SENZA CENSURA N.27

novembre 2008

 

editoriale

 

Eppur si muove…
Inizialmente avevamo deciso di dedicare l’editoriale ai recenti avvenimenti legati alla pesante crisi finanziaria che da mesi caratterizza l’andamento economico di tutto l’occidente capitalista. Volevamo parlare di questo non perché ci riteniamo “esperti” teorici di questioni economiche (a giudicare dalle disastrate finanze di Senza Censura non ce lo potremmo proprio permettere…) ma perché ci sembrava opportuno riflettere su come i costi di questa crisi venissero per l’ennesima volta scaricati sulle classi popolari (si parla non a caso di un milione di licenziamenti in Italia in tutti i settori, non solo in quelli del pubblico) e su come contemporaneamente tentassero di convincerci a ragionare tutti da azionisti o dirigenti d’azienda, come se ci stessero veramente a cuore le sorti del sistema bancario e dei bastardi aguzzini che ne tirano le fila.
Ma poi, nelle ultime settimane, è “esploso” questo grosso movimento che si oppone alla riforma della scuola proposta dal governo Berlusconi. Ci è sembrato opportuno non ignorare quanto sta avvenendo nelle scuole, nelle università, nelle piazze di molte città italiane, anche se, pure in questo caso, non ci sentiamo assolutamente in grado di azzardare valutazioni e considerazioni “illuminanti”, capaci di decodificare in toto gli avvenimenti o di darne chiavi di lettura esaustive.
Alcune riflessioni però ci sembra giusto farle, magari provando a rimanere volontariamente su un quadro più generale e, perché no, sforzandosi di trovare un nesso con il tema “originario” sulla crisi finanziaria.
Eh si, perché la crisi c’è e c’entra eccome.
E non solo perché lo slogan: non pagheremo la vostra crisi appare sugli striscioni che aprono i cortei o viene ritmato sulla base di un nota base da stadio nella variante noi la crisi non la paghiamo…
E per di più c’è da molto prima che lo scoppio della “bolla” finanziaria facesse partire l’ennesima emergenza su cui convogliare l’attenzione di tutta la classe politica e dei suoi giullari (esperti, opinionisti e guru vari).
Chi vive nella realtà già da molti anni ha dovuto misurarsi con il progressivo restringimento del potere d’acquisto del proprio salario, con l’aumento dei prezzi, con la cultura del consumismo sfrenato, insomma, per dirla in sintesi, con il “costo della vita”. E già da molti anni, grazie alle continue ristrutturazioni del mercato del lavoro, milioni di persone hanno dovuto misurarsi con l’impossibilità di immaginare un “futuro” lavorativo certo, confrontandosi loro malgrado con precarietà, mobilità, contratti-capestro, e via dicendo.
Probabilmente il concetto di “no future”, che negli anni ’80 si rappresentava come critica totale alla cultura e alla logica dell’edonismo e dello yuppismo neoliberista, è vissuto oggi da chi è sceso e continua a scendere in strade e piazze molto meno come astrazione culturale e molto più come concreta e sistemica realtà con cui dover fare i conti. Un cambio radicale di prospettiva, che cancella definitivamente un approccio “positivista” durato tutto il secolo scorso, nonostante due conflitti mondiali.
E non è un caso che assieme alle generazioni più giovani questa volta si siano mobilitate anche categorie solitamente più “distratte”, come insegnanti e, soprattutto genitori, segno evidente di una preoccupazione profonda sulla prospettiva delle future generazioni.
Ancora una volta ci troviamo di fronte ad una grossa mobilitazione di massa che, come già altre volte in questi ultimi anni, esplode in un quadro generale di pesante arretramento e restaurazione.
Esiste, a nostro modo di vedere, un nesso, un “filo rosso” che lega queste grandi mobilitazioni di inizio millennio, al di là delle varie soggettività che ci si sono misurate: Genova e le mobilitazioni “no global”, le grandi manifestazioni contro la guerra, fino all’attuale movimento degli studenti.
Un filo rosso sicuramente molto attorcigliato, zeppo di grosse contraddizioni, da analizzare quindi senza alcuna trionfalistica demagogia di carattere ideologico, ma anzi con la piena consapevolezza che, in tutti questi casi, abbiamo assistito a dinamiche in cui il contributo delle soggettività politiche è stato tutto sommato ben poco determinante. Parliamo di mobilitazioni che infatti, almeno finora, non sono riuscite a darsi una continuità efficace, a diventare “ciclo di lotta”, a diventare volano di ricomposizione e di organizzazione della classe.
Esperienze che evidenziano invece una composizione di classe bel lontana da un piano identitario basato su una caratterizzazione ideologica precisa, ma nello stesso tempo attraversata da grossi momenti di tensione politica e sociale che la spinge a mobilitarsi riconoscendosi attorno ad alcune specifiche questioni.
Il quadro di fondo, allora, il reale trait d’union, non può essere altro che lo sviluppo della crisi, ossia la progressiva delegittimazione agli occhi della classe del sistema capitalista nel suo insieme. Delegittimazione, anche in questo caso, non dovuta ad una precisa presa di coscienza ideologica, ma mossa più concretamente dalla sempre maggiore consapevolezza materiale di essere usciti (o di stare avviandosi ad uscire) da quella “élite” che negli scorsi decenni ha beneficiato dello sviluppo economico, poco importava se ottenuto dallo sfruttamento su scala globale di risorse ambientali e umane di buona parte del pianeta.
In questo, probabilmente, diventa ancora più evidente e “concreta” la crisi economica e politica del sistema.
Per questo diventa sempre meno credibile e giustificabile l’uso della guerra e il continuo pesantissimo saccheggio delle risorse del pianeta. Non è solo un problema “morale”: il fatto è che questo non garantisce più, per una sempre maggiore fetta della popolazione nel centro imperialista, né “sicurezza” né benessere; al contrario, carica ulteriori fardelli e incertezze sulle spalle di famiglie, di lavoratori, di giovani, di studenti.
E’ evidente però che questi sono processi lenti, zeppi di contraddizioni e di battute d’arresto. Processi nei quali le strutture di comando sono strategicamente impegnate ad inserire elementi “anticoagulanti” e di divisione, sul piano culturale, sul piano dell’informazione, sul piano identitario e, non da ultimo, con lo strumento stesso della guerra e della repressione, sul piano militare (piano quest’ultimo che, come abbiamo più volte analizzato su queste pagine, lo stato negli ultimi decenni ha costantemente sviluppato).
Per questo, tanto per citare un esempio tra quelli afffrontati in questo numero di Senza Censura, i governi europei sono così attenti al controllo capillare sulle politiche di immigrazione. Una saldatura tra il proletariato immigrato (che sempre più spesso, tra l’altro, si porta dietro un’esperienza antimperialista maturata nelle proprie zone d’origine) e spezzoni di proletariato autoctono, in questo contesto potrebbe essere potenzialmente esplosiva. Ed è proprio questo potenziale che rende ancora più obsoleto e funzionale l’approccio riformista (istituzionale o meno) che, con la sua logica catto-solidaristica, riesce al massimo a mettere a posto le (sporche) coscienze da biancuzzi occidentali di qualche élite salottiera. Questa logica, dal punto di vista di classe (e l’ultima tornata elettorale lo ha ben dimostrato), è perdente proprio perché si pone esclusivamente sul piano morale, e nulla può contro il potente apparato ideologico a sfondo razzista che invece fa leva molto concretamente sul bisogno di una sempre maggior fetta di popolazione di “difendere” quel poco di privilegi e di benessere che stanno sempre più chiaramente perdendo. Insomma, la classica “guerra fra poveri”, che come in ogni periodo di crisi economica viene usata per dividere la classe e le sue diverse componenti. Lo slogan “licenziamenti e cassa integrazione, ma quali immigrati, la colpa è del padrone!” riassume correttamente qual è il piano sul quale dovrà invece necessariamente giocarsi la partita.
Tornando al quadro generale, e cercando di concludere per lasciarvi alla lettura della rivista, vogliamo fare un’ultima considerazione sul ruolo dei militanti politici. Purtroppo ci sembra che, in questo contesto, la presenza delle soggettività politiche del vecchio ciclo rischia di essere più un handicap che uno strumento di avanzamento dei processi di ricomposizione all’interno della classe. Soprattutto se, come abbiamo più volte scritto in questi anni, la logica che le muove continua ad essere quella arretrata e opportunista di usare queste dinamiche principalmente per autorappresentarsi e per aumentare il proprio “potere di scambio” sul piano istituzionale. Crediamo piuttosto che, in questa fase, maggiormente importante e da valorizzare sia il lavoro dal basso fatto da singoli soggetti o dai collettivi di base. Il lavoro cioè di quei tanti compagni che con umiltà e determinazione portano all’interno della classe il proprio contributo culturale e politico, pur tra mille difficoltà, sforzandosi di consolidare piccole ma concrete forme di cooperazione non partendo dalle proprie “strutture di appartenenza” ma dalla propria materiale condizione di internità ai tanti settori di classe che si apprestano oggi ad affrontare e a contrastare i costi della crisi.
Su questo lavoro, sull’accumulazione e la condivisione di queste esperienze pensiamo potranno darsi in avanti, nel progressivo manifestarsi delle esperienze di resistenza della classe, anche le condizioni per riaprire un ragionamento concreto e proficuo sulla soggettività rivoluzionaria e sul suo ruolo all’interno dello scontro di classe attuale e futuro.



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