SENZA CENSURA N.36

marzo 2012

 

editoriale
 

“[...] I grandi problemi, quelli storici ed epocali, non solo restano posti nella loro interezza, ma sono di giorno in giorno posti in modo più acuto. [...]”. (Sergio Spazzali, da Se l’aquila ferita vola rasoterra non vuol dire che per questo sia diventata una gallina, in Chi vivrà vedrà, 1984)

 

Qualche settimana fa, durante il lavoro di chiusura del numero, abbiamo appreso che Mumia Abu-Jamal (il giornalista afroamericano ed ex militante del Black Panther Party, prigioniero politico da ormai tre decenni) è stato trasferito dal Braccio della Morte del carcere statale di massima sicurezza della Contea di Green in una sezione del Carcere Statale di Mahanoy, a seguito della revisione definitiva della condanna a morte in ergastolo.

Vogliamo darne conto qui perché la storia di Senza Censura nasce proprio dall’impegno che a metà degli anni novanta ci ha visti protagonisti della campagna promossa dal circuito internazionale dei prigionieri politici e che ha strappato Mumia dall’esecuzione, allora fissata per l’agosto del 1995.

In questi anni Mumia è stato un testimone attento e puntuale di quanto accaduto negli Stati Uniti, soprattutto per quanto riguarda i processi di trasformazione del sistema carcerario. Un punto di vista importante, da “dentro”, o per dirla con le sue parole, dal “ventre della bestia”.

L’atto giudiziario che ha tecnicamente sancito il passaggio dalla condanna a morte in ergastolo (che, per quanto concerne il sistema carcerario statunitense, equivale a un “fine pena mai” senza alcuna possibilità giuridica di appello), sul piano legale non può che essere letto in termini positivi, soprattutto a fronte di un braccio di ferro impari e che sarebbe potuto proseguire per un tempo indeterminato tra appelli e contro-appelli. Dall’altra parte, è evidente che la battaglia per la sua libertà e contro quel “fine pena mai”, che assomiglia a una condanna a morte “dolce” ma pur sempre una condanna a morte, è tutt’altro che finita. È una lotta che deve continuare, interna, e non potrebbe essere altrimenti, alla stessa lotta a sostegno di tutti i prigionieri politici rivoluzionari rinchiusi nelle carceri dell’imperialismo in tutte le parti del mondo.

Proprio partendo da questa consapevolezza, le notizie relative a Mumia ci hanno spinto a fare una riflessione più in generale, su cosa sia cambiato in questi anni, dentro e fuori il sistema-carcere e nel rapporto rigorosamente strutturale tra i due piani.

Il lavoro di Senza Censura, infatti, si sviluppò allora (come già abbiamo avuto modo di sottolineare in precedenti editoriali) a partire dalla convinzione che la repressione in tutte le sue forme e con i suoi processi di trasformazione non potesse essere trattata come un elemento sovrastrutturale, accessorio alle strategie del potere, ma viceversa andasse considerata come elemento strategico di un sistema complesso di fattori, ambito articolato di sperimentazione, costantemente operativo in un processo costante di rispecchiamento con l’intero sistema di relazioni sociali dominate dal capitale.

Per sviluppare questa riflessione abbiamo quindi pensato ad un ipotetico dialogo con Mumia che, riattraversando questi suoi trent’anni di carcere, tentasse di individuare quali fossero alcuni degli elementi capaci, allo stesso tempo, di rappresentare una sintesi delle strategie politiche fin qui messe in campo dall’imperialismo e di risultare sostanziali sia nell’analisi dei processi di trasformazione avvenuti all’interno del carcere sia di quelli sviluppatisi al suo esterno.

Da questo dialogo sono emersi principalmente tre elementi, certamente già presenti nel nostro lavoro di analisi come del resto in tutte quelle dinamiche ed esperienze che all’interno dello scontro sociale e rivoluzionario si sono venute a determinare. Tre elementi sempre più tra loro strettamente connessi, sempre più centrali nelle modalità di attacco dell’imperialismo: crisi, guerra, differenziazione.

 

Crisi

Il perdurare di uno stato di crisi economica (per approfondimenti sulla questione, rimandiamo ai materiali pubblicati nei precedenti numeri di Senza Censura) e la sua continua estensione e stratificazione, dal punto di vista del capitale determina e sviluppa una sistematica differenziazione economica e sociale sempre più verticale tra ricchi e poveri (siano essi Paesi, aree o strati sociali) in dialettica, come già specificato poco più sopra, con una pratica repressiva composita e del tutto interna alle strategie dell’agire capitalistico; nel campo lungo dell’imperialismo, questa crisi legittima l’uso della guerra, potendo optare, in questo senso, tra differenti forme, modalità d’intervento e applicazioni.

Sul piano interno, una delle finalità è certamente quella di governare, in una fase storica dove ogni possibile mediazione riformista si è definitivamente esaurita, l’ampliarsi di contraddizioni sociali dovute al progressivo peggioramento delle condizioni concrete di esistenza, in un contesto che vede una vasta perdita di legittimità dell’infrastruttura politica dello Stato.

Sul piano esterno, l’obiettivo è garantirsi nuove risorse e nuovi mercati, imponendosi, riproducendo o mettendo definitivamente a tacere potenziali “concorrenti”.

Vi è un nesso organico tra piano interno e piano esterno, che non possiamo leggere e trattare al di fuori della relazione inscindibile che li vede come differenti intervalli del medesimo piano, come due facce della stessa medaglia. È esattamente a partire da questo rapporto e dai processi che scaturiscono al suo interno che si vengono a esplicitare le pratiche distruttive di gestione della crisi economica e politica. Un qualsiasi tentativo di analisi che precluda questa correlazione, non potrà che tradursi in un processo di riduzione.

Dentro questo quadro e in dialettica con queste condizioni, il carcere è uno dei nodi attivi del processo in atto, non un semplice terminale, sollecitato costantemente a contenere le politiche economiche antipopolari così come a dare (e a iniziare a dare, almeno in tendenza, per quanto riguarda l’Italia) risposte significative in termini di profitto. La sua stessa struttura si fa sempre più complessa, in grado di articolare gestione e interventi diversificati, tra tentativi di linearità e contraddizioni. Interno al tessuto economico, politico, sociale, urbano delle metropoli, i suoi muri di cinta abbassano efficientemente l’opacità della loro consistenza, a regolare rapide entrate, lente uscite e nuovi criteri di sfruttamento umano. Non più vecchi muri “letteralmente chiusi” quindi, a proteggere dividendo, ma - nella crisi - elemento di crisi a tutto tondo, mentre le celle man mano che segregano detenuti, si fanno sempre più piccole, “private”. Oltre i confini nazionali, il carcere si rimodella in un “bene d’esportazione”, veicolato dall’ambito militare, tra isolamento, deprivazioni o sovrastimolazioni sensoriali, interrogatori coercitivi e la pratica diffusa della tortura, abusi continuativi e violenze. I Guantánamo Bay, gli Abu Ghraib, i Tikrit, i Bagram (per citare la luce del sole), nati nella cosiddetta sospensione temporanea delle leggi ordinarie, si installano, si attestano, si formalizzano, vengono messi a sistema e restituiti entro i confini nazionali come ulteriore elemento di differenziazione strutturante di un controllo repressivo che, giocando sulla produzione di emergenze a catena e in un’ottica di ripristino costante dell’ordine (anche sulle contraddizioni che via via scaturiscono), non ha più limiti di controllo.

 

Guerra

Se il capitale, nella sua riproduzione allargata oltre ogni confine, è uno e plurimo e in ogni caso distruttivo, la guerra è una testa con tante facce che si espande e si applica nelle molteplici configurazioni a disposizione, su e contro tutto ciò che non si adatta al dominio imposto dall’imperialismo, sia per quanto riguarda il fronte esterno che per quanto concerno il fronte interno. Non ha, la guerra, un carattere statico né singolare né è possibile tentare di inquadrarla attraverso specifiche prerogative. Così come, molte sono le dimensioni proprie della violenza della guerra: bombe, invasioni, occupazioni metodiche sul tempo breve - medio - lungo, (neo)colonizzazioni “umanitarie” rivestite a nuovo, da una parte; disgregazione del quotidiano, licenziamenti di massa, licenziamenti mirati, precarietà, competizione individuale, gabbie, dall’altra parte. Investimenti costanti in spese militari e nella militarizzazione del territorio, frontiere che tornano a essere barriere a mano armata quando si tratta di agire sul fronte dei respingimenti degli gli immigrati o dei loro rimpatri previo periodo di internamento nei CIE. Il saccheggio, prepotente e incessante, delle risorse umane e dei territori, i tagli alla sicurezza e i morti sul lavoro, la pratica militare per imporre progetti che devastano intere aree geografiche e vaste zone del pianeta. Questo insieme di politiche e di nessi tra differenti tipologie di intervento, definisce e qualifica l’elemento della guerra, ed è questo sistema che dispone la rete di provvedimenti e azioni che si dispiegano nel particolare di una nazione o di una macro-regione così come sul piano globale.

Il recente National Defense Authorization Act reso esecutivo da parte del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti diviene, in questo contesto, un oggetto particolarmente esemplificativo. Siglato da Obama lo scorso 31 dicembre dopo mesi di lavoro trasversale sottotraccia tra Repubblicani e Democratici, l’Atto formalizza un modus operativo che, da amministrazione in amministrazione, da presidente in presidente, nella supposta “lotta al terrorismo” dell’ultimo decennio (per delimitare il campo di osservazione agli ultimi dieci anni), ha garantito il piano di interventi in termini sovragiurisdizionali, diretti a colpire “con tutta la forza appropriata quelle nazioni, quelle organizzazioni o individui che pianificano, commettono, sostengono attacchi terroristici” (Authorization for Use of Military Force, 18 settembre 2001). Dentro e fuori i confini statunitensi, grazie anche alla disposizione straordinaria contenuta nel suddetto Atto che consente la detenzione indefinita senza processo di chiunque sia anche solo sospettato di fornire un sostegno a singoli o gruppi identificati come “ostili”. O, ancora, grazie a leggi come l’Enemy Expatriation Act, tuttora al vaglio e non distante, come qualcuno ha avuto modo di commentare, dalle Leggi naziste di Norimberga promulgate nel settembre del 1935, con le quali veniva preclusa la cittadinanza tedesca sulla base della “razza”, “per la protezione del sangue e dell’onore tedesco”, e della “fedeltà” dimostrata. Nel caso dell’EEA, la legge, qualora venisse approvata (attualmente è al secondo step dei sei previsti), riguarderebbe qualsiasi individuo ritenuto “ostile contro gli Stati Uniti relativamente all’elenco di atti per i quali i cittadini degli Stati Uniti sulla base della serie di atti predefiniti perderebbero la loro nazionalità”.

Non solo una temporanea sospensione dei diritti a fronte di una fantomatica (e perpetua) emergenza, ma un controllo repressivo e un annientamento nel controllo che passa, come abbiamo avuto modo di scrivere nel paragrafo precedente, attraverso l’istituzionalizzazione di “campi di concentramento” di natura militare in stile Guantánamo Bay e Abu Ghraib, anche su suolo statunitense.

La guerra al terrorismo internazionale è una strategia di controrivoluzione preventiva e la scala di riferimento è sempre più quella mondiale. In termini molto pragmatici, se il nemico è ovunque, ovunque va isolato e colpito. Al di fuori del quadro di compatibilità imposto dalla borghesia imperialista, tutto diventa terrorismo, chiunque - automaticamente - si fa nemico.

 

Differenziazione

La differenziazione, intesa in primo luogo nella sua prioritaria collocazione strutturale e strutturante interna alle strategie della borghesia imperialista, ha assunto nel corso della storia (nel suo procedere e nelle sue fasi) una posizione particolarmente rilevante. Posizione che, amplificando un certo grado di autonomia, proprietà e funzioni operative, ha individuato nel rapporto tra campo giudiziario e sistema carcerario uno dei terreni ideali di applicazione, verifica, approfondimento. Non a caso, ha caratterizzato lo sviluppo dell’azione repressiva negli ultimi decenni, arrivando a declinare e a normare l’estensione degli stessi strumenti legislativi e giudiziari in rapporto con la gestione concreta delle carceri, qui come nel resto mondo.

Se rimaniamo per un attimo entro i confini italiani, facendo leva sulla logica premiale (un criterio “evidente” - anche e soprattutto grazie alle lotte di molte componenti del movimento di classe - inquadrato in una pratica controrivoluzionaria e antiproletaria più generale), da una parte ha specializzato sempre di più le attività controrivoluzionarie e di gestione del controllo scaturite negli e con gli anni ’70 e ’80, dall’altra parte ha fortemente contribuito a restituire un complesso carcerario indiscutibilmente sempre più articolato. In questo contesto, la differenziazione che si attua divide strutturalmente - a sua volta - il corpo detenuto e stratifica in circuiti dedicati gli spazi fisici destinati al contenimento. Mentre al di fuori delle carceri la parola chiave della strategia repressiva è il “trattamento individuale”, posta a contrasto di qualsiasi dinamica collettiva o, peggio ancora, di classe che deve essere sistematicamente delegittimata e smantellata, tra le sbarre delle prigioni è l’isolamento che ne esprime l’elemento avanzato. Qui, l’ampio insieme che raccorda le specializzazioni definisce una distinzione a livello quantitativo, per forme e intensità. Un unico indice di prigioni, circuiti, regimi e corpi detenuti che si caratterizzano, allo stesso tempo, per una sistematica complementarietà strutturale e una precisata e regolata capacità di autonomia. In questo senso, il dato qualitativo, è bene rammentarlo, non può essere letto unicamente concentrandosi su una forma particolare, chiudendosi su di essa, ma lo si deve necessariamente andare a ricercare in quella capacità organizzativa che sistematizza il piano complessivo e dispone la gestione del controllo e le condizioni di un annientamento sempre più generalizzato.

In questa ottica, allargando l’osservazione e l’analisi a un intervallo di riferimento che comprenda l’elemento carcere in rapporto con gli altri elementi costitutivi della strategia del capitale, emerge evidente il dato di come la differenziazione sia stata e sia tuttora alla base della maggior parte dei processi di ristrutturazione che hanno riguardato il tessuto e le relazioni sociali, dal mondo del lavoro all’immigrazione, e che sono in buona parte responsabili dei profondi attacchi all’identità e alla coscienza di classe in Italia così come negli altri Paesi imperialisti.

È evidente che queste brevi riflessioni non hanno la minima pretesa di essere esaustive e del resto non era questo il nostro obiettivo. Le vogliamo considerare invece nostri spunti di riflessione, tracce che cercheremo di sviluppare proprio nel lavoro di approfondimento e di elaborazione dei materiali per la rivista e per i quali, in dialettica, possono diventare una chiave di lettura più complessiva.

Un lavoro, il nostro, necessariamente in progress e che ci vede pienamente consapevoli del fatto che questi sono processi non lineari, che si caratterizzano per contraddizioni e battute d’arresto.

Le maglie sono strette ma non sono impenetrabili.

 

Numero di novembre

 

Visto che diversi compagni ci hanno chiesto notizie sulla mancata uscita del numero di novembre di Senza Censura, precisiamo che il numero è saltato per una consapevole decisione del collettivo politico redazionale. Abbiamo infatti preferito prendere una piccola "pausa" necessaria per approfondire alcuni temi di dibattito interno senza essere "schiacciati" dai tempi di elaborazione e consegna dei materiali per il numero, una sorta di bilancio e di analisi sul metodo del nostro lavoro e sulle sue prospettive in avanti. La nostra volontà è quella di riprendere le uscite con regolarità, e ci auguriamo che il risultato di questo nostro lavoro interno possa essere percepito ed apprezzato nella qualità delle future pubblicazioni.

La Redazione di Senza Censura



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