SENZA CENSURA N.25
marzo 2008
I crudeli insegnamenti di Marchionne…
Alla Fiat Sata di Melfi la repressione è un piatto che si consuma freddo
Il 16 ottobre
2007, su iniziativa della direzione distrettuale antimafia per conto del p.m.
Francesco Casentini, vengono effettuate perquisizioni nelle sedi dello
Slai-cobas e in diverse abitazioni, tra cui quelle di 4 operai delegati ed
ex-delegati della Fiat-Sata mai appartenuti allo Slai-cobas e attualmente
militanti di altri sindacati di base. Con la perquisizione è stato notificato un
avviso di garanzia per i reati di cui agli art. 270bis e 272 c.p.p. L’inchiesta
riguarderebbe tutta l’attività svolta alla Fiat-Sata (ma anche all’Ilva di
Taranto e in altre fabbriche o posti di lavoro) attraverso cui “il terrorismo ha
cercato di entrare alla Fiat di Melfi”. Al centro dell’attenzione degli
inquirenti, il materiale sindacale prodotto a sostegno della lotta dei 21
giorni. La Fiat Sata, in seguito al decreto di perquisizione, quando ancora la
notizia era nota solo agli indagati, è intervenuta coi licenziamenti. Risulta
evidente lo scopo di reprimere in modo esemplare una lotta che in 21 giorni ha
prodotto il blocco totale della produzione ponendo obbiettivi avanzati rispetto
alle questioni dei ritmi di lavoro e della repressione in fabbrica (v. SC 14 pag
52 e seg.).
E’ altrettanto evidente il carattere persecutorio nei confronti di quanti hanno
contestato l’accordo che svendeva i risultati della lotta, o si sono attivati
nella campagna contro il TMC2. La dirigenza Fiat punta chiaramente ad isolare
gli operai più avanzati e combattivi, instaurando un regime di terrore fatto di
licenziamenti, provvedimenti disciplinari e minacce così come accadde a
Pomigliano nel luglio 2007, con la criminalizzazione di un gruppo combattivo di
giovani operai che in varie occasioni avevano avuto l’ardire di riproporre la
questione del potere in fabbrica fuori da una logica esclusivamente sindacale.
Il tentativo di isolare gli operai più “scomodi” è un segnale molto chiaro e in
piena sintonia con l’annuncio di Marchionne di voler avviare un ampio piano di
riorganizzazione aziendale per rilanciare la produzione al Sud. Su Sole 24 ore
Sebastiano Garofalo, direttore dello stabilimento Fiat Auto di Pomigliano, parla
di “una rivoluzione che si pone come obbiettivo una produzione di qualità
diversa da quella attuale che ci costringe a rilavorare il prodotto…Da oggi si
cambiano radicalmente i reparti, la metodologia e l’organizzazione del lavoro ed
anche il rapporto con i dipendenti, coinvolti a 360 gradi nella vita
dell’azienda”. Diventa anche un problema di formazione del personale: come
spiega brillantemente Giuseppe Terraciano, segretario della Fim Campania, “Per
salvare Pomigliano bisogna formare la nuova generazione di capi e cambiare
l’organizzazione del lavoro”. E se la riorganizzazione produttiva passa per
l’applicazione in linea di un nuovo sistema, il World class manifacturing (Wcm),
quella dei “capi diffusori” è la strategia scelta da Fiat per insegnare ai capi
a fare i capi, per patrimonializzare le competenze, e per portare il Wcm a
Pomigliano. F.M. Falconi, uno dei trainer, analizza come “il primo tentativo di
applicarlo non è andato bene. O meglio è andato come poteva andare in uno
stabilimento che in un anno ha fatto 166 scioperi e dove ci sono comportamenti
da cambiare in nome della qualità, dei costi e dell’efficienza: ritardi,
assenteismo, distrazione, imprecisione…”.
La Fiat detta sempre tempi e modi di lavoro ma il funzionamento dell’impianto
richiede partecipazione: l’autoattivazione operaia individuale e di gruppo per
risolvere in tempo reale i problemi che nascono nel processo produttivo. Quella
che segue è un’intervista ad uno degli operai licenziati alla Sata dopo le
perquisizioni del 16 ottobre.
A proposito dei
licenziamenti di ottobre viene da dire “cronaca di una repressione annunciata”.
C’erano stati precedentemente segnali in tal senso?
Nel 2005 dopo la lotta dei 21 giorni venne fatto dal ministro Amato un
comunicato che parlava di infiltrazioni all’interno della lotta, ma nessuno
avrebbe potuto pensare che sarebbero sfociate nelle varie inchieste che poi sono
state aperte. Una repressione immediata non conveniva nemmeno alla Fiat: si
trattava di riportare la situazione alla tranquillità; ricordiamo che prima
della lotta c’erano stati comunque 5000 provvedimenti disciplinari. La
repressione dopo i 21 giorni viene attuata più su un piano di provvedimenti
disciplinari. Diciamo che dopo le giornate di Melfi la Fiat fa un passo
indietro.
L’iniziativa
giudiziaria e i successivi licenziamenti hanno prodotto rotture all’interno
della fabbrica o in genere ha prevalso la solidarietà degli altri operai?
Se si esclude lo sciopero del 9 novembre, direi che ha prevalso un senso di
paura… al di là della motivazione dei licenziamenti, della “propaganda
sovversiva”, per molti operai ha contato il fatto stesso dei licenziamenti.
D’altra parte la Fiat è stata dura in tutti gli stabilimenti del sud non solo a
Melfi, ha creato un clima repressivo dappertutto. Non si è riusciti a
generalizzare la lotta, quindi alla fine ognuno ha dovuto fare i conti con la
propria situazione repressiva. Non c’è stata una vera unità operaia come si era
vista durante i 21 giorni, così la Fiat ha potuto giocare tranquillamente la sua
partita.
Sembra esserci una
relazione tra questo ed altri episodi repressivi (ad es. i licenziamenti e le
intimidazioni nei confronti di alcuni operai a Pomigliano in luglio) e il piano
di rilancio previsto da Marchionne per gli stabilimenti del sud-Italia. Anche a
Melfi è stato avviato un piano di riorganizzazione?
Un piano di riorganizzazione esiste e riguarda soprattutto i tempi e i ritmi
di lavoro. Per la dirigenza si tratta di superare il TMC2 con il sistema “OCRA”.
Ancora non è ben chiaro in che cosa realmente consista, ma se ne vedono già gli
effetti, ad esempio il ridimensionamento assoluto degli interinali a fronte di
una consistente riduzione dei lavoratori in fabbrica. In sostanza si tratta di
una generale razionalizzazione dei tempi morti, vengono scorporati tutti i tempi
morti che c’erano prima e in questo modo gli operai hanno meno tempo a
disposizione. Per capirci, se prima gli operai andavano a prendere i pezzi da
montare nei cassoni, e quello era un tempo morto, ora li trovano direttamente
vicino alla vettura. Un altro cambiamento solo apparentemente formale riguarda i
capi-reparto: se prima avevano la stessa tuta degli operai ora gli viene data
una tuta di un colore diverso proprio a voler sottolineare che quello è il capo.
In generale, aldilà degli adeguamenti della formazione rispetto alla fabbrica
integrata mi sembra che sul piano della gerarchia non ci siano grandi
cambiamenti sostanziali.
L’ennesimo accordo al ribasso, l’accanimento contro gli operai e i delegati
più combattivi svelano ancora di più il solco che si è creato tra la Fiom e i
reali interessi dei lavoratori. Le logiche di asservimento ai padroni sempre più
evidenti sembrano generare una crisi di rappresentanza che in parte tocca anche
i sindacati di base. Quali sono le tue riflessioni in merito?
La Fiom, detto in poche parole predica bene ma razzola male; anche rispetto
all’ultimo contratto abbiamo assistito alle solite finte critiche, ai
referendum-farsa che alla fine non servono a niente se non come giustificazione
per le politiche filo-padronali che porta avanti. L’abbiamo visto anche nei 21
giorni come la Fiom abbia svolto il ruolo di pompiere: prima ha cavalcato la
lotta poi l’ha fatta cessare facendo tornare gli operai a lavorare con un
accordo veramente misero vista l’entità della lotta. Non ha aderito allo
sciopero in solidarietà degli operai licenziati, sul welfare ha fatto una
passeggiata a Roma… ormai è chiaro che la Fiom non è un sindacato riformabile,
deve solo apparire… ha sposato in pieno le logiche del padrone. D’altra parte il
problema del sindacato di base è che continua a spaccarsi, a dividersi, senza
individuare contenuti unitari. Degli scioperi insieme sono stati fatti tra i
vari sindacati di base e questo è un passo avanti fondamentale per poter portare
avanti delle lotte. Però è necessario essere più uniti sui contenuti altrimenti
anche i sindacati di base hanno ancora poca strada da fare. Alla fine restano
una testimonianza, una presenza che non riesce a conquistarsi i lavoratori. La
grossa difficoltà del sindacato di base è il lavoro sempre più precario che
rende l’operaio sempre più ricattabile e meno propenso ad essere portato su un
terreno di lotta; se poi il lavoratore vede questa mancata unità all’interno del
sindacato di base non si sente tutelato e tende automaticamente ad appoggiarsi
ai sindacati confederali.
Negli ultimi anni
sono cresciuti, soprattutto nel meridione, comitati spontanei che si battono
contro la devastazione del territorio dovuta alla costruzione di grandi opere
infrastrutturali come il ponte sullo stretto, piuttosto che termovalorizzatori,
discariche, gassificatori, ecc.; esistono esperienze di questo tipo in
Basilicata? C’è stato qualche contatto con le lotte operaie?
Anche in Basilicata c’è stata opposizione al fatto di accogliere i rifiuti
dalla Campania. I cittadini si sono autorganizzati e sono riusciti ad impedire
che i rifiuti entrassero, ma non c’è stato contatto tra le questioni ambientali
e quelle all’interno delle fabbriche. La questione del collegamento tra operai e
chi si batte su problematiche come quella dei rifiuti è caratterizzata dal fatto
che attualmente le lotte sono portate avanti autonomamente a livello locale o a
livello nazionale in modo settoriale: le lotte dei metalmeccanici, quelle di
Scanzano, quelle contro la TAV o la base di Vicenza… manca un’organizzazione
politica e sindacale in grado di unire queste lotte, al momento ognuno si
combatte la sua.
Il metodo WCM |