SENZA CENSURA N.25
marzo 2008
Se la repressione colpisce…
Note di comportamento in caso di repressione
Questo materiale è
nato inizialmente dall’esigenza di affrontare, all’interno del collettivo
redazionale di Senza Censura, una discussione su come comportarsi nel caso
fossimo oggetto di un attacco repressivo.
Abbiamo poi deciso di pubblicarlo in quanto ci siamo resi conto che poteva avere
una sua utilità anche al di fuori dell’ambito redazionale, soprattutto perché
cerca di contribuire ad un dibattito in generale piuttosto arretrato e
solitamente difficile da affrontare nelle situazioni di movimento.
Ovviamente non ha alcuna pretesa di essere esaustivo né dal punto di vista
“tecnico” né tantomeno, proprio per come è stato pensato originariamente, dal
punto di vista politico.
Ci auguriamo unicamente che possa essere uno spunto per ulteriori
approfondimenti…
Se la repressione colpisce…
Queste note vogliono essere una traccia di riflessione, e quindi uno
spunto di discussione, su come comportarsi in caso di un attacco repressivo che
veda coinvolti compagni o compagne della Redazione.
Siamo consapevoli del fatto che ogni collettivo politico e sociale può essere
oggetto di “attenzioni” indesiderate da parte di magistratura e forze
dell’ordine, come del resto testimoniano i tantissimi episodi repressivi di
questi ultimi anni, ed è quindi non solo legittimo ma addirittura doveroso non
trovarsi impreparati nel caso in cui una simile quanto malaugurata esperienze
dovesse capitarci in prima persona.
Diffidiamo quindi fin d’ora gli eventuali inquirenti cui dovesse capitare in
mano questo scritto ad utilizzarlo strumentalmente per sostenere che la
Redazione di Senza Censura sia o aspiri a comportarsi come una vera e propria
“organizzazione”.
Detto questo, aggiungiamo solamente che quanto segue prende in esame
principalmente il caso di un attacco “diretto” alla Redazione, ma che le linee
di principio descritte riteniamo siano valide in ogni situazione in cui un
militante o un gruppo di militanti politici o sociali abbiamo a che fare con la
repressione.
Un bel tacer non fu mai scritto…
Citazione stranota ma fondamentale! Il principio di fondo da cui deve
partire ogni considerazione dev’essere quella che parlare con un magistrato o
con un poliziotto che ci sta interrogando può portare solo guai. Questo per
quattro semplici ragioni:
1) Chi ci interroga
sta cercando elementi a sostegno delle sue accuse, e quindi si adopera per
dimostrare la nostra “colpevolezza” e non la nostra estraneità;
Possono scattare, o meglio è normale che scattino, dei meccanismi psicologici
particolari quando ci troviamo di fronte qualcuno che ci sta accusando di cose
inesistenti o che sta “interpretando” la nostra azione politica in modo
tendenzioso o provocatorio. Viene d’istinto pensare che spiegando come stanno in
realtà le cose si possa in qualche maniera limitare il danno, se non addirittura
eliminarlo completamente. Niente di più sbagliato!
In caso di inchieste giudiziarie, bisogna sempre essere consapevoli del fatto
che il lavoro di polizia e magistratura è lungo e tutt’altro che improvvisato e
soprattutto che nasce da una volontà politica precisa di attaccare e
neutralizzare i soggetti che prende di mira.
Se partiamo da questo presupposto diventa chiaro che qualsiasi cosa diciamo in
realtà non serve minimamente a difenderci ma può unicamente dare ulteriori
informazioni e dettagli utili a sostenere con maggiore perizia ed efficacia
l’accusa contro di noi.
A questo può contribuire anche la risposta più semplice e scontata, tipo “Sei
nella redazione di Senza Censura?”. Se ad esempio la tesi accusatoria è che
Senza Censura sia un’associazione sovversiva o parte integrante di
un’associazione sovversiva, dichiarare di farne parte serve unicamente ad
ammettere la propria colpevolezza. E’ ovvio che loro sanno già chi fa parte
della redazione, e quindi il senso della domanda è solo quello di sostenere
l’accusa con gli elementi soggettivi che gli fornite voi…!
2) Di solito le condizioni in cui si affronta un interrogatorio (anche per i più
“esperti”…) sono sempre e comunque di grande tensione psicologica ed emotiva, e
quindi le possibilità di dire o fare cazzate aumentano esponenzialmente;
La condizione di stress, magari affiancata dall’intimo desiderio che, finito
l’interrogatorio, sia possibile riguadagnare l’uscita e tornare dai propri cari,
può giocare brutti scherzi e ridurre ulteriormente la capacità di discernere con
lucidità quanto sia il caso di dire e quanto sia meglio non dire.
Quindi è meglio non correre il rischio e tacere del tutto, anche per ridurre in
noi il carico di stress sul “che fare” e conservare le energie per ascoltare e
cercare invece di capire di che cazzo stanno parlando loro, o comunque per
affrontare con il minor danno psicologico possibile le ore successive,
soprattutto in caso di fermo o di arresto.
Il principio è che se sappiamo fin da subito cosa ognuno di noi deve fare, tutti
i dubbi legati alle proprie condizioni soggettive (poca esperienza, specifiche
condizioni dell’attacco repressivo, ecc) vengono quantomeno ridotti e questo è
senz’altro un vantaggio per noi.
3) Bisogna sempre tenere a mente che difficilmente si è da soli ad affrontare un
attacco repressivo e che quindi quanto si dice rischia di contraddire o comunque
mettere in difficoltà qualcun altro che si può trovare nelle nostre stesse
condizioni;
Un altro semplice meccanismo psicologico che il più delle volte si può
trasformare in un “boomerang” è quello di tentare di assecondare le richieste
scegliendo cosa dire o cosa non dire.
L’esempio tipico è quello di ammettere la ovvia conoscenza di persone con cui si
ha una frequentazione quotidiana e di glissare invece su conoscenze più
“improbabili”.
Dobbiamo sempre tenere a mente che così facendo innanzitutto forniamo una
“griglia” interpretativa agli inquirenti, sicuramente dannosa, e soprattutto che
così facendo rischiamo di entrare in contraddizione con quanto detto da altri
che, per ragioni loro, decidessero di dichiarare cose diverse. Se invece non
rispondiamo e per di più siamo certi che gli altri si comporteranno allo stesso
modo, evitiamo entrambi i rischi.
4) Per affrontare un’eventuale strategia difensiva, concordata e coordinata con
il difensore e con gli altri coimputati, c’è sempre tempo…
Non bisogna avere fretta… Purtroppo, se hanno deciso di attaccarti l’entità
dell’attacco non dipende da te, ma da loro. Quindi per capire questo e per
decidere (il più collettivamente possibile) che strategia politica e difensiva
utilizzare, servono informazioni difficilmente disponibili in un primo momento.
Questo non ci deve spaventare o mettere in stato di stress: qualunque sia
l’esito dell’iniziativa repressiva ci sarà il tempo e il modo per discutere a
“bocce ferme” di quanto sia meglio fare.
In sintesi, non parlare, tacere, o per dirla in modo formale, “avvalersi della
facoltà di non rispondere”, è l’unico comportamento sensato da adottare. Non
solo: non dimentichiamoci che tacere è proprio una FACOLTA’ che la legge stessa
mette a disposizione dell’imputato a difesa dei suoi interessi.
Non facciamoci quindi impressionare o intimorire dai frequenti tentativi di
sbirri e magistrati di far passare questo comportamento come un’ammissione di
colpevolezza o comunque un atteggiamento “irriducibile” che può “peggiorare” la
nostra situazione. Sono balle! Piuttosto, se si vede che la tensione è alta e
che la pressione nei vostri confronti sale pericolosamente, ci si può sempre
giocare senza alcuna vergogna la carta del malessere: “sto male, sono sconvolto,
non me la sento di rispondere” toglie dai guai e se l’avvocato è sveglio gli da
modo di entrare in vostra copertura efficacemente.
Infine va detto, giusto per chiarezza, che il non rispondere è cosa diversa dal
“dichiararsi prigioniero politico”.
Anche se dal punto di vista legale “dichiararsi” non implica alcun effetto, dal
punto di vista politico il significato è ben differente (soprattutto per quello
che storicamente tale strategia ha rappresentato per le organizzazioni
combattenti). A nostro avviso questa scelta, più che un approccio alla difesa,
comporta la decisione di sostenere un piano di scontro molto più elevato.
Proprio per questo dovrebbe essere frutto di una riflessione politica più
complessiva che esula da questo scritto. A noi qui interessa unicamente rilevare
che per affrontare dignitosamente e nel modo più indolore un attacco giudiziario
è sufficiente avvalersi della facoltà di non rispondere.
Gli avvocati
Purtroppo a volte anche l’avvocato difensore (soprattutto se poco esperto di
inchieste “politiche” come quelle di cui parliamo) tende a farsi condizionare da
questa logica paracula imperante, dando il più delle volte suggerimenti poco
utili se non addirittura dannosi… Anche per questo, in caso di emergenza,
bisogna essere convinti a priori della propria decisione, onde evitare inutili
sceneggiate con l’avvocato di fronte alla controparte.
E’ una triste consuetudine, negli ultimi anni, trovare avvocati che si
impanicano più degli imputati o che comunque ragionano esclusivamente dal punto
di vista “professionale”.
La legge, e più in generale la cultura giudiziaria, è da tempo orientata alla
logica della differenziazione e dell’individualizzazione, e questo fa si che
spesso gli avvocati facciano proprie queste “tendenze” con la scusa della difesa
tecnica a salvaguardia del proprio assistito dimenticando o ignorando
volutamente il carattere politico di quanto sta succedendo. Niente di più
pericoloso!
Quando qualcuno finisce nei guai (dal punto di vista giudiziario) è sempre per
il proprio impegno politico ed è responsabilità di ognuno di noi difendere la
propria integrità politica e personale. Questo ci da il diritto/dovere di
decidere con il difensore la strategia da seguire: se il rapporto è corretto lui
dovrà farci da consulente presentando rischi e benefici di quanto elaborato, ma
sempre nel massimo rispetto della nostra identità politica. E comunque di
questo, come si è detto più sopra, ci sarà il tempo di discuterne in seconda
battuta. In ogni caso, nessun avvocato sano di mente e non in cattiva fede potrà
sostenere che il non aver risposto ad un interrogatorio vi porterà dei danni
irreparabili.
Il rapporto con gli avvocati è tuttavia il risultato di un processo dialettico
che va maturandosi col tempo, e che quindi presuppone esperienza (sigh!) e
rispetto reciproci. In questo il fatto di poter contare su una dimensione
collettiva aiuta sicuramente molto…
Ultima cosa: la nomina dell’avvocato è un segnale fondamentale per consentire a
chi è fuori (qualcuno resterà pur fuori, no? ;-)))) di coordinare meglio dal
punto di vista tecnico e politico il lavoro di difesa. Andrebbero quindi decisi
a priori degli avvocati di riferimento per ognuno di noi, possibilmente
associando un referente “territoriale” con uno “nazionale” in modo da consentire
un più agile coordinamento anche dal punto di vista legale e nello stesso tempo
una più agile e immediata copertura locale.
In conclusione
Ogni attacco repressivo, grande o piccolo, legato ad un’inchiesta giudiziaria o
ad un’iniziativa di movimento deve essere vissuta da chi la subisce e dagli
altri compagni, come un episodio che investe tutta la nostra dimensione
collettiva. Essere certi che ognuno di noi in caso di guai sia in grado di
muoversi al meglio e soprattutto possa contare incondizionatamente sull’appoggio
e sul sostegno degli altri compagni è un patrimonio che dobbiamo considerare
imprescindibile.