SENZA CENSURA N. 30

novembre 2009

 

Sangue e petrolio

“Crisi umanitarie” e interessi imperialisti in Africa

 

Lo scorso agosto, Hillary Clinton è sbarcata nel continente africano, e nel suo breve viaggio ha toccato sette paesi. L’intenzione del segretario di Stato Usa (dopo la visita di Obama in Ghana nel mese di luglio) era quella di rafforzare la posizione americana in Africa, nel tentativo di ristabilire i legami con i paesi dell’area dopo i disastrosi otto anni diplomatici di George W. Bush.
Ma il cambio di governo alla Casa Bianca non si è affatto tradotto in un’inversione di marcia della politica americana rispetto al fronte africano; nonostante gli intenti retoricamente dichiarati da Obama (“il futuro dell’Africa spetta agli africani”), il predominio in Africa rimane un obiettivo strategico importante, così come l’espansione della presenza militare rimane lo strumento principale per la difesa degli interessi economici statunitensi.
Già durante la sua campagna elettorale, Obama auspicava infatti che le forze armate potessero fornire un supporto logistico maggiore agli sforzi di “peacekeeping” in Africa, dichiarandosi favorevole all’ipotesi di creare una “no-fly zone” in Darfur (proposta già lanciata da Bush e dall’allora primo ministro inglese Tony Blair). La Clinton si è spinta fino ad incontrare il presidente somalo Sharif Ahmed inserito, fino ad un anno fa, in quanto leader delle Corti islamiche, tra i leader sulla Lista Nera. Dietro il superamento dell’odio della dirigenza Usa verso alcuni leaders islamici, c’è la necessità di negoziazione allo scopo di isolare i settori più antimperialisti e radicali. Nell’incontro col presidente della Somalia ha annunciato infatti il raddoppio del quantitativo di armi Usa destinate all’esercito somalo per “contrastare l’avanzata delle milizie antigovernative che, forti del sostegno del terrorismo islamico internazionale, controllano gran parte del centro e sud del paese”.
Gli Usa sono presenti in Africa con più di 30.000 soldati e stanno raddoppiando questa cifra grazie ai progetti Africom (l’organismo delle forze armate statunitensi che sovraintende alle operazioni di guerra nel continente africano), tra cui quelle in atto nei paesi dell’Unione Europea a sostegno delle operazioni di “peacekeeping”.
Il Comitato Politico e di Sicurezza dell’UE continua a effettuare grossi investimenti nel campo della cooperazione militare, formando poliziotti e militari degli Stati africani per prevenire eventuali movimenti nazionalisti o di liberazione. L’ascesa di quello che in occidente viene chiamato “nazionalismo pan-africano”, va guardata in relazione con questo genere di decisioni che da anni vengono prese sul piano internazionale rispetto all’Africa: in primo luogo, con i piani statunitensi dell’Africom, con operazioni come l’intervento dell’ONU nel Congo o il blocco internazionale al governo dello Zimbabwe e le operazioni di varie potenze contro i paesi africani sotto il falso pretesto della lotta alla pirateria o al terrorismo.
Come abbiamo già scritto rispetto al fronte africano, quella militare è l’unica chance degli Usa per cercare di recuperare terreno lì dove alcune potenze coloniali europee, ma soprattutto il “nuovo” grande concorrente imperialista, la Repubblica Popolare Cinese, hanno sviluppato un peso rilevante.
Già nel 2004, dietro le massicce operazioni “antiterrorismo”, iniziate quando circa un migliaio di soldati americani sbarcò nella capitale della Mauritania con la motivazione ufficiale della lotta ai gruppi terroristici presenti nell’area (“una palude infestata da terroristi che deve essere prosciugata”), c’era la necessità degli Usa di sopperire al proprio bisogno energetico rafforzando la presenza in Africa e sfruttando la cooperazione con alcuni paesi attraverso la “lotta al terrorismo”, inaugurata nel 2005 con la nascita della Trans-Sahara Counter Terrorism Initiative e poi dell’Africom nel febbraio 2007, con l’obiettivo di riunire le attività di “intelligence” nel continente africano sotto il controllo di un unico comando militare.
Il Pentagono si avvia quindi ad esportare, attraverso l’Africom, il modello (già sperimentato in America latina ed utilizzato per coprire la lotta contro le forze rivoluzionarie) della “war on drugs” anche nel continente africano; nella proposta di bilancio per l’anno 2010, il Dipartimento della Difesa ha chiesto di destinare in Africa 52 milioni di dollari nell’ambito dell’International Narcotics Control and Law Enforcement, il programma di Washington per “combattere il crimine transnazionale e le minacce ad esso collegato e sostenere lo sforzo contro le reti terroristiche che operano nel settore del traffico di droga e in altri affari illeciti”.
A questi si aggiungeranno altri due milioni di dollari per “programmi anti-narcotici” proprio all’interno della “Trans-Sahara Counter Terrorism Partnership”. Una parte dei fondi saranno poi utilizzati per realizzare i “nuovi Centri di addestramento regionale alla sicurezza” in Nord Africa, Africa occidentale ed Africa centrale. Il paese che sarà il maggior beneficiario degli aiuti militari è il Sudan (geograficamente distante dalla rotta degli stupefacenti individuata in Africa occidentale) seguito dalla Liberia, uno dei pochissimi stati africani a dichiarare la propria disponibilità ad ospitare comandi, reparti e mezzi militari statunitensi. La lotta al terrorismo, alla droga e ai “pirati”, sono le bandiere dietro cui poter aumentare la presenza militare statunitense in Africa.

Europa e Africom
Il Pentagono ha insediato presso la Panzer Kaserne di Boeblingen in Germania, un nuovo quartier generale delle Forze del Corpo dei Marines: è il comando speciale, “MARFORAF” che ha il compito di pianificare e dirigere tutti gli interventi dei Marines USA in Africa ed opera congiuntamente con le autorità di Africom, entrato ufficialmente in servizio il primo ottobre 2008 nel complesso militare di Stoccarda. Il principale obiettivo strategico del nuovo comando dei marines sarà il “supporto alla lotta al terrorismo per ridurre la minaccia delle organizzazioni legate all’estremismo violento”.
I marines hanno pianificato nei primi mesi del 2009 la conduzione di due grandi esercitazioni multinazionali, l’“African Lion” (condotta in Marocco dalla 173a brigata aviotrasportata di stanza a Vicenza) e la “Shared Accord”, condotta in Ghana e altri paesi dell’Africa occidentale. I marines opereranno in Africa organizzati in gruppi. Un piccolo gruppo si occuperà della “riforma della sicurezza” in Liberia; un altro addestrerà gli eserciti di sei paesi dell’Africa occidentale; un altro ancora, parteciperà al programma Acota, addestrando soldati e istruttori africani.
Gli strateghi statunitensi stanno ora valutando dove trasferire entro due o tre anni il comando Africom; Marocco, Gibuti e Liberia hanno offerto la loro disponibilità, ma nel caso in cui motivi di sicurezza ne sconsigliassero il posizionamento sul campo africano, una delle due alternative europee sarebbe quella di Rota in Spagna.
Le organizzazioni sociali andaluse e Izquierda Unida, in una dichiarazione del dicembre 2008 hanno però definito “gravissima” la scelta d’insediare il comando Africom a Rota: “E’ un’atrocità che il governo spagnolo permetta l’utilizzazione di una parte del nostro territorio per operazioni in Africa di natura sconosciuta”, ha affermato il parlamentare Ignacio García. Se Africom non venisse insediata in Spagna finirà quindi a Napoli, dove sono già operativi numerosi comandi delle forze aeree e navali degli Stati Uniti e della Nato. Il complesso navale di Napoli-Capodichino-Gaeta è già sede del Comando per le Forze Navali USA in Europa, il cui comandante in capo ha ora assunto il ruolo di “comandante per le operazioni navali in Africa”. Il Comando per le forze navali di Napoli parteciperà (con la dislocazione a tempo indeterminato di due velivoli da pattugliamento marittimo P-3 Orion) alla recente decisione di Africom di mobilitare uomini e mezzi per proteggere dalla pirateria l´industria turistica a cinque stelle delle Seychelles, che prevede il trasferimento di un numero imprecisato di velivoli “Reaper” nell´arcipelago.
Per le autorità di governo la difesa del turismo di lusso, da cui il paese è totalmente dipendente, è fondamentale, anche perché già da un anno prima della “crisi” legata ai “pirati” somali, il tasso di occupazione del settore aveva subito una flessione del 60-65%. Per questo accolgono con favore l’iniziativa, anche a costo di accelerare la privatizzazione delle isole e dare il via alla militarizzazione USA dell´arcipelago.
L’Italia vede già la sua partecipazione a progetti per la proiezione di Stati Uniti e alleati Nato in Africa ospitando dal 2005 nella città di Vicenza il principale centro di formazione strategica degli eserciti dei paesi africani, il CoESPU (Center of Excellence for Stability Police Units), sotto il comando dell’Arma dei Carabinieri. Obiettivo del centro è “favorire la creazione di forze del tipo Carabinieri/Gendarmerie, preparate ad intervenire rapidamente, con apparati logistici autonomi e la capacità di stabilire una forte presenza di polizia in territori ostili”, attraverso la formazione di almeno 3.000 militari africani e lo “sviluppo di dottrine e procedure operative per prendere parte al Network strategico mondiale, interagendo con organizzazioni internazionali, istituti accademici e centri di ricerca”. Nel 2009 sono stati inviati a Vicenza poliziotti e militari di nove paesi africani (Burkina Faso, Camerun, Egitto, Kenya, Mali, Marocco, Nigeria, Senegal e Sud Africa). La US Army Africa (nuovo nome della SETAF - Southern European Task Force, ossia forze terrestri di Africom) ha sede dal dicembre 2008 alla caserma Ederle, dove sono in corso da più di un anno imponenti lavori di ristrutturazione e ampliamento, con la riattivazione dei depositi e hangar sotterranei.
La partecipazione italiana in supporto delle missioni Africom, si avvale anche dello scalo aereo di Aviano e della stazione aeronavale di Sigonella in Sicilia per le operazioni di rifornimento e carico dei velivoli diretti verso il continente africano. A questo si aggiunga che nel corso della riunione dei Ministri della Difesa della Nato di Cracovia (19 e 20 febbraio 2009) è stata formalizzata la scelta di Sigonella come “principale base operativa” dell’AGS (Alliance Ground Surveillance, sistema di sorveglianza terrestre della Nato) in cui saranno ospitati i sistemi di comando e di controllo che centralizzano le attività di raccolta d’informazioni, di comunicazioni, segnali e strumentazioni straniere; Sigonella si trasformerà in un “Grande Orecchio” capace di ascoltare un’area che si estende dai Balcani al Caucaso e dall’Africa al Golfo Persico.

Petrolio, gas… e sicurezza
Il continente africano, in cui il 40% della popolazione “vive” con meno di un dollaro al giorno e un numero molto maggiore “sopravvive” con meno di due, continua a subire l’aggressivo sfruttamento delle sue risorse energetiche. Le priorità della Nato, da quanto riferito dai suoi comandanti, sono appunto quelle di delineare piani che rendano sicure le strutture industriali del petrolio e del gas.
Si presentano così strategiche tre aree dove sono situati massicci giacimenti di petrolio e di gas naturale non ancora del tutto sfruttate: il Golfo di Guinea in Africa, il Mar Nero e il Mar Caspio, il Golgo Persico. Il petrolio dell’Africa Occidentale presenta due importanti vantaggi per gli Stati Uniti: è un greggio di prima qualità e può essere trasportato mediante navi-cisterna direttamente attraverso l’Oceano Atlantico, evitando stretti o eventuali punti di controllo da parte di nazioni costiere.
Dunque l’iniziativa in Africa e nei mari che la circondano, è del tutto vincolata all’espansione militare Usa e Nato; le potenze occidentali sotto comando Nato stanno dunque cercando di conservare il dominio sulle risorse energetiche e i corridoi del trasporto petrolifero ed espandere l’egemonia economica e politica mondiale. La preoccupazione delle potenze europee e statunitensi che temono di perdere la propria “riserva di caccia” in Africa, è aggravata, come dicevamo, dalla presenza incalzante della Cina.
La Cina è il principale partner economico del Sudan (riceve il 75% delle sue esportazioni) e le tre principali compagnie petrolifere di stato cinesi, la Cnpc, la Cnooc e la Sinopec stanno guadagnando sempre più spazio nell’acquisizione di diritti per l’esplorazione e lo sfruttamento del greggio di questa regione dell’Africa. In aprile è stata formalizzata l’acquisizione da parte della China National Offshore Oil Corporation (Cnooc) del 45% della concessione di proprietà della South Atlantic Petroleum, che comprende importanti giacimenti offshore di petrolio e gas. La Cnpc è impegnata in prospezioni nel Ciad sud-orientale e nell’Etiopia occidentale (entrambe zone di confine con il gigante sudanese) e la Cnooc, già presente in Nigeria e in Angola (principale fornitore di greggio di Pechino, superando il Sudan), ha ottenuto anche in Kenya il diritto alla prospezione e l’eventuale trivellamento di uno dei tanti blocchi lungo la costa.
La strategia della Cina in Africa prevede nuovi accordi commerciali bilaterali o regionali per garantire la fornitura di materie prime, offrendo in cambio grandi progetti infrastrutturali (ma non solo subordinati allo scambio), la ricerca di “posizioni comuni sulle principali questioni internazionali e regionali” e l’intenzione “di portare avanti attivamente cooperazione e scambi tecnologici che riguardano la sfera militare”.
Negli ultimi anni, il comando Usa per l’Africa ha rafforzato la tendenza ad affidare ai contractors privati buona parte delle missioni più complesse e rischiose. Una parte consistente degli interventi coordinati da Africom nel quadro del “Bureau of African Affairs-Africa Peacekeeping Program (Africap), è infatti stata affidata ad aziende private del settore sicurezza. Questi contractors hanno coordinato il trasferimento di truppe di Benin, Mali e Nigeria in Liberia e Sierra Leone e di militari di Ruanda e Nigeria in Sudan, nonché la gestione dei campi per i rifugiati in Darfur; dal 2003 al 2007, più di due miliardi di dollari del Programma Africap sono stati destinati ad aziende private americane, prime fra tutte la DynCorp International (già operante in Iraq, Afghanistan e nelle campagne di fumigazione delle coltivazioni di coca nella selva colombiana ed ecuadoriana). DynCorp ha esordito nel 2005 in Nigeria, realizzando uno scalo aereo (i lavori dell’aeroporto sono in subappalto all’azienda siciliana Gitto), destinato alle compagnie petrolifere statunitensi che operano nel Delta del Niger, le cui dimensioni sproporzionate lasciano però immaginare un suo uso a fini militari.
Tutto questo contesto di interessi, ha incrementato lo stravolgimento politico e sociale dell’Africa, senza alcun apporto di ricchezza o sviluppo per i paesi colonizzati economicamente. La politica del profitto per adesso ha ricompensato solo l’egoismo di quelle nazioni che, in cambio della promessa illusoria di sviluppo economico, hanno permesso che questo tipo di neocolonialismo politico-militare si instaurasse e si rafforzasse.

Propaganda in occidente e progetti umanitari
L’organizzazione “Salvare il Darfur” negli ultimi cinque anni ha prodotto una campagna mediatica miliardaria, grazie anche a varie rappresentanti del mondo spettacolo, per diffondere la spaventosa visione di una guerra etnica con ben 400.000 morti. Uno scenario privo di spiegazioni storiche, politiche o di classe, composto dalla sola descrizione di un genocidio di tali proporzioni da rendere urgente e necessario un intervento. La rappresentazione di una ferocia collettiva priva di ambiguità, rispetto alla quale, senza alcuna riflessione politica, si fa appello all’azione di emergenza e al “costruttivo e risolutivo” intervento degli Stati Uniti e delle altre potenze imperialiste.
Ma questa grande narrazione ingannevole della tragedia del Darfur sta cedendo piano piano anche a seguito dei racconti di giornalisti e inviati americani di ritorno negli USA; persino il governo britannico ha deciso che “Salvare il Darfur” non può usare la cifra di 400.000 morti che compare continuamente negli spot lanciati negli Stati Uniti, per il semplice motivo che non è vera.
Per quanto si possano considerare validi gli argomenti addotti per un intervento di assistenza emergenziale in Darfur, è palese che la politica con cui le organizzazioni umanitarie hanno condotto i propri affari nella zona è stata quantomeno sospetta e cinica. Nessuno sforzo è stato effettivamente svolto per evitare raddoppiamenti e sprechi, verso la creazione di progetti di sviluppo a lungo termine o di competenze che possano sostituire l’elemosina. In Darfur ci sono attualmente 108 (!) agenzie umanitarie; ogni agenzia ha la sua particolare nicchia di assistenza, i suoi consulenti, direttori, comunicati stampa, pubblicità televisive, automobili, uffici in ogni luogo del mondo, ed ognuna richiede permessi singoli per condurre le proprie attività.
Questo ha prodotto il moltiplicarsi di innumerevoli pratiche burocratiche, anche se qualsiasi ritardo nell’emettere tali permessi si traduce subito in una protesta di livello internazionale, come è successo per la recente espulsione di sole dieci organizzazioni straniere e due nazionali (su 108) da parte delle autorità sudanesi, con l’accusa di essere spie ostili al governo.

 

Ciad Sudan Darfur
Il Ciad è tra i cinque paesi stimati come i più poveri al mondo (un reddito pro-capite annuo pari a 150 euro all’anno) a cui si aggiunge la desertificazione del paese e la riduzione delle acque, unica fonte di sostentamento (il lago Ciad è passato da un’estensione di 25 mila chilometri quadrati a poco più di 5 mila e solo il 30% della popolazione può disporre di acqua potabile).
La pioggia di dollari che sarebbe dovuta arrivare con l’oro nero (vedi progetti come il Chad-Cameroon Oil and Pipeline, conosciuto anche come “Doba oil”), non è mai arrivata. In realtà queste promesse hanno incrementato solo i flussi migratori e violazioni dei diritti umani, la confisca delle terre, gravi danni ambientali, malattie causate dallo smaltimento dei rifiuti tossici, il crollo dell’esportazione del cacao e del caffè e disoccupazione.
Buona parte dei profitti derivanti dai prezzi del greggio sono arrivati alle casse del governo del generale-presidente Deby, che ha dilapidato centinaia di milioni di dollari per armare l’esercito e premiare la classe politica più accondiscendente (sono 36 i milioni di petrodollari ricevuti da Deby nel 2006 ed utilizzati per armare la guardia presidenziale, “vincere” le elezioni e colpire i ribelli).
Deby, militare formatosi all’École de guerre di Parigi, arma da anni gruppi mercenari (giustificando il finanziamento con il rischio di una possibile invasione sudanese) ma resta al potere, soprattutto grazie alla forte protezione militare francese e quella politica degli USA, che con la EXXON sono il maggior acquirente del petrolio del Ciad. I tanti soprusi ai danni delle popolazioni del Sud, dapprima sotto il regime di Hissen Habré (si stima che siano state 40.000 le persone torturate o giustiziate in otto anni) e poi durante il governo Deby dal 1990 a oggi, si affiancano all’impoverimento del Ciad. Nel gennaio scorso, otto movimenti del Ciad hanno deciso di unirsi per creare l’Unione delle forze della resistenza (Ufr), il cui obiettivo è liberare il popolo del Ciad e rovesciare la dittatura del Presidente Idriss Deby Itno.
Il conflitto in Darfur è spesso descritto come un affare interno al Sudan. E’ invece parte di uno scontro ben più ampio che coinvolge tutti i paesi confinanti col Sudan (Egitto, Libia, Ciad, Congo, Uganda, Etiopia, Eritrea, Somalia); la maggior parte dei cosiddetti “esperti geopolitici” europei raffigurano semplicisticamente lo scontro in atto, descrivendo i suoi protagonisti come dei fantocci ora degli Usa, ora della Cina.
E’ ovviamente una rappresentazione che ha lo scopo di delegittimare le resistenze e le lotte che agiscono nei due paesi. Il conflitto in Darfur, paese che ha una popolazione largamente omogenea, non è tra “Arabi” ed “Africani” come continua ad essere venduto in Occidente in seguito alla demonizzazione della cultura araba ed islamica.
Ciad, Sudan e Darfur sono in realtà una preziosa pedina dei poli imperialisti presenti in questa regione, l’Europa (principalmente la Francia) e gli USA che mirano, attraverso la spinta e la possibile vittoria di forze interne in loro appoggio, alla nascita di micro-stati come protettorati neocoloniali.
Questo è il piano strategico delle potenze imperialiste in Sudan: lo smembramento dell’unità nazionale incrementando gli attriti interni, per realizzare il “divide et impera”, attraverso la strategia della guerra preventiva permanente. Non per niente, nel maggio 2005 la Nato iniziava la sua prima operazione ufficiale sul continente Africano con il trasporto di truppe nella regione del Darfur in Sudan, dando inizio all’intrusione militare Occidentale nel triangolo Repubblica del Centro Africa - Ciad - Sudan. Il recente tentativo di rovesciare il governo di Al-Bashir, attraverso un mandato di cattura internazionale per genocidio, ha l’obiettivo di fare pressione sul paese in modo che si arresti il commercio con la Cina e si torni a fare affari con l’Occidente.
Per adesso l’azione del mandato di cattura non ha funzionato, poiché tutti i partiti (e varie mobilitazioni di piazza) hanno espresso l’opinione concorde che questo mandato d’arresto viola la sovranità del paese. Rimane comunque un segnale del potere internazionale per gli altri paesi. Il Sudan è un paese ricco, spesso paragonato all’Arabia Saudita per risorse petrolifere; ma è un paese ricco con povera gente, e con una borghesia locale gravemente corrotta. Questa borghesia ha dato prova di appoggiare la proposta Usa di risoluzione del conflitto che si attuerebbe attraverso il passaggio ad un confederalismo o federalismo. Non potendo negoziare lo sfruttamento di petrolio direttamente con il governo di Khartoum, si pensa di poterlo fare più liberamente con l’istituzione di regioni autonome.
D’altra parte, anche il “vecchio” colonialismo britannico aveva prodotto in Sudan l’interessata divisione del paese in due parti, prima delle guerre civili del 1972 e del 1980 (quest’ultima, durata 25 anni): un Nord, in cui si salvaguardava l’arabo come lingua ufficiale e l’Islam come religione, e un Sud in cui venne imposto l’inglese e la conversione al protestantesimo. E per tutto il paese, l’introduzione di un capitalismo che ha prodotto l’emergere di una borghesia sudanese.
Ma come accade per il Darfur, le guerre civili che hanno opposto le due parti del paese non hanno alla base principalmente motivi etnici o religiosi, ma la necessità di una redistribuzione equa della ricchezza. Per questo le potenze imperialiste occidentali mettono sotto pressione i governi africani che sfuggono al loro controllo, cercando di destabilizzarne i regimi, e sfruttano le crisi umanitarie per i propri interessi, mobilitando l’opinione pubblica internazionale. Probabilmente, se il governo sudanese smettesse di fare affari con la Cina, e i paesi imperialisti tornassero ad essere i principali attori e controllori del paese, probabilmente più nessuno parlerebbe di “crisi in Darfur”.

Fonti:
www.michelcollon.info

www.autprol.org

www.contropiano.it

www.pane-rose.it

 

In Nigeria, tutte le speranze nella democrazia e nel benessere suscitate dall’indipendenza e dalla scoperta del petrolio, sono naufragate tra le paludi del Delta del fiume Niger, affondate dallo sfruttamento selvaggio di multinazionali come la Shell, l’Agip, la Chevron e dai corrotti governi locali. All’ombra di un cielo inquinato e di un mare senza pesci, «la gente ha cominciato a pensare: “dobbiamo armarci se non vogliamo morire”. La violenza genera violenza. E quando una persona perde la speranza, si sente devastata, e finisce per dire: “O combatto o tanto vale che muoia”».

Così, a bordo di motoscafi veloci, con passamontagna, fucili automatici e kalashnikov, i ribelli del Delta sono passati al contrattacco, sabotando l’industria del petrolio.
Sono la voce armata di un’intera popolazione, stremata da decenni di saccheggio dell’ambiente e di repressione militare.
Si battono contro l’inquinamento delle loro terre, per il risarcimento dei danni subiti e la restituzione delle risorse alle comunità locali.

Questo libro è un omaggio alla loro battaglia.

Edizioni PORFIDO - giugno 2009
144 pagine - 8,00 euro

Un saggio che parte dalla storia della Nigeria e del Delta, per arrivare alle prime lotte, e al MEND, con comunicati, il racconto di un giornalista del manifesto che è andato a parlare con i guerriglieri.. e la cronologia dal 2005 di quello che è successo nel Delta, attacchi, uccisioni, arresti, sequestri..

[Centro di Documentazione "Porfido", via Tarino, 12/C, Vanchiglia, Torino - porfido@ecn.org]



http://www.senzacensura.org/