" (HUMA), a quello nell'America Latina del MERCOSUR, a quello nell'area del Sud-Est Asiatico attorno all'Indonesia.

Questa tendenza alla regionalizzazione si rivela dominante a questo stadio dello sviluppo capitalistico.

[continua su Controinformazione internazionale n.9]

Collettivo Comunisti Prigionieri "Wotta Sitta"

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