SENZA CENSURA N.23
luglio 2007
Ancora sui call-center
Due testimonianze dalla Call&Call (La Spezia) e dalla Wind (Sesto S.Giovanni)
Nel numero scorso
di SC abbiamo riportato un’intervista del collettivo PrecariAtesia di Roma,
senza dubbio una delle realtà auto-organizzate più interessanti nell’ambito del
lavoro precario. Allo scopo di fornire un quadro più esauriente delle esperienze
di lotta sviluppatesi nei call-center riportiamo qui di seguito un’intervista
effettuata ad alcuni lavoratori della Rete contro la precarietà (La Spezia) e
l’intervento di una operatrice della Wind di Sesto S.G (MI) alla facoltà di
scienze politiche a Milano. Nel primo caso, la vicenda di un lavoratore di una
filiale cittadina del gruppo Call&Call diventa un’occasione per riflettere più
in generale sulle trasformazioni (in peggio...) della realtà lavorativa di un
contesto di provincia come La Spezia, amministrata con continuità dal
centro-sinistra, e sede di importanti installazioni militari che condizionano
fortemente gli equilibri di potere nell’area. Le continue dismissioni, le
chiusure di fabbriche, il ridimensionamento della cantieristica navale, hanno
liberato forza-lavoro da sfruttare a collaborazione o a progetto negli
iper-mercati e in altre situazioni estremamente precarie come appunto i
call-center. Nel caso della Wind di Sesto sono stati i processi di
smantellamento e di investimento di settore da parte dell’Enel, le
esternalizzazioni dovute alle cessioni di ramo d’azienda, ben supportate dalla
legge Biagi, a rappresentare per i lavoratori la perdita del posto di lavoro e
la loro ulteriore parcellizzazione e suddivisione (tra sedi, contratti e così
via). In tutti e due i casi, la circolare Damiano sulla “regolarizzazione” dei
lavoratori inbound che ha sancito in modo inequivocabile la divisione tra
operatori inbound e outbound, la politica concertativa dei confederali, la legge
30, hanno favorito l’ennesimo processo disgregativo tra lavoratori che in realtà
svolgono la stessa funzione. Così accade che alla Comdata, un altro call center
di La Spezia, la promessa di assunzione per 55 lavoratori con contratto di
lavoro subordinato (senza specificare quale...) in base a questa circolare
rappresenta una minaccia di licenziamento per gli operatori di una ditta in
appalto, la Televoice, che oltretutto sono compresi nel 70% di corsisti che
Comdata si era impegnata con la Provincia ad assumere per ottenere un
finanziamento di 400.000 euro.
Citando un volantino della Rete, “come per la C&C anche nel caso di Comdata le
responsabilità di simili politiche di precarietà e di flessibilità sono
equamente attribuibili ai padroni, ai sindacati, e ai poteri politici locali che
consentono a queste società di sfruttamento di colonizzare il sistema produttivo
locale senza assicurare la minima dignità ed una continuità lavorativa ai
lavoratori...”.
Intervista ad alcuni lavoratori della
Rete contro la precarietà La Spezia
Com’è nata la Rete e qual è la sua composizione? Quali categorie di
lavoratori comprende?
[P.]: La Rete nasce inizialmente dal confronto tra due soggetti politici, il
Coordinamento Precari Studenti e Operai (CPSO) e uno spazio sociale della città,
l’RDA MYDAY. Queste realtà cominciano a collaborare, viene convocata
un’assemblea attraverso un documento del CPSO (“Dalla precarietà economica alla
precarietà sociale”) che indicava un’analisi e degli obbiettivi minimi sui quali
iniziare a modulare delle esperienze e delle forme di progettualità e di
intervento sul mondo del lavoro che ci sembra fortemente disgregato.
L’attenzione della rete all’inizio è rivolta ad un call-center cittadino, in
quanto un lavoratore fa parte del CPSO, e alla grande distribuzione, gli
iper-mercati di proprietà Coop, in una città come La Spezia, governata dai
partiti del centro-sinistra. Sostanzialmente il primo atto politico è una
manifestazione all’interno di un supermercato a Sarzana sulla questione dei
contratti a tempo determinato riproposti ai lavoratori più volte senza
prospettiva di stabilizzazione. Dopo questa iniziativa cominciano a collaborare
altri individui non appartenenti alle realtà originarie, di qui la decisione di
formare un collettivo politico che viene chiamato “rete contro la precarietà”.
Riguardo alla composizione, ci sono dentro precari, studenti, operai
“tradizionali”, uno spettro che ben rappresenta la stratificazione della classe
qui a La Spezia.
Nel gennaio 2007 viene occupato l’assessorato alla buona occupazione a La
Spezia in risposta ad un vero e proprio “licenziamento politico”. Inizia da qui
l’intervento sul call-center?
[F.]: Tutto è partito dal mio licenziamento, anche se in realtà questa
azione si inserisce nel progetto da parte della rete di eseguire una serie di
iniziative individuando come punti nevralgici le connivenze politiche,
sindacali, imprenditoriali della Call & Call. Era palese fin dall’inizio la
connivenza tra l’amministrazione cittadina e Umberto Costamagna: vedi i
finanziamenti ottenuti per costruire sull’area dismessa dove sorge il
call-center, vedi il sindaco DS Pagano che è venuto a fare l’operatore per un
giorno a scopo promozionale, vedi le diverse commesse appaltate dal comune alla
Call&Call, vedi la propaganda elettorale usando i lavoratori del call-center. E
la provincia non è da meno, dal momento che ha sponsorizzato con 400mila euro un
altro call-center del gruppo Telecom. Il primo passo è stato andare proprio dai
politici; visto che l’assessorato alla buona occupazione è stato dato a
Rifondazione Comunista, la contraddizione risaltava ancora di più. Prima
dell’occupazione dell’assessorato c’è stata una serie di volantinaggi e la mia
partecipazione ad alcune assemblee sindacali senza svelare la mia appartenenza
alla rete, allo scopo di stabilire un contatto con i miei colleghi senza espormi
troppo. L’intervento sul call-center è dovuto anche al fatto che io lavorassi
alla Call&Call che impiega quasi 400 lavoratori; i volantinaggi volevano
evidenziare e sollecitare l’autorganizzazione dei lavoratori di fronte ad una
condizione contrattuale di sfruttamento. La stragrande maggioranza dei contratti
erano di collaborazione, nonostante alla Call&Call, come negli altri call-center,
si sia in presenza di lavoratori in sostanza subordinati.
Da quanto tempo lavoravi alla Call&Call? Il servizio era “inbound”?
[F.]: La mia esperienza lavorativa è durata (è ancora in corso la vertenza
contro il mancato rinnovo, n.d.r) quattro anni. Se all’inizio il lavoro era
prevalentemente outbound, con l’andare del tempo il proprietario ha acquisito
anche commesse inbound, che ora sono prevalenti grazie alla commessa Enel.
Dopo l’attività iniziale c’è stata una reazione da parte dei tuoi colleghi?
Come si è arrivati al “licenziamento”?
[F.]: Il problema è stato che nel momento in cui si creava un nucleo di
lavoratori che recepivano questa sensazione di sfruttamento e non si fidavano
del sindacato, che nell’ombra ha sempre ostacolato ogni tentativo di
autorganizzarsi, appena c’era un minimo di aggregazione veniva vanificata dal
fatto che i contratti erano tutti a tre o a sei mesi; questo era un ostacolo
serio. Un altro ostacolo è stata la direttiva Damiano che faceva distinzione tra
inbound e outbound considerando i primi lavoratori subordinati, i secondi,
lavoratori autonomi, gettando le basi per una differenziazione tra lavoratori.
Distinzione assurda se pensiamo che io e la stragrande maggioranza degli
operatori anche nello stesso giorno lavorativo aveva mansioni inbound e outbound.
Inoltre il prezzo dell’inquadramento degli inbound è una riduzione della paga
oraria e per raggiungere il livello di stipendio pieno devono concludere più
contratti...
Quando in un’assemblea sindacale io sono intervenuto, eravamo quasi alla fine
del 2006, dicendo di abbandonare il discorso sindacale e di entrare nella rete,
mi sono scoperto e tutto è precipitato. Il mio contratto scadeva il 30 dicembre,
il titolare aveva assicurato che avrebbe rinnovato il contratto a tutti,
esisteva anche un accordo sindacale che garantiva un preavviso di almeno due
mesi in caso di mancato rinnovo; morale, tre giorni prima della scadenza, il mio
contratto non è stato rinnovato e i sindacati naturalmente non si sono mossi...
erano ben contenti che venissi allontanato.
In occasione dell’occupazione dell’assessorato fu espressa solidarietà dalla
CUB di La Spezia. Che rapporti avete con la CUB locale e più in genere col
sindacalismo di base?
[P.]: La CUB ha espresso di fatto solidarietà nei confronti di F.; molti di
noi vengono dall’esperienza della CUB. In una prima fase c’era una certa
capacità di mobilitazione e di intervento data dalla varietà di lavoratori che
poi sono confluiti nella rete. Alla fine abbiamo visto dei limiti; il
sindacalismo non è un’esperienza di per sé negativa, può essere un modo per
cominciare a fare le prime esperienze di autorganizzazione o pratiche di lotta.
Diventa un’esperienza negativa e limitativa quando non riesce a cogliere
attraverso l’analisi i mutamenti nel mondo del lavoro e si rinchiude in
categorie che ormai sono obsolete rispetto ai processi di produzione e
distribuzione del capitalismo moderno. Questo limite ci ha fatto allontanare dal
sindacalismo di base vero e proprio e ci ha fatto spostare l’attenzione su un
terreno propriamente più politico.
Il 23 marzo 2007 viene occupata dalla rete la sede del NIDIL-CGIL. Esiste a
La Spezia o a livello regionale un movimento critico nei confronti dei
confederali?
[F.]: Per quanto riguarda l’occupazione del Nidil, è inserita all’interno di
quel percorso che avevamo individuato sulle responsabilità del sindacato nella
situazione della Call&Call e nei call-center in generale. La chiusura simbolica
del Nidil è dovuta al fatto che i confederali non fanno altro che mantenere la
precarietà. Chiudendo simbolicamente il Nidil abbiamo voluto dimostrare come la
strada indicata dalla CGIL e dai sindacati fosse una strada senza senso. Per
fare un esempio, alcune lavoratrici della C&C hanno esposto tramite lettera ad
un giornale la loro preoccupazione sul fatto che nel call-center c’era questa
condizione di sfruttamento e a rispondere a loro sono stati i sindacati con una
difesa dell’azienda e del lavoro del sindacato.
[P.]: Per la mia esperienza come metalmeccanico, forme di critica o di
microconflittualità nei confronti dell’operato del sindacato ce ne sono. Il
problema di fondo è che non si va al di là del lamento. Manca un soggetto
politico strutturato e forte che possa rappresentare un’alternativa al sindacato
dal punto di vista della forza, dell’analisi, della progettualità. Rispetto
all’esperienza di Atesia, oggettivamente il nostro intervento è stato esterno.
Al momento c’è talmente una frammentazione che la ricomposizione della classe
può venire solo da fuori. Nelle fabbriche ci sono un sapere e una tradizione di
lotta, che rispetto ad altri settori di lavoro possono essere recuperati. Per
questo, rispetto ad un intervento politico alla Fincantieri di Spezia, dove io
lavoro per una ditta esterna, avevamo pensato quantomeno di costituire prima un
nocciolo minimo di lavoratori interessati a un intervento critico verso le
piattaforme sindacali e contro la paventata privatizzazione della Fincantieri a
livello nazionale. Questo perché è più complesso un intervento politico esterno
nella grande fabbrica dove il sindacato mantiene comunque una sua valenza
funzionale, rispetto ad altri settori in cui vigono condizioni di non-garanzia
legate alla grande distribuzione, al lavoro immateriale…
Qual è la vostra opinione rispetto alla mobilitazione portata avanti dal
collettivo PrecariAtesia? Ci sono stati contatti con questa o altre esperienze
di lotta nel campo dei call-center?
[F.]: Abbiamo avuto principalmente contatti con PrecariAtesia. Il primo
elemento da sottolineare è che il collettivo di Atesia ha fatto un lavoro lungo,
di circa 4 anni, c’è stato un lavoro all’interno del call-center che conta 4000
lavoratori; rispetto ai risultati, i passaggi sono stati simili a quello che è
successo qui. Dopo la circolare Damiano, c’è stata una pseudo-stabilizzazione
degli inbound e il licenziamento politico di diversi lavoratori che a loro modo
si sono opposti alle politiche aziendali.
[P.]: Vorrei aggiungere che è vero che questo collettivo rappresenta l’1% dei
lavoratori del call-center, ma ha mobilitato attorno a sé un numero molto più
ampio di lavoratori e realtà politiche che gravitavano attorno. Nell’assemblea
nazionale contro la precarietà indetta da Atesia sono emerse due visioni: una
più politica che corrispondeva anche all’analisi che avevamo fatto noi rispetto
alle dinamiche della precarietà, funzionale a far risaltare la contraddizione
rispetto alla condizione di vita dei lavoratori, una più sindacale che guardava
all’obbiettivo.
C’è bisogno di fare anche un’analisi più sociale rispetto ai soggetti che
lavorano nei call-center e su come si modifica il quadro delle figure che
compongono il settore. Rispetto a prima, ci sono persone che ripongono speranze
di reddito e di sostentamento in questo tipo di lavoro in misura sempre più
ampia. La precarietà attraversa tutto il ciclo del capitalismo moderno, non è
legata solo al settore lavorativo, ma a tutto il ciclo economico. Questo è
secondo me il punto di vista più importante che ha lasciato l’esperienza
dell’assemblea nazionale contro la precarietà.
Quali sono state le reazioni a livello istituzionale e padronale rispetto
alle iniziative svolte dalla Rete rispetto alla Call&Call?
[P.]: la reazione è stata smodata e ha spostato il tiro infamando la nostra
azione e agitando sui media lo spauracchio del terrorismo, come avviene spesso
oggi contro le forme di opposizione. Nel caso dell’assessore Carosi è caduto
dalle nuvole elencando una lista di cose che ha fatto durante il suo mandato,
liquidando la cosa cercando un “dialogo”. Per quanto riguarda la CGIL, ha
dichiarato che le loro porte sono sempre aperte al dibattito, non capendo cosa
vogliano quelli della Rete, e sentivano a detta loro un ritorno agli anni bui
con esempi abbastanza lampanti. In un volantinaggio alla Call&Call è nato un
battibecco ed è scattata una denuncia per diffamazione.
La situazione di F., licenziato, ha un seguito? Più in generale, quali sono
le prospettive della Rete?
[F.]: Stiamo portando avanti la vertenza, tramite l’Ispettorato abbiamo
chiesto il mio reintegro in azienda, con il riconoscimento di tutte le garanzie
e i diritti anche pregressi di un lavoratore subordinato. Sono cambiate le
condizioni oggettive del call-center; il proprietario della C&C possiede altri
call-center, ha concentrato gli inbound a La Spezia, ma non abbiamo dei dati
precisi. Questo è un altro nostro limite, cioè ci siamo mossi solo sul piano
provinciale, quando il proprietario ha call-center in tutto il territorio
italiano e anche in Romania. Si stanno modificando oggettivamente anche le
condizioni dei lavoratori per cui è necessario cambiare tipo di intervento da
parte nostra. Le difficoltà aumentano ma non per questo è concluso il nostro
intervento, anche perché il settore è in continua evoluzione, non si guadagna
solo sui servizi, ma anche sul telemarketing, e così via…
[P.]: Stiamo pensando di fare interventi legati alla modificazione del
territorio di cui il capitale si serve, dei flussi sociali e urbanistici che
sono legati alle strutture che il capitale crea per distribuire la merce, e la
relativa dismissione e creazione di posti di lavoro (precari). L’altro tipo di
intervento è relativo alla presenza di uno stabilimento della Fincantieri in
città che sta attraversando una fase di conflittualità rispetto alla paventata
privatizzazione.
il gruppo call & call Il fondatore della Call&Call, Umberto Costamagna, è anche presidente dell’ASSOCONTACT (Associazione Nazionale dei Contact Center in Outsourcing), volta a “favorire la promozione e lo sviluppo del settore professionale dei Contact Center per la fornitura di servizi a terzi”, nella cui giunta è presente anche Tripi, presidente del gruppo Cos. Le principali iniziative intraprese da ASSOCONTACT sono l’adesione a FITA – CONFINDUSTRIA, un sito web interattivo con area e documenti riservati agli associati, il dialogo con il Ministero del Welfare e con gli organismi sindacali in ordine alla riforma Biagi, convenzioni con fornitori di servizi e prodotti, promozione di seminari e workshop. |
Intervento di una lavoratrice del
call-center di Sesto San Giovanni (ex-Wind) all’assemblea “Flessibilità
formativa, precarietà lavorativa”, svoltasi il 23 aprile e organizzata dal
Collettivo di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano
Sono un ex-delegata del call-center di Sesto San Giovanni di proprietà Wind. La
vicenda di Wind nasce a Sesto San Giovanni nel ’99, quando Enel decide di
diversificare le serie di call business; questo significa che dall’elettricità
c’è stata l’idea, anche da parte di quello che era allora l’amministratore
generale, di entrare nel vero business, cioè quello della telefonia fissa e
mobile che ha margini di redditività più alti rispetto ad esempio alla Fiat che
ha intorno all’8% (noi siamo già intorno al 40%), quindi un settore dove si
fanno molti utili e molti profitti.
Nell’agosto 2005, Enel cambia la sua politica economica e decide di focalizzarsi
di nuovo rispetto all’elettricità, per cui si procede con la vendita di Wind.
Inizialmente nell’agosto del 2005, viene venduto il 67% di Wind e la vendita è
completata a dicembre del 2006. Wind era un’azienda parastatale, essendo
controllata al 100% da Enel; è stata venduta per più della metà dal vecchio
governo Berlusconi e per il 23% dal governo Prodi, senza nessuna richiesta di
garanzia occupazionale.
Normalmente quando c’è la vendita di una proprietà pubblica si richiede un
minimo di garanzia rispetto all’occupazione. Wind conta intorno agli 8000
dipendenti in tutto il territorio italiano. Ha call-center a Palermo, uno ad
Ivrea, uno a Milano, uno a Roma e uno a Napoli, per un totale di 2500 addetti ai
call-center, 8000 dipendenti e quindi altrettante famiglie. La preoccupazione
avrebbe dovuto essere posta dall’allora governo italiano o da quello attuale
rispetto alla vendita. Siamo stati venduti a un capitalista egiziano che è
attivo in tutto il Medioriente con un’azienda telefonica che si chiama Orascom
attiva in Pakistan e che ha concessioni di telefonia mobile in Iraq, in Iran, in
Marocco, Algeria, ecc.. Perciò un colosso nella telefonia mondiale.
La vendita è avvenuta nello stesso modo di Telecom e Autostrade. Prima di tutto,
è stata una vendita eseguita a debito, ossia attraverso prestiti concessi da
istituti di credito. Credito che poi successivamente è stato inserito a
bilancio. Questo cosa costa in un’azienda? Costa ovviamente indebitarla,
metterla in pericolo, sia rispetto alla sua tenuta occupazionale, sia per la sua
sopravvivenza stessa.
C’è da considerare in più che il settore delle telecomunicazioni, proprio per la
necessità di un continuo aggiornamento delle tecnologie (lo vediamo adesso con i
cellulari che sono forgiati con una tecnologia cosiddetta di “terza
generazione”), ha necessità di investimenti molto alti e molto forti, e quando
si compra un’azienda a debito vuol dire che se la proprietà non ha speso soldi
per comprarla, figuriamoci se mette soldi per fare gli investimenti per reggere
la concorrenza.
Questo è proprio il caso di Wind. La nuova proprietà, a fronte di un prezzo di
vendita superiore ai 15 miliardi di euro, ha stanziato 200 milioni. Col resto
che è stato inserito a bilancio, Wind deve ripagare gli interessi sul debito che
le banche di anno in anno chiedono, deve saldare una parte del debito che
contrae tutte le volte che la proprietà egiziana decide di perseguire a livello
mondiale una politica di acquisizioni. Semplicemente si persegue una politica di
acquisizioni, applicando lo stesso meccanismo, cioè contattando gli istituti
bancari, contraendo nuovo debito, indebitando la società acquisita.
Altro sistema utilizzato in Italia per recuperare questi soldi che servono oltre
a pagare gli interessi sul debito, anche per fare gli investimenti necessari per
reggere la concorrenza di competitor quali Tim e Vodafone che hanno politiche
aggressive, è ovviamente quello della riduzione dei costi, che passa attraverso
alla razionalizzazione degli spazi, delle sedi, piuttosto che ai contratti di
fornitura internazionali. Ad esempio, per lo sviluppo della rete di terza
generazione, la proprietà egiziana ha stipulato un accordo transnazionale con
Nokia. Questo vuol dire che Nokia fornirà la rete aggiornata dall’India fino
all’Italia.
Ultimo aspetto ovviamente più dolente è la riduzione del personale, che in
questo momento viene fatta tramite due strumenti in azienda: il primo è
l’incentivo al licenziamento, per cui a fronte di 2 anni di stipendio mi
licenzio e mi rimetto sul mercato del lavoro. Non so darvi i dati esatti di
quante persone sono fuoriuscite, ma seguendo un po’ le vicende di Wind, credo
circa un migliaio di lavoratori. Ora ci troviamo in un momento più aggressivo di
questa politica di riduzione del numero degli addetti e infatti hanno iniziato
con le cessioni di ramo d’azienda.
Noi di Sesto San Giovanni siamo stati la prima realtà. Siamo uno dei 5
call-center di proprietà Wind. Già a livello normativo ci sono venuti i primi
dubbi perché se si parla di ramo d’azienda, questo comprende tutto il servizio
di call-center e non solo uno.
La notizia della cessione del ramo d’azienda c’è stata data il 12 gennaio,
quando la proprietà per la prima volta ha comunicato gli utili. A fronte di 56
milioni di utili, Wind ha deciso di liberarsi di 275 lavoratori. La
mobilitazione ovviamente è stata forte.
Vorrei segnalare il fatto che vi è un alto tasso di scolarità all’interno dei
call-center, molte persone con le lauree più disparate (da ingegneria a lettere
e filosofia, lingue, e così via).
Ovviamente quando si è studenti spesso si pensa che bastino le competenze e i
titoli di studio nel proprio curriculum per poter avere uno sbocco o una
carriera professionale. Il fatto che, dopo 6-7 anni dentro i call-center, i
lavoratori di carriera non ne hanno fatta, credo sia dovuto ai meccanismi di
selezione e carriera nell’azienda, che ovviamente non premiano, soprattutto ai
livelli intermedi, la cultura e la formazione di una persona, ma la sua fedeltà
ai valori dell’azienda e la disponibilità anche in termini di tempo. Ci sono
tante storie di donne che in caso di maternità sono ovviamente costrette a
limitare la loro disponibilità verso il datore di lavoro e spesso e volentieri
sono soggette per questo a mobbing o al licenziamento.
La procedura dunque è stata avviata dal 24 gennaio e da Wind è stata decisa l’esternalizzazione
verso Omnia Service srl, con capitale sociale di 10.000 euro, e facente parte
del gruppo di Omnia Network spa; la rivolta è stata anche dovuta al fatto che
questa è un tipo di azienda che offre servizi in outsourcing di call-center, per
cui lega la comunicazione alla commessa. Quando il 28 febbraio Omnia Network si
è quotata in borsa, ha presentato tutta la documentazione alla Consob; nel
capitolo riguardante la valutazione del rischio si parla di un’azienda il cui
core business è essenzialmente legato alle commesse, principalmente di
call-center, ma anche di logistica o trasporti, comunque non attività
“pregiate”, con una durata media di due anni e che possono essere disdettate con
un minimo di preavviso. La definizione che ho trovato io è quella di “impresa
volatile”, perché mentre molto spesso sono i rapporti di lavoro ad essere
precari, in questo caso ci troviamo di fronte ad un’impresa che già di per sé è
precaria. Un’impresa con un capitale sociale molto basso, 10mila euro, quando
noi nel passaggio da Wind ad Omnia abbiamo portato più di due milioni e mezzo di
euro solo col nostro trattamento di fine rapporto.
Come forme di lotta, a parte quelle tradizionali come la proclamazione di
scioperi (anche se noi essendo servizio di pubblica utilità eravamo soggetti ad
una tempistica molto lunga; per cui tra la dichiarazione al giorno dello
sciopero devono intercorrere una ventina di gg), abbiamo voluto colpire in
particolare l’immagine dell’azienda.
Ormai le aziende sono sensibili più a tutte quelle azioni che vanno a colpire la
loro immagine esterna che non alle mobilitazioni o alle giornate di sciopero.
Per cui sono stati organizzati mesi di presidi davanti ai negozi di proprietà
Wind, definiti dalla stessa proprietà come vetrine su Milano, sulla piazza più
importante rispetto al legame con i consumatori. È stato organizzato anche un “call-strike”,
che consiste nel chiamare il numero verde nel giorno di sciopero dei lavoratori,
utilizzando la tecnologia a proprio favore, facendo saltare il ritmo delle
chiamate e creando così tempi di attesa insostenibili.
In più stiamo percorrendo la via legale. Tutte le normative in materia di
cessione di ramo d’azienda discendono comunque da direttive europee. La legge 30
è andata oltre rispetto alla normativa europea, togliendo quello che era il
requisito di autonomia funzionale; se si pensa alle cessioni di ramo d’azienda,
io dovrei poter cedere una piccola azienda che sta all’interno dell’azienda più
grande. Questa piccola azienda ceduta deve essere in grado di stare
autonomamente sul mercato, di poter vendere i suoi prodotti, ecc.. La legge 30
ha tolto questo requisito di autonomia funzionale e basta che chi cede e chi
acquista definisca il ramo d’azienda cometale, cioè autonomo. Da noi la cessione
è stata fatta il primo di marzo, oggi siamo al 23 aprile e da quello vedo io,
neanche a quasi due mesi dalla cessione siamo realmente autonomi.
Vi faccio un esempio che secondo me è lampante; venerdì scorso avevamo indetto
le assemblee dei lavoratori del call-center di Sesto, ci ha chiamato la
proprietà e ci ha chiesto di rinviare le assemblee (andando oltre allo statuto
dei lavoratori che su questo argomento dà comunque abbastanza libertà, cioè
richiede semplicemente 48 ore di preavviso all’azienda per indire le assemblee)
con la motivazione che il call center Wind di Ivrea aveva un corso di
formazione, per cui tutte le chiamate sarebbero state dirottate su Sesto. Questo
fa vedere come comunque tutti e 5 i call center, 4 di proprietà Wind e il
nostro, siano ancora interdipendenti. Per cui noi speriamo di riuscire a far
rispettare almeno a livello legislativo quelli che sono i nostri diritti perché
non ci stiamo ad essere scaricati come dei sacchi di patate, non ci stiamo ad un
utilizzo della normativa che va oltre rispetto a quello che dovrebbe essere,
diventando un abuso.
Io ho partecipato a tutti gli incontri sindacali. La tendenza all’interno dei
sindacati è quella di firmare accordi di cessione di ramo d’azienda (in Telecom
ne avranno fatti una ventina) il cui unico risultato è stato quello di disdetta
della commessa, perdita del posto di lavoro per i lavoratori esternalizzati,
firmare ciò che è già previsto dal codice civile, nell’articolo 2112, cioè il
mantenimento dei diritti acquisiti. Perciò si fanno degli accordi sindacali,
stabilendo quello che il codice civile già dovrebbe dare alle persone
esternalizzate. Successivamente, in caso di impugnazione della cessione del
rapporto individuale di lavoro davanti a un giudice, la tendenza dei giudici è
che di fronte a un accordo sindacale, non guardano neanche le carte e danno
torto ai lavoratori. Noi siamo stati ceduti perdendo dei diritti sindacali, come
il fondo sanitario integrativo che, visto che il sistema sanitario nazionale
viene smantellato e subisce attacchi quotidiani, era una forma integrativa molto
importante per noi, piuttosto che un premio di risultato legato alla
produttività; però abbiamo preferito perderli per poter proseguire almeno la via
legale. L’ultima azione di lotta che stiamo organizzando è la partecipazione
alla Mayday del primo maggio a Milano nel pomeriggio.
Omnia è una realtà abbastanza sconosciuta per noi; siamo ancora fisicamente nel
palazzo di Sesto, abbiamo solo due persone responsabili di reparto per Omnia,
che di giorno in giorno ci cambiano il lavoro, perciò non siamo ancora di fatto
entrati nella nuova realtà. Guardando i dati che ci ha fornito la stessa Omnia e
il dato ministeriale (abbiamo avuto due incontri al ministero per lo sviluppo),
sappiamo che è una realtà di 3000 addetti con 1800 lavoratori a progetto,
interinali o con contratto fatto direttamente dall’azienda; comunque più della
metà di contratti precari.
A giugno è stata emanata una circolare, la famosa circolare Damiano, che divide
i lavoratori inbound da quelli outbound. I lavoratori inbound hanno diritto ad
un contratto di lavoro subordinato, che può essere a tempo parziale, a tempo
determinato o indeterminato. La circolare li divide secondo un falso ideologico,
si recupera un concetto di “lavoro autonomo”, cercando in questo tipo di lavoro
elementi di autonomia; cioè se io riesco a gestire la chiamata in 4 minuti
anziché 2, allora vuol dire che sono un lavoratore autonomo. Si distinguono
quindi i lavoratori inbound da quelli outbound, che gestiscono il contratto col
cliente e quindi si “autoderminano”, secondo la circolare. Sono in atto in
questo momento i processi di stabilizzazione perché la finanziaria prevede degli
sgravi per le imprese che portino alla stabilizzazione di questi contratti.
Sul lavoro interinale in Wind: abbiamo avuto in sede lavoratori interinali con
contratti di durata bimestrale, ma in questo momento a Sesto San Giovanni non ce
ne sono. Wind ha esternalizzato l’80% del lavoro di call-center; questo vuol
dire che il lavoro viene svolto da gruppi come Call data, Geting, Omnia, ecc.,
mentre solo per il 10% viene svolto in azienda. Poi i rapporti di lavoro in
queste aziende possono essere interinali, a progetto, ecc, ma sicuramente il
settore dei lavoratori di call-center sono stati una fucina di precarietà. E
neanche con la circolare se ne vede un superamento, anzi c’è una
parcellizzazione e divisione ulteriore.
Una delle cose che mi piacerebbe fare è un questionario sulla salute; in un
libretto su stress e call center viene sottolineato come la precarietà vada a
scapito della sicurezza sul posto di lavoro e della prevenzione delle malattie
professionali. So che c’era anche l’idea di inserire il lavoro all’interno dei
call-center nella lista dei lavori altamente usuranti, ma come tante altre cose
è stata persa per strada. Io ho un questionario che è stato elaborato dall’Asl
di Milano e mi piacerebbe sottoporlo a tutti i miei colleghi. Pensavamo di
aggiungere il titolo di studio, per far emergere il dato dell’istruzione della
“popolazione” dei call-center. Da quella che è la nostra esperienza emerge che
comunque, a pochi anni dall’attività nei call-center, si ha da subito un impatto
sulle condizioni di salute, per cui ci sono problematiche di udito molto diffuse
o problemi al metacarpo per l’utilizzo del mouse.
Io non so quale sia adesso l’insegnamento universitario, però mi spaventa
sentire che venga superata la teoria del conflitto quando poi l’esperienza ci
dice che il conflitto è una delle cose che genera più risultati rispetto a una
politica di concertazione, in cui tutto funziona sullo scambio ed è spesso e
volentieri un’autolegittimazione delle parti. Come anche le teorie diffuse
secondo cui la flessibilità è una buona cosa, quando rispetto alla mia
esperienza degli ultimi 10 anni, di fronte a una precarizzazione del mondo
lavoro, alla riduzione del costo del lavoro (in particolare in Italia che dai
dati è il paese in cui siamo pagati meno), mi spavento se in ambienti accademici
continuano a pensare come dieci anni fa che la formula della flessibilità è
quella che crea sviluppo, occupazione e c’è l’idea che il mercato sia comunque
buono.
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