SENZA CENSURA N.39

ottobre 2013

 

editoriale

 

Da un po’ di tempo a questa parte sentiamo spesso parlare con toni trionfalistici delle cosiddette rivolte che si susseguono in giro per il mondo e ancora più spesso ascoltiamo roboanti dichiarazioni di solidarietà con i popoli che le mettono in atto.

Spesso però sentiamo poco altro nel merito di quanto succede nella realtà di cui ci si dichiara paladini, e questo ci ha spinto a fare alcune riflessioni.

Le rivolte istintivamente piacciono, su questo non c’è alcun dubbio.

Forse perché materializzano un immaginario che spesso è frustrato dalla realtà, e rendono visibili quelle idee di rivoluzione oggi così lontane dal nostro quotidiano.

Masse che si mobilitano contro i potenti, piazze piene, scontri con la polizia, riappropriazioni. Come può non affascinare tutto questo?

Certo, ci sono rivolte che piacciono di più e altre di meno, alcune che vengono valorizzate di più, altre invece che restano praticamente ignorate.

A volte, per identificarsi con alcune rivolte diventano rilevanti aspetti apparentemente secondari quali il fattore estetico, i linguaggi, i simboli. Oppure è sufficiente riconoscere un "nemico" comune o una generica condizione comune, come per esempio la crisi. Questo spesso basta a "condividere", a farsi sentire in qualche modo parte di quella rivolta, o ancora meglio di far sentire quella rivolta come parte di un nostro stesso percorso.

Anche se in realtà il più delle volte non è per nulla facile orientarsi tra le sigle, le organizzazioni o anche semplicemente gli schieramenti politici che attraversano o si determinano nelle varie rivolte. E men che meno con le loro prospettive.

Ed ecco allora che si parla più genericamente del "popolo".

E non si può non sostenere un popolo in rivolta.

Ma non possiamo non considerare che il popolo è una categoria per sua natura di carattere ambiguo e interclassista. Cos’è il popolo, cosa vuole?

E proprio per questo una rivolta di per se è una cosa molto differente da una rivoluzione.

Evidentemente non si tratta solo di una speculazione filologica, ma di una riflessione che ha l’obiettivo di aprire una discussione su cosa può significare oggi parlare di internazionalismo.

Probabilmente è vero: per buona parte del novecento è stato più facile orientarsi.

Non era difficile capire che la rivoluzione cubana andava sostenuta mentre, per estremizzare, il golpe dei colonnelli in Grecia era da condannare.

Il golpe, per definizione, richiama qualcosa di tramato nell’ombra, di calato dall’alto, un’operazione ordita da pochi e, soprattutto, da potenti.

Mentre la rivoluzione è per definizione "popolare", di massa, è contro i potenti, contro l’ingiustizia, è combattuta nelle piazze e non nei palazzi.

Ma queste qualità, più romantiche che politiche, non erano certo fondamentali per scegliere da che parte stare.

Il punto centrale è che era forse più semplice attribuire una scelta di campo ai processi di trasformazione politica e sociale che avvenivano, cioè cogliere gli interessi di classe che muovevano tali processi, la direzione verso la quale erano indirizzati.

L’osservazione politica di quanto accadeva era infatti così attenta che spesso il dibattito all’interno del movimento entrava profondamente nel merito degli avvenimenti, disquisendo sull’opportunità o meno di un determinato obiettivo o delle alleanze fatte da questa o quella organizzazione (spesso, infatti, proprio per superare le differenze tra le diverse organizzazioni nascevano i Fronti. Come accade ancora oggi...).

E di conseguenze si sviluppava l’iniziativa politica qui, il sostegno, la solidarietà anche concreta e militante. Ma questo sostegno era profondamente motivato da un punto di vista di classe che si riconosceva comune a quello espresso dalle organizzazioni interne ai processi rivoluzionari.

È paradossale pensare che in quegli anni, a fronte di strumenti di comunicazione a dir poco primitivi (l’avvento dei fax venne salutato come un determinante salto di qualità…) le informazioni fossero molto più precise ed approfondite, almeno dal punto di vista politico.

Circolavano più lentamente, forse. Ma quel che c’era da sapere lo si sapeva bene.

Adesso, invece, in piena globalizzazione, con strumenti di comunicazione efficientissimi, con i social network e tutto il resto, l’impressione è che si resti più in superficie, che il più delle volte ci si limiti a valorizzare solo quegli aspetti romantici di cui scrivevamo più sopra, facendo poco più che semplice demagogia.

E probabilmente questo è un problema politico tutto nostro.

Nel senso che all’interno dei processi di trasformazione che continuano ad avvenire in giro per il mondo gli interessi di classe sono ancora assolutamente determinanti. Forse meno schematicamente chiari, ma determinanti.

Come ben sappiamo, il sistema di dominio su scala globale non è cambiato; si è sicuramente evoluto, ma mantiene inalterate le sue profonde radici di classe.

E questo lo sanno fin troppo bene anche le componenti rivoluzionare che vivono in prima persona questi avvenimenti perché solitamente sono le prime ad essere colpite dalla spietata forza del comando, in qualsiasi forma esso si manifesti.

È dunque un nostro problema decidere se cercare di dotarci di maggiori strumenti di comprensione. O meglio, dev’essere una nostra scelta politica.

Quando ci troviamo ad analizzare avvenimenti di tale rilevanza, quali appunto le cosiddette "rivolte", sarebbe quindi necessario sviluppare un lavoro di approfondimento sul contesto, le condizioni e i protagonisti; e, soprattutto, tentare di comprendere quali sono le componenti che si adoperano realmente da un punto di vista di classe e quali sono i loro obiettivi politici.

Le rivolte possono appassionare, possono anche contenere al loro interno i germi della rivoluzione; ma al tempo stesso possono alimentare il virus del capitalismo, dell’opportunismo, di quella stessa tendenza reazionaria che contraddistingue le fasi acute di crisi come quella attuale.

Del resto basta guardare quanto è successo e sta ancora succedendo nei paesi delle cosiddette primavere arabe o, nel passato, pensare per esempio a quanto è successo negli anni successivi alla cacciata dello scià in Iran.

Ovviamente nessuno mette in dubbio che le rivolte contro sistemi autoritari siano importanti e rappresentino sicuramente passaggi storicamente rilevanti, ma nello stesso tempo resta fondamentale per la sinistra di classe e rivoluzionaria non limitarsi ad esprimere un sostegno generico ad un popolo ma cercare di individuare le forze progressiste e rivoluzionarie impegnate in quei processi di trasformazione, e dove possibile tessere con loro relazioni e sostegno concreto, politico e non solo.

Siamo convinti che un approccio più politico all’internazionalismo avrebbe un duplice valore d’uso: da una parte sicuramente stimolerebbe l’analisi delle dinamiche di comando che qui e ora sono protagoniste, in un modo o nell’altro, di quel che succede in ogni parte del mondo. Dall’altra consentirebbe forse di individuare percorsi e obiettivi comuni a quelle componenti che esprimono chiari connotati di classe, o quanto meno ad evitare di trovarsi a sostenere forze e obiettivi che vanno in direzione opposta.

Cosa ci lega alle correnti kemaliste in Turchia, o alle forze islamiche al potere a Gaza, braccio di una borghesia islamica sempre più presente sul terreno della competizione globale? Non è diverso dalla relazione che intercorre tra borghesia e proletariato all’interno delle nostre metropoli.

Un internazionalismo di classe, dunque, che non esprime un generico sostegno ad un "popolo" ma che sia determinato da tempi e da un piano politico/ideologico autonomi dagli interessi di quelle componenti borghesi che spesso riescono invece a prendere in mano il boccino delle cosiddette rivolte, raccogliendone i frutti da un punto di vista reazionario. Con risultati ben distanti, dunque, dagli obiettivi di una gran parte di coloro che vi hanno partecipato. E dai nostri, che li vorremmo sostenere.



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