SENZA CENSURA N.25
marzo 2008
7 anni di condanna
Lo stato si vendica contro chi si oppone alla guerra
“[…] Il Consolato
di qualsiasi stato estero verso il quale l’Italia mantiene relazioni sono zone
sacre, che piaccia o non piaccia a questi signori imputati!”
Dalla requisitoria del PM SUCHAN
Era il 13 Maggio
1999. A Firenze come nel resto d’Italia si manifestava contro l’aggressione Nato
in Ex Jugoslavia. La prima guerra del centrosinistra a cui si erano accodate,
nelle varie forme, quelle forze che saranno anche in futuro la stampella dei
governi dello stesso colore, quell’associazionismo, sindacalismo confederale,
che attraverso quella che fu la scandalosa Missione Arcobaleno, tentarono di
contenere le contraddizioni che in maniera visibile stavano maturando.
Una giornata di mobilitazione indetta dal sindacalismo di base, che con grandi
sforzi si pose alla testa dell’opposizione alla guerra. A Firenze erano oltre
3000 a manifestare, determinando una rottura storica all’interno di quel
movimento contro la guerra che si era opposto con chiarezza, sebbene con le sue
profonde differenze, alla guerra in Iraq nel 1991.
E’ importante ricordare cosa stava avvenendo in quegli anni anche su quella che
si può definire la dimensione di movimento. Venivamo da un periodo fatto di
lotte contro l’Europa di Maastricht, la creazione di un ampio fronte anche
internazionale alle politiche imperialiste, i controvertici e le compagini che
vi partecipavano avevano e sviluppavano una forte autonomia dal quadro
riformista, il controllo del quadro istituzionale stentava a riuscire a essere
testa di tutto ciò e anzi era costretto ad inseguire le scelte del “movimento”.
La manifestazione procedette tranquillamente fino al Consolato Americano, fino
al momento in cui i manifestanti furono pesantemente caricati da polizia e
carabinieri. Manganelli, fucili usati come bastoni, lacrimogeni sparati ad
altezza uomo, pestaggi, e poi i feriti, peraltro in numero notevolmente maggiore
di quelli che risulteranno dai verbali. La documentazione video e fotografica,
le testimonianze non davano adito ad ambiguità su dove fossero da ricercare le
responsabilità dell’accaduto.
La risposta fu immediata, e fu tesa a denunciare le responsabilità di coloro che
erano i sostenitori della guerra e, conseguentemente, dell’inasprimento della
repressione e della restrizione degli spazi del dissenso. Per questo il corteo
si spostò alla allora sede dei DS, occupando simbolicamente la struttura.
42 furono i denunciati, ovvero tutto quello che veniva rappresentato nel
movimento fiorentino, dal sindacalismo di base ai centri sociali.
Ed è qui che comincia la storia di chi si trova oggi condannato a 7 anni di
carcere.
Comincia con le intimidazioni ai feriti ed ai testimoni, i ricatti per impedire
che fossero portate nelle aule dei tribunali le loro bestie in divisa. Un
testimone che afferma di avere in mano un video dove si vede chiaramente la
dinamica dei fatti “sparisce” dalla circolazione dopo non essersi presentato ad
un appuntamento con uno dei feriti.
Ma le sentenze non si scrivono nei tribunali, è il potere che stabilisce il
terreno e la loro pesantezza.
Che l’aria non fosse delle migliori lo si era già capito. Il 1° Maggio 1999 a
Torino i compagni e le compagne dell’Askatasuna furono pesantemente caricati
all’interno del corteo confederale sia dai poliziotti, sia dal loro braccio
destro rappresentato dal servizio d’ordine del sindacato. Ma come se non
bastasse polizia e carabinieri fecero irruzione all’interno del centro sociale
sfasciando quanto trovavano. L’allora ministro degli interni, l’attuale sindaco
di Napoli Jervolino, aveva chiaramente espresso la linea che sarebbe stata
tenuta nei confronti dell’opposizione alla guerra: non saranno tollerate
manifestazioni contro il nostro paese ed in particolare verso obiettivi e sedi
istituzionali di paesi esteri.
Si manifestava quello che sarà il tema ricorrente che contraddistinguerà gli
anni a venire, ovvero che un paese in guerra non può tollerare un opposizione
interna alla sua politica, che la stessa guerra portata verso le popolazioni
all’esterno si traduce in una lenta ed inesorabile guerra sul fronte interno.
Ed è in questo quadro che matura la possibilità di allargare quello che è
ritenuto eversivo, da colpire, isolare, “prosciugare quello stagno dove i pesci
nuotano”.
Sarà la campagna stampa immediatamente successiva al 13 Maggio ad esplicitare
questa strategia. Guerriglia, terrorismo, eversione, contiguità, echeggeranno
sulle prime pagine dei giornali fiorentini e non solo. Premeditazione,
associazione sovversiva preparano quello che sarà poi il processo. Non un
processo per scontri di piazza, ma ben oltre, inserito in un quadro più generale
dell’azione controrivoluzionaria nel nostro paese.
Basta scorrere le relazioni dei Servizi immediatamente successive all’azione
D’Antona per capire che il fronte di opposizione alla guerra rappresentava
l’obiettivo immediato verso il quale concentrare l’azione repressiva. Questo fu
individuato come l’humus all’interno del quale era maturata la ripresa
dell’attività combattente. I 23 attentati alle sedi dei Ds durante l’attacco
alla Jugoslavia venivano ritenuti le prove, la preparazione al balzo in avanti
operato successivamente, e come tale, anche il movimento contro la guerra
rappresentava il naturale soggetto da colpire.
In questo senso Firenze è stata solo l’occasione giusta.
Passarono pochi giorni ed arrivarono le perquisizioni, un segnale chiaro per
coloro che fino ad allora erano stati compagni di viaggio. L’inizio di una
strategia che porterà ben presto alla riduzione del numero degli imputati,
quattordici, da far arrrivare al processo.
Perquisizioni che, anche se ufficialmente riferite agli incidenti al Consolato,
rendevano chiaro fin da subito che i motivi e gli scopi da cui scaturivano erano
ben altri.
La mattina delle perquisizioni, ancor prima che queste venissero effettuate, il
quotidiano Il Giornale in prima pagina ne riportava la notizia, collegandole
“all’attività delle organizzazioni combattenti”.
Ma non finisce qui. Panorama, l’Espresso fecero a gara a ricollegare quanto
successo al Consolato alla storia del movimento rivoluzionario a Firenze ed in
Toscana, ad attaccare il sindacalismo di base fiorentino come crocevia di
esperienze legate al passato dove queste si legavano al presente in un sodalizio
eversivo, preparato e ben congegnato, dove militanti sindacali assumevano le
sembianze di cattivi maestri e istruttori di guerriglia.
Si ritirano fuori casi irrisolti, la ricerca di personaggi che secondo le tesi
delle forze antiterrorismo fiorentine erano sfuggiti alle maglie del carcere e
della dissociazione.
E’ emblematica la frase pronunciata dal Pubblico Ministero ad una giornalista
durante l’udienza nella quale sono state lette le sentenze: “… La prego non lo
scriva, ma le condanne ci saranno … d’altronde ci sono stati due morti nel
frattempo” (D’Antona e Biagi).
Ed è stata questa l’essenza del processo. Un processo che poco ha avuto a che
fare con quanto successo al Consolato Americano, ma che assume tutti i toni di
un processo politico.
Un processo per associazione sovversiva senza che questo venisse chiaramente
dichiarato, dove rispolverare sodalizi peraltro oggettivamente impossibili per
la diversità sostanziale nei percorsi degli imputati. Un processo politico, come
emerge chiaramente nella requisitoria del PM, dove i fatti assumono un rilievo
marginale a fronte della volontà di voler dimostrare la pericolosità oggettiva
dei coinvolti, della loro storia, della loro militanza. Si è proceduto ad
affermare l’appartenenza a aree o realtà come presupposto giuridico e penale per
le condanne, la propria militanza come concorso morale a azioni che niente hanno
a che vedere con i fatti per cui il processo è stato istituito.
La sentenza non è stata scritta ma le condanne parlano da sole e non abbiamo
bisogno di leggerla per comprenderne la sua essenza, racchiusa nella
ricostruzione portata avanti dal PM.
Ma come abbiamo sempre pensato la repressione fa fare passi indietro solo se noi
permettiamo che questa avvenga.
Le duemila persone in piazza il Sabato 26 prima della sentenza e la
manifestazione spontanea nel giorno della loro lettura, dimostrano che la
repressione si combatte alzando la testa, rispondendo colpo su colpo con la
mobilitazione e la solidarietà, evitando quelle manovre distruttive che hanno
portato ampi settori di movimento a sperimentare la delazione, la
desolidarizzazione, pensando che questo potesse salvare il “culo” di qualcuno.
Ma questo è servito solo a dare una mano al potere, ai signori della guerra e
dello sfruttamento, a consegnare nelle mani del nemico la sorte di compagni e
compagne.
Ma il segnale che si respira è diverso. I giovani che hanno solidarizzato, hanno
organizzato iniziative e dibattiti, partecipato da protagonisti alla creazione
delle mobilitazioni hanno dato un segnale nuovo: il tempo dei “profeti molto
acrobati della rivoluzione” può finire.
SOLIDARIETA’ AI CONDANNATI
LIBERTA PER TUTTI/E