SENZA CENSURA N.25
marzo 2008
Superare il settarismo in Medio Oriente
Intervista a Hisham Bustani, intellettuale e attivista pan-arabista
Offriamo ai
lettori di Senza Censura la traduzione di una intervista del quotidiano del
Qatar al-Raya a Hisham Bustami, intellettuale e attivista pan-arabista
“giordano” di cui abbiamo già pubblicato altri contributi sui numeri precedenti
di Senza Censura.
Hisham Bustami è tra l’altro segretario del Forum del Pensiero Socialista in
Giordania, e membro del Comitato di Coordinamento della Alleanza dei Popoli
Arabi Resistenti.
Questa intervista è apparsa in inglese sulla storica rivista della sinistra
anti-imperialista statunitense, Monthly Review.
Bustani analizza alcune questioni correnti: la situazione nella regione araba;
le minacce contro l’Iran; l’ “Iniziativa Medio Oriente Allargato”; gli Stati
Uniti, i regimi arabi e gli “Islamisti”; e le prospettive del progetto di
liberazione araba.
Questa intervista, condotta dal giornalista As’ad al-Azzouni, chiarisce i
processi interni di subordinazione e la loro connessione con i processi esterni.
Fa anche luce sulla posizione degli arabi “progressisti” e su come percepiscono
la loro realtà oggettiva ed il futuro. Bustani rileva il bisogno di un’unità
della Sinistra nella costruzione di un movimento pan-arabo “de-settarizzato” di
resistenza all’imperialismo.
Un breve stralcio dell’intervista chiarisce subito il suo punto di vista:
«L’Islam politico non è bersaglio degli Stati Uniti – piuttosto ciò che è
bersaglio è la resistenza, sotto qualsiasi etichetta. In Sud America ed nel
Sud-Est asiatico la resistenza assume un assetto di sinistra (FARC, i partiti
politici comunisti filippino e nepalese), e gli USA li attaccano. Nella regione
araba, la resistenza assume la forma dell’Islamismo, e gli USA attaccano anche
questa. Il comune denominatore è la resistenza all’egemonia di Washington ed al
suo piano d’azione per il controllo, non l’Islam.»
Questo contributo si inserisce in un filone di ricerca di Senza Censura che
cerca di scandagliare il quadro politico arabo all’interno delle attuali
trasformazioni, valorizzando le esperienze di resistenza all’imperialismo che si
danno nella regione.
SUPERARE IL
SETTARISMO IN MEDIO ORIENTE
Un’intervista con Hisham Bustani, di As’ad al Azzouni
Vediamo ciò che accade a Gaza e nella West Bank, in Libano ed in Iraq. Come
legge lo stato attuale delle questioni nella regione araba, e come vede il
futuro? C’è una via d’uscita da questa situazione?
La regione araba è uno spazio dove due progetti e le relative variabili
competono tra loro. Sfortunatamente nessuno dei due ha niente a che fare con la
liberazione araba.
Il primo e più pericoloso, quello con “alta
priorità” sull’agenda del confronto, è il vecchio/nuovo progetto
sionista/imperialista. Si basa sulla continuazione della dominazione
colonialista e sulle divisioni che ha creato nella terra araba, con la
conseguente frammentazione negli esistenti pseudo-stati fittizi, che non possono
portare alla realizzazione di un vero progetto di liberazione.
Le nuove variabili nell’evoluzione dell’imperialismo sono: 1) il suo
unipolarismo, 2) il suo bisogno urgente di ridisegnare la geografia politica che
era stata relativamente stabile nel periodo post-coloniale e durante la Guerra
Fredda, e 3) il suo sforzo di minare i nuovi poteri in ascesa, principalmente la
Cina, l’India e l’Europa.
La nuova regola nella regione araba è la frammentazione, ed il ridisegno delle
società post-coloniali in unità più piccole, settarie per religione, etniche,
claniche e familiari. Gli stati arabi oppressivi ed i loro regimi patriarcali e
tirannici hanno giocato un ruolo importante nello spianare la strada alla
frammentazione, attraverso la distruzione delle strutture civili e sociali della
gente. Qui possiamo discernere chiaramente il ruolo altamente funzionale dei
regimi arabi come aiutanti nel contesto dell’imperialismo e della sua agenda per
il controllo.
Otre agli esempi dell’Iraq e del Libano, attualmente in subbuglio, l’osservatore
obiettivo può trovare divisioni pronte per una possibile detonazione in molti
degli stati arabi. Non c’è che da osservarli per rilevarne le potenziali
contraddizioni interne: negli stati del Golfo e nello Yemen (sulla base di
Sunniti contro Sciiti), in Siria (sulla base di Sunniti/Alawi/Durzi/Kurdi), in
Giordania (giordani contro palestinesi e divisioni claniche/familiari), Egitto
(mussulmani contro copti), e negli stati del Maghreb (arabi contro berberi).
Vale la pena di notare che le aree già corrose dalle frammentazioni interne e
esplose per i conflitti sono quelle dove la resistenza organizzata esiste (Iraq,
Libano e Palestina). Questo suggerisce chiaramente una dinamica di
causa-effetto: una delle più importanti ragioni per generare e riprodurre
strutture sociali frammentate è di contenere ed eliminare i fenomeni di
resistenza, e di prevenire o controllare l’emergere di nuovi fuochi di
resistenza.
Il secondo progetto principale nella regione araba è il progetto iraniano. Il
suo aspetto problematico è che non è un progetto di liberazione, ma piuttosto è
previsto in un piano di espansione con aspetti nazionalisti e settari. Per
quanto collida con gli USA ed il loro orientamento espansionistico, la lotta del
regime iraniano con l’imperialismo si svolge sulla base di benefici e sfere di
influenza, non è orientata ad una politica di liberazione. In tal modo, possiamo
comprendere meglio le contraddizioni emergenti nella politica iraniana: il
supporto del regime alla resistenza in Libano e Palestina; la sua agevolazione
dell’invasione e dell’occupazione statunitense dell’Afghanistan; e il suo ruolo
distruttivo in Iraq, con la sponsorizzazione di milizie e politiche settarie che
hanno causato la distruzione del paese e la morte di numerosissimi iracheni.
Per queste ragioni, gli arabi non possono cercare la loro liberazione nel
progetto iraniano, e non possono che essere clienti e subordinati se optano per
il progetto imperialista/sionista. Inoltre, non possono neppure giocare sulla
contraddizione potente tra i due progetti, semplicemente perché sono più deboli
di entrambi. In quest’equazione geopolitica, un progetto fondato sulla
debolezza, senza contare che proprio non esiste, non può confrontarsi con
progetti potenti, globali e regionali.
L’unica prospettiva per il futuro è quella orientata alla resistenza, con tutte
le dimensioni che questo concetto implica. La resistenza come principale piano
d’azione è l’unico meccanismo in grado di spingere avanti la rigenerazione ed il
rafforzamento collettivo. Anche se alcune parti della resistenza adottassero
guisa ed orientamento settario, la resistenza non sarebbe mai vittoriosa se non
riuscisse ad eliminare questo settarismo, perché esso è il principale ostacolo
sulla sua strada. Superare il settarismo entro un programma di resistenza è la
chiave per il futuro.
La resistenza nella regione araba è presente in tre spazi di lotta. Queste tre
resistenze portano il peso di trasformare lo status quo. I sionisti sono stati
sconfitti due volte in Libano (2000, 2006); la potenza militare di Washington e
la sua credibilità sono intaccate seriamente in Iraq, così seriamente che molti
analisti e politici organici allo stato stanno parlando apertamente di una
ritirata. In Palestina, le divisioni e frammentazioni della resistenza e la
brutale oppressione del sionismo mantengono e riproducono una situazione
tragica, che rappresenta il torvo scenario futuro.
Il progetto di liberazione araba può esperire una rinascita solo alle seguenti
condizioni:
- Che i gruppi di resistenza irachena riescano a formare un vero fronte di
coalizione nazionale con un piano di lavoro strategico collettivo. Questo fronte
dovrebbe formulare una visione pratica per una transizione post-Occupazione (un
governo di trasformazione che risponda ad un consiglio esecutivo rappresentante
tutti i gruppo anti-Occupazione, oltre ad una differente struttura sociale, e la
fissazione di una data futura per le elezioni generali). La strategia deve
necessariamente affrontare la ragione principale della sconfitta: il settarismo
e l’“istituzionalismo” post-coloniale (il fatto di relegare lo sforzo
liberatorio entro i confini di uno stato post-coloniale fittizio, dove questo
sarebbe oggettivamente seppellito – un chiaro esempio recente: Hamas a Gaza).
- Che la resistenza Libanese personificata da Hezbollah si dimostri capace di
trasformarsi in un movimento nazionale sovra-settario di liberazione, che si
muova ben al di sopra del vortice del settarismo dove è rimasto intrappolato dai
suoi oppositori dalla vittoria del 2006, impedendo ad Hezbollah di mietere i
guadagni politici di quella vittoria sull’imperialismo statunitense ed
israeliano.
- Che la resistenza palestinese arrivi a comprendere la lezione di Fatah e Hamas:
precisamente che la cosiddetta Autorità Nazionale Palestinese non è affatto
un’autorità, e che non potrà mai essere “nazionale” fintanto che si trova sotto
l’influenza degli occupanti sionisti a del loro piano d’azione per il dominio su
tutta la Palestina, anche nelle questioni più triviali. Finché il suo fondamento
poggia sugli accordi di Oslo, che inequivocabilmente significano riconoscimento
dell’occupazione e dell’entità statale sionista, il suo tentativo di egemonia su
qualsiasi processo politico, economico o di sicurezza nei “Territori
palestinesi” tronchi è fondamentalmente compromesso. La AP (Autorità
palestinese) è in realtà la via maestra che conduce all’effettiva subordinazione
al centro sionista ed alle sue strategie di controllo. Se i palestinesi
comprendono questo, saranno in grado di procedere alla formulazione di un piano
strategico che rifiuti di riconoscere la legittimità dell’entità sionista e la
legittimità di ogni processo politico che la riconosca o che sia dominato da
questa. La lotta sarebbe allora restituita al suo incubatore pan-arabo, invece
che all’orizzonte statale post-coloniale, che inevitabilmente conduce ancora ad
un’altra “Madrid” o “Oslo”. Il pan-arabismo oltre gli attuali stati feticcio è
la matrice per una resistenza efficace in Palestina ed attraverso la regione.
Se ognuna delle pre-condizioni citate non venisse rispettata, è probabile che
vedremo l’odierno scenario palestinese (strutture disintegrate, frammentarie,
completamente sotto il controllo dell’occupante, anche senza occupazione
diretta) diffondersi, generalizzato lungo i fronti della lotta (Iraq, Libano,
Palestina), seguito da simili trasformazioni di disunione in altri stati arabi.
Ci sono minacce di un allarmante “aggressione” USA contro l’Iran. Se queste
minacce diventassero realtà, quali sarebbero le conseguenze nel Golfo e nel
resto della regione?
Ci opponiamo a qualsiasi aggressione o intervento imperialista ovunque nel mondo
e siamo contro ogni progetto statunitense in Iran. Ma dubito che le minacce USA
possano essere tanto presto realizzate. Per una serie di ragioni principali, tra
cui:
- Gli USA hanno al momento più di 160’000 soldati in Iraq. Se consideriamo
l’enorme influenza dell’Iran in Iraq, questi soldati diventerebbero
istantaneamente degli ostaggi, ed il tributo medio quotidiano di morti tra le
truppe USA balzerebbe dal presente numero di 5-10 a più di 100 al giorno, in
caso di attacco via aria o con altre modalità all’Iran. Se l’attuale tributo di
morti tra i soldati statunitensi causa gravi problemi all’amministrazione Bush,
cosa succederebbe se questi aumentassero dieci volte?.
- L’Iran ha relazioni strette con Hezbollah in Libano e Hamas e la Jihad
islamica in Palestina. Tutte queste sono organizzazioni armate che potrebbero
infliggere molto dolore al principale alleato USA nella regione, “Israele”, se
le ostilità contro l’Iran dovessero essere aperte.
- Gli Stati Uniti hanno enormi basi militari nei Paesi del Golfo; sono tutte
entro il raggio d’azione diretto degli armamenti iraniani, e quindi a rischio.
- L’Iran può facilmente bloccare il flusso del petrolio nel Golfo attraverso lo
Stretto di Hormuz e lungo le coste iraniane, rallentando le forniture mondiali
di petrolio in un momento in cui il costo del greggio ha toccato un nuovo picco
sui mercati internazionali.
- L’Iran ha forti relazioni diplomatiche ed economiche positive con attori
internazionali dal ruolo chiave (Germania, Russia, Cina), ed essi possono
muoversi per offrire una funzione di supporto o pacificatrice.
Per tutte le ragioni menzionate, io presumo che una aggressione statunitense in
grande scala all’Iran sia improbabile, per via degli alti costi geopolitici che
essa implica. Ritengo anche che le minacce USA all’Iran sono mirate a compiere
qualche “progresso” sul fronte iracheno. Sentiamo di numerosi incontri USA-Iran
per discutere di accordi in Iraq, e malgrado l’amara ironia di questi incontri
(ufficiali americani ed iraniani che discutono del futuro dell’Iraq Occupato),
essi non solo denotano l’assenza di un progetto arabo influente nella regione,
ma suggeriscono anche che un importante attacco USA all’Iran è improbabile.
Cos’è accaduto al progetto del “Medio Oriente Allargato”? E perché vediamo
l’amministrazione americana cambiare strada nel suo approccio a questa
questione?
Il Medio Oriente Allargato (o Nuovo) si confronta con ostacoli enormi, tra cui i
più importanti sono le resistenze armate capaci di sconfiggere il nemico sul
campo. Questo è ciò che accade principalmente in Iraq e in Libano. Se
l’aggressione israeliana contro il Libano nel luglio 2006 ha segnato gli “spasmi
della nascita di un nuovo Medio Oriente”, secondo quanto detto da Condoleezza
Rice, e l’occupazione dell’Iraq ne è stato il suo paradigma principale, allora,
a giudicare dal fallimento sia dell’aggressione, sia dell’occupazione, il
progetto di Medio Oriente Allargato e Iniziativa per il Nord-Africa (BMEI), con
la sua “franca strategia di libertà” era nato morto già dal concepimento. E tale
rimane, almeno per il momento.
La seconda ragione è che molti poteri internazionali e regionali rilevano una
contraddizione tra i loro interessi ed il Medio Oriente Allargato.
L’amministrazione neoliberale ora al timone a Washington è così sconsiderata
nella sua arroganza e fiducia in sé che non si coordina o consulta più con i
suoi alleati più stretti. Il suo unilateralismo è controproducente per qualsiasi
progetto del genere.
Gli europei (molto più vicini geograficamente alla regione araba e perciò più a
rischio di essere toccati direttamente dai risultati di qualsiasi cambiamento)
hanno il loro proprio progetto, il partenariato euro-mediterraneo, che non lega
direttamente con il Medio Oriente Allargato.
La Cina, la Russia e l’Iran vedono nelle risistemazioni attorno ai loro confini
una minaccia strategica, e possiamo concludere che la recente Shanghai
Cooperation Organization, ed i suoi esercizi militari, siano parte di un presa
di posizione dinanzi alla crescente espansione USA ad est, dopo il collasso del
Muro di Berlino, la caduta dell’Europa dell’Est e l’ingresso delle repubbliche
baltiche nella sfera di influenza americana, e l’occupazione dell’Iraq e
dell’Afghanistan.
Il terzo ostacolo è l’inalterato rifiuto popolare arabo verso la
“normalizzazione” dell’entità sionista, con il suo avvallo come parte “normale
ed accettabile” della regione. La normalizzazione implica l’accettazione
dell’abnorme, dell’ingiusto e contraddittorio rispetto all’interesse della
gente, come fatto con cui avere a che fare, come accettabile status quo.
Normalizzazione significa promuovere una falsa visione della storia che induce
la gente a credere ed agire di conseguenza, e serve a rinforzare altre enormi
bugie (o altre “normalizzazioni”), come “legittimità internazionale”, che
rappresenta in realtà il volere politico dei poteri imperialisti, con gli Stati
Uniti in testa.
La normalizzazione faciliterà tremendamente la strada ad “Israele” per diventare
il centro capitalista egemonico nella regione, che controlla poi una quantità di
strutture sociali frammentarie. Fin dalla sua creazione come entità di
pionieri-coloni, “Israele” non ha concluso niente da questo punto di vista,
eccetto una incrinatura nell’unità al livello dei regimi (avendo concluso tre
accordi di “pace” ed essendosi assicurato il riconoscimento di tutti i governi
della Lega Araba). Questo riconoscimento è di importanza minima, dato che i
regimi arabi sono in effetti parte del progetto sionista/imperialista e non
antagonisti ad esso.
Il discorso dell’amministrazione americana sulla “democratizzazione” della
regione araba è stato congelato. George W. Bush era onesto a proposito della
“democratizzazione”? Perché il discorso statunitense sulla democrazia si ferma
quando incontra gli Islamisti, nonostante il fatto che l’Islam politico fosse un
alleato degli USA contro i sovietici in Afghanistan ed in altre aree? Perché gli
Stati Uniti sono così apertamente anti-Islamici oggi?
I regimi arabi sono, nel loro complesso, cornici sospese per aria. Essi non
hanno legittimità rappresentativa, e sono stati messi al loro posto dalla
“continuità” di governo legata all’era coloniale. La continuità nel loro livello
di autorità dipende dal grado con cui riescono a svolgere la loro funzione
principale di servitori e facilitatori del progetto imperialista. I regimi arabi
non sono “icone sacre” agli occhi degli Stati Uniti, e non sono parte organica
dell’imperialismo (al contrario dell’entità sionista, per esempio); di
conseguenza, essi divengono superflui nel momento in cui non sono più
vantaggiosi per gli USA o in cui cominciano a diventare un peso politico o per
la propaganda.
La retorica USA sulla democrazia è una palese bugia. Serve a sottomettere i
regimi arabi autoritari ma cooperativi (che sono oppressivi per natura) ad una
prevaricazione più grande, per una maggiore subordinazione. Niente terrorizza i
regimi oppressivi, che non hanno legittimità popolare, più del discorso sulla
“democrazia”, quindi questa è uno dei più importanti strumenti di
prevaricazione.
Inoltre, la “democrazia” tiene aperte le opzioni degli USA verso altre forze che
aspirino ad una chance di arraffare autorità, aprendo canali per “intese”, ed
esplorando il loro potenziale di conformazione ai voleri ed agli interessi USA.
Da un terzo punto di vista, l’illusione della “democrazia” gioca un ruolo
importante nella propaganda interna USA e per parte del pubblico del terzo
mondo, ed in tal modo diviene una scusa basilare per l’interventismo e per
l’egemonia in nome di “ideali” astratti.
Per tutte le ragioni citate, i regimi arabi sono presi dentro un vortice di
paura e prevaricazione: prevaricazione esterna da parte di poteri esterni capaci
di sovvertirli in ogni momento; e paura interna per ogni corrente politica che
veicoli legittimità popolare (come i movimenti Islamici), specialmente se queste
correnti dovessero rappresentare un’alternativa accettabile per gli americani e
si potesse raggiungere con loro un minimo di “intesa”.
In Iraq, il Partito Islamico Iracheno è uno dei pilastri del processo politico
sponsorizzato dall’Occupazione; mentre la Fratellanza Mussulmana Siriana si
schiera con la versione siriana di Ahmad el-Jalabi: Abdul-Halim Khaddam,
l’ex-vice-presidente siriano che è riparato in Francia ed è vicino ai circoli
francesi e statunitensi come possibile rimpiazzo di Bashar el-Asad.
Gli Islamisti di Giordania, mentre dichiarano posizioni politiche radicali
sull’Iraq e la Palestina, affrontano aggressivamente ogni discussione sul ruolo
della loro controparte irachena e non sentono alcun imbarazzo (per esempio)
nell’incontrare il secondo assistente del Segretariato di Stato USA nel 2001,
giusto dopo il 9/11. Si incontrano ancora con emissari di circoli di destra come
i rappresentanti del Carnegie Endowment for International Peace e partecipano ad
attività di ONG locali rinomate per esser state fondate da USAID o altre simili
fonti “in odore di imperialismo”.
Hamas in Palestina ha accettato di partecipare alle “elezioni”, partecipare ad
un “consiglio legislativo” e formare un “governo” – tutto entro la cornice del
processo politico dominato dall’Occupazione sionista e basato sugli accordi di
Oslo. Ora ha iniziato a parlare di uno “stato palestinese entro i confini del
1967”, ovvero ha iniziato a scivolare sulla china pericolosa del venire a patti
con lo status quo, come un autorevole potere politico “insediato” che ha bisogno
di preservare i suoi triviali risultati (una via battuta per primi da Fatah).
L’alternativa di principio è riconoscere invece apertamente il fatto che l’
“Autorità Palestinese” non è affatto un’autorità e preservarsi entro le trincee
della resistenza di principio.
L’Islam politico non è bersaglio degli Stati Uniti – piuttosto ciò che è
bersaglio è la resistenza, sotto qualsiasi etichetta. In Sud America ed nel
Sud-Est asiatico la resistenza assume un assetto di sinistra (FARC, i partiti
politici comunisti filippino e nepalese), e gli USA li attaccano. Nella regione
araba, la resistenza assume la forma dell’Islamismo, e gli USA attaccano anche
questa. Il comun denominatore è la resistenza all’egemonia di Washington ed al
suo piano d’azione per il controllo, non l’Islam.
In realtà gli USA non hanno nessun problema nel rapportarsi con l’Islam moderato
(come il “modello turco” e le sue copie). Val la pena di sottolineare come gli
Islamisti turchi mantengano la loro tradizionale alleanza strategica con
“Israele”, e suppongo che gli americani siano favorevoli a consegnare la regione
araba agli Islamismi moderati per una serie di ragioni. Tali Islamismi
rappresentano una forza con estensioni popolari e sociali, riescono a parlare
alla gente con un linguaggio che le masse capiscono; e possono offrire strutture
operative sociali/economiche/politiche, contrariamente ai regimi arabi che non
hanno niente di simile. Ecco perché i regimi arabi usano tecniche oppressive per
preservare la loro autorità e gli interessi USA nella regione. Quest’oppressione
può, in determinate circostanze, causare situazioni esplosive o generare
fenomeni incontrollabili. Di conseguenza, da questo punto di vista, favorire gli
Islamisti “moderati” può essere visto dal progetto imperialista come
un’alternativa più praticabile e di lunga durata.
Questo potrebbe spiegare la tremenda paura ed odio che i regimi giordano ed
egiziano nutrono nei confronti del movimento islamico (la Fratellanza Islamica),
nonostante il fatto che quest’ultimo non sia completamente radicale, e si
presenti come un moderno movimento wasati (1), che funziona entro gli schemi
“classici”. Quel che è nuovo è la percezione del regime di una più potente
alternativa che si va formando. Di conseguenza, essi cercano di smantellare il
movimento Islamico internamente, mentre nel contempo intraprendono un’aggressiva
campagna di pubbliche relazioni all’esterno per convincere l’amministrazione USA
che questi Islamisti sono tutt’altro che moderati, e perciò parte del bersaglio
e del suo centro nella “guerra al terrore”.
Il problema a due facce qui è che il movimento islamico assetato di autorità non
vede che non c’è possibilità all’orizzonte, nella attuale formula politica, che
di obbedire e conformarsi agli americani ed israeliani, perché l’”autorità” di
cui è così ansioso di impossessarsi è subordinata come struttura. In questo
senso, l’ ”Autorità Palestinese” è l’esempio più chiaro. Entro strutture di
autorità subordinate, è molto facile prevaricare o strangolare chiunque cerchi
di prenderne fermamente il controllo.
D’altra parte, le azioni intraprese dai regimi arabi per smantellare i movimenti
islamici moderati, fanno propagare segmenti di tali movimenti nell’ombra, a
creare gruppi violenti ed atteggiamenti che sfociano in distruttività, che
minano la società. Inoltre, i regimi arabi potrebbero in realtà impegnarsi in
tale azione deliberatamente, per provare la loro “teoria” etero-diretta che i
movimenti Islamici moderati hanno un “vero nucleo” che è fondamentalmente
violento e che nessuna “intesa” può essere raggiunta con loro, mentre la società
più allargata, nella sua vulnerabilità coltivata dal senso di minaccia
artefatto, sente di aver bisogno del regime attuale per preservare la sua
sicurezza. In questo modo i regimi arabi fabbricano il senso del “bisogno” della
loro esistenza internamente ed esternamente.
Qui penso che la violenza politica sia una
creazione dei regimi per preservare la loro posizione di autorità, perché non
godono di alcuna legittimità popolare, ed hanno sempre bisogno di ragioni
interne o esterne per assicurarsi la loro presa sul potere.
Gli Islamisti che si collocano dalla parte della chiarezza politica devono
comprendere l’impossibilità di collegare un programma di liberazione ad una
struttura di autorità subordinata, e devono decidere sulle loro opzioni
spostandosi dal cosiddetto approccio pragmatico, che abilita la repressione e la
manipolazione da parte di poteri internazionali e regionali. Gli Islamisti
devono aprirsi all’interno ad altre forze non religiose (Marxisti e
nazionalisti) e sposare un programma civile, secolare, di liberazione; devono
imparare dall’esperienza del Libano e dell’Iraq, dove l’elemento settario e
religioso è stato la base per il gioco dell’egemonia ed il fondamento per la
frammentazione che ha messo le persone le une contro le altre invece che essere
unite contro il loro nemico comune.
Questo non è per dire che gli Islamisti sono opportunisti mentre le forze
secolariste no. La mia attenzione va agli Islamisti perché essi sono l’unica
reale forza politica sulla scena araba oggi. Ci sono due tendenze nel movimento
Islamico, una opportunista e l’altra di principio. E gli Islamisti di principio
dovrebbero prestare attenzione, perché alla luce di quest’analisi essi sarebbero
i primi a venire sacrificati dai loro confratelli opportunisti di fede e lotta.
Certamente ci sono anche opportunisti di sinistra (beneficiari delle ONG e
liberali-divenuti-Marxisti) e nazionalisti xenofobi (con tendenze fasciste
contro gli iraniani, i kurdi e i turchi), ma questi fenomeni sono solo di scarsa
importanza, dato che le loro schiere sono troppo deboli per prendere le piazze e
sfidare il potere esistente.
Nel complesso e come desiderio principale, c’è oggi un imperativo grande e
pressante per un’unità della Sinistra, in tutte le sue correnti: la sinistra del
movimento Islamico, la sinistra del movimento nazionalista, e la sinistra del
movimento di sinistra progressista e rivoluzionario, sulla base di un programma
di resistenza, liberazione, e chiarezza politica. L’oppositore di Destra di
tutte queste correnti è già unitario ed in azione.
Mercenari in Iraq |
Note:
(1) in arabo, wasati significa medio. Ha
implicazioni religiose e politiche nel senso che un movimento wasati prende una
posizione media tra due estremi.
* Hisham Bustani è il Segretario del Forum del Pensiero Socialista in Giordania,
e membro del Comitato di Coordinamento della Alleanza dei Popoli Arabi
Resistenti.
La versione inglese dell’intervista è stata pubblicata, leggermente riveduta,
sulla Monthly Review:
http://mrzine.monthlyreview.org/bustani281007.html
La versione originale in arabo è disponibile online in: www.raya.com