SENZA CENSURA N.33
novembre 2010
editoriale
Vogliamo fare alcune riflessioni sulla recente manifestazione della FIOM in difesa del contratto nazionale dei metalmeccanici svoltasi a Roma il 16 ottobre 2010.
La mobilitazione è stata una comprensibile risposta al pesante attacco sferrato dalla FIAT a tutta la classe operaia, e ci sembra sia riuscita a riportare con forza al centro dell’attenzione di noi tutti un tema spesso considerato “superato”: la contraddizione capitale-lavoro.
Nel contempo ha avuto un indiscutibile carattere di massa: indipendentemente dalle sigle rappresentate, la vertenza Fiat ha evidentemente rappresentato un polo di attrazione per quei segmenti di classe che, fuori da una logica di categoria, hanno assunto come comune denominatore la necessità di provare a resistere all’attacco devastante e generalizzato alle condizioni di vita portato avanti dal capitale.
Un attacco contro l’intero fronte di classe che si materializza quotidianamente nell’ondata di licenziamenti, sfratti, espulsioni, nel progressivo smantellamento del welfare e dei servizi di pubblica utilità (sanità, trasporti, ecc), nella devastazione e nello scempio del territorio a fini speculativi.
Del resto, le stesse condizioni peggiorative poste come diktat dalla Fiat e diventate oggetto del contendere della vertenza da cui è scaturita la scadenza del 16 ottobre 2010 (e attorno alla quale vanno registrate anche un discreto numero di iniziative più o meno spontanee quali l’imbrattamento di sedi Cisl e la contestazione a loro dirigenti o delegati), sono una realtà già da tempo consolidata in molte fabbriche e luoghi di lavoro, dove viceversa il più delle volte non hanno trovato alcuna resistenza significativa sia per una maggior accondiscendenza dei vertici sindacali sia per l’uso massiccio di vari strumenti atti a contenere la possibile protesta operaia.
Da questo punto di vista, quindi, Marchionne con i suoi aut-aut non fa altro che formalizzare un processo già in atto e ampiamente sostenuto da una notevole produzione legislativa, che negli ultimi 20 anni è stata fatta passare sulla testa dei lavoratori anche grazie alla complicità diretta delle forze della sinistra istituzionale, rendendo poco a poco “normale” quelli che prima erano considerati attacchi dichiaratamente peggiorativi.
Un sentire comune, fatto di rabbia e impotenza, che ha trovato un catalizzatore nella manifestazione del 16, o più precisamente nella resistenza operaia da cui questa scadenza scaturiva, trasformandola in ben altro che la semplice “manifestazione della FIOM”; rabbia e impotenza che, come già altre volte in passato, non troveranno risposte una volta finita la scadenza.
Infatti l’esperienza degli ultimi vent’anni ci insegna come il più delle volte le grandi manifestazioni di massa stentino a produrre modifiche allo status quo esistente, sia che questo significhi riuscire ad incidere concretamente sul quadro generale dei rapporti di classe, sia che lo si intenda nel riuscire a determinare salti nella capacità soggettiva di organizzazione della classe stessa.
Il più delle volte, purtroppo, queste manifestazioni hanno infatti prodotto risultati principalmente sul piano orizzontale, cioè nel riadeguamento dei rapporti di forza all’interno degli schieramenti politici o delle componenti sindacali; componenti che hanno avuto poi buon gioco nell’occupare piccole o grandi porzioni di potere sul piano istituzionale grazie alla loro “rappresentatività” o, soprattutto, alla capacità di chiudere e ricomporre ogni spazio potenzialmente conflittuale.
E da questo punto di vista anche la manifestazione del 16 è stata un’ottima occasione, per alcune componenti politiche e sindacali, di rifarsi una verginità ormai abbondantemente compromessa dalla miriade di occasioni in cui si è chiaramente palesata la loro complicità strutturale con la controparte.
Non ci interessa quindi ragionare attorno alla scadenza in sé ma preferiamo, come abbiamo già fatto altre volte in passato, puntare lo sguardo sulle contraddizioni reali da cui ha origine una partecipazione che non può certo essere ridotta alla somma dei militanti delle sigle che hanno organizzato la giornata del 16 ottobre.
Perché sono proprio le contraddizioni reali che aprono quegli spazi che la stessa compagine riformista, Fiom compresa, non riesce sempre a “governare”, chiusa in margini di mediazione progressivamente ristretti dall’attacco della controparte.
Questo lo possiamo riscontrare soprattutto a livello territoriale dove, in presenza di esperienze di lotta specifiche, talvolta si riescono a creare nessi, collegamenti, reti tra le lotte stesse e la comunità proletaria del territorio nella quale si sviluppano. E proprio questi secondo noi sono gli elementi principali che vanno valorizzati per il consolidamento di esperienze di lotta, che per quanto parziali e localizzate, possono aprire spazi di crescita che sarebbe importante agire. Spazi ben più importanti e interessanti rispetto alle nicchie anguste che talvolta restano “aperte” tra le maglie del riformismo.
Come abbiamo ribadito più volte in altre occasioni quello che ci interessa in misura maggiore è cercare di analizzare e valorizzare ciò che esprime un’incompatibilità oggettiva, quei momenti di lotta che, scontrandosi frontalmente con la furia selvaggia dei processi di ristrutturazione, sfuggono ai rodati e oliati meccanismi messi a punto per riportare il conflitto nell’alveo riformista.
Le tante forme di autonomia che si esprimono in questi tempi di crisi nel tessuto sociale rappresentano, indipendentemente dalla propria capacità soggettiva di sostenere o addirittura vincere lo scontro, tanti piccoli sassolini negli ingranaggi della macchina devastatrice del capitale.
E’ l’esempio della Innse, delle lotte all’interno dei CIE, è l’esempio dei migranti di Brescia: e ce ne sono numerosi altri che potrebbero essere citati.
Nonostante la difficoltà a coagulare attorno ad ognuna di queste esperienze una forza sociale capace di esprimere interessi di classe più generali e al di là delle forme di lotta utilizzate, il dato importante da cogliere è proprio la messa in crisi di un piano che tende a normalizzare le contraddizioni da cui queste lotte scaturiscono, trasformandole in processi inevitabili.
Queste esperienze di lotta incrinano oggettivamente il muro di rassegnazione dominante e, in alcuni casi, hanno perfino la capacità di rovesciare i rapporti di forza (anche solo limitatamente alle singole vertenze), restituendo un protagonismo diretto a quei soggetti che stanno pagando in prima persona i costi della crisi.
Oggi resistere sul tetto di un capannone, su un carro-ponte o su una gru non è semplicemente la ripetizione di un atto visto in tv, ma l’applicazione di una prassi percepita come vincente perchè concretamente è riuscita a scardinare i meccanismi soffocanti della mediazione riformista e istituzionale.
Lo stesso ragionamento si può estendere ai comitati che in Campania si stanno duramente opponendo alla costruzione di nuove discariche di rifiuti sul territorio: anche qui le forme di lotta che in diverse fasi hanno assunto le caratteristiche di un aspro scontro sul campo con le forze dell’ordine hanno valore non tanto per una semplice nostalgia “barricadera”, ma perché sono il prodotto stesso dei legami sviluppatisi in quel tessuto sociale, pur pieno di contraddizioni, e maturati nell’ambito di un percorso comune di resistenza.
Anche in questo caso, così come hanno già sperimentato in Val Susa, la risposta dello stato non può che essere in termini di militarizzazione del territorio, e dunque su un terreno esclusivamente militare e repressivo.
Ma proprio il movimento No-Tav deve far riflettere sul fatto che, al di là del risultato conseguito, è stata importante la maturazione che la battaglia contro l’alta velocità ha determinato in quella comunità proletaria, l’esperienza di chi ha saputo opporsi radicalmente, senza cedere a mediazioni o compromessi, mostrando una notevole capacità di tenuta.
Correndo il rischio di ripeterci, noi oggi riteniamo che vadano valorizzati questi “sassolini” più o meno piccoli che crescono negli ingranaggi del potere: è necessario creare sinergie, collegamenti, dibattito con le realtà che agiscono su piani di incompatibilità con la consapevolezza che riuscire a trovare gli strumenti per contribuire al loro sviluppo in tempo di crisi significa lavorare affinché quei sassolini possano un giorno diventare un macigno.