SENZA CENSURA N.23

luglio 2007

 

Da Rostock a Roma…

Alcune considerazioni sullo stato di salute e sulle prospettive del movimento e dei movimenti

 

La manifestazione di Roma del 9 giugno contro la guerra e la politica estera del governo Prodi ha ribadito, dopo lo sciopero generale di novembre e la manifestazione a Vicenza di febbraio, che esiste non solo un generico senso di insoddisfazione nei confronti delle scelte belliciste di questo esecutivo, ma la disponibilità a manifestare la propria contrarietà alle scelte di fondo di questa maggioranza governativa, nonostante il tentativo di boicottaggio messo in moto dalla sinistra istituzionale.
Sono passaggi che vanno colti e che sono gravidi di possibilità.
La cinghia di trasmissione tra il governo e le istanze avanzate del movimento di classe si è ulteriormente sfilacciata… Speriamo che si rompa e travolga tutti coloro che hanno sacrificato la loro residuale credibilità politica al sapiente equilibrismo che ha contribuito e tuttora contribuisce a puntellare l’impalcatura della “sinistra di lotta e di governo”, o ha cercato, con notevole dose di malafede e di tornaconto personale, di sostenere la nefasta tesi politica di una qualche diversità positiva rispetto all’esecutivo precedente.
I vettori di questa mobilitazione più che le soggettività politiche organizzate, comunque visibili e importanti, sono state le esperienze più significative del movimento reale nel “nostro” paese, oltre alle varie istanze di base e locali “sganciate” da una collocazione politica dentro le logiche della rappresentazione tipiche del bipolarismo e del ceto politico di movimento.
Da questa ricchezza sociale bisogna partire per impostare un discorso minimamente realistico sulle prospettive politiche di breve-medio periodo e definire una agenda di priorità su cui calibrare il proprio lavoro militante.
La mobilitazione di Roma è stata in ideale continuità con quella promossa in Germania contro il G8 che ha visto una notevole partecipazione a livello numerico anche di componenti di movimento non solo provenienti dalla Germania e una serie di iniziative assolutamente efficaci e significative rispetto agli obiettivi scelti e agli strumenti adoperati per realizzarli.
La stessa stampa di regime di fronte al dato di un incontro dei “potenti della terra” assediato e un sistema di contenimento dell’iniziativa dei manifestanti sull’orlo del collasso ha dovuto cambiare di registro il processo di falsificazione della mobilitazione: non più barbari black block ma civili manifestanti “a due passi” dal summit.
Che metamorfosi!
In entrambe i casi non volendo far capire perché il corteo si è difeso dagli attacchi della polizia nella mobilitazione di sabato 2 giugno, né perché i manifestanti si sono trovati ad essere in una zona a loro precedentemente interdetta.
In modo speculare coloro che, all’interno del movimento in Italia, non perdono occasione per fare esternazioni ai giornali e comparire nelle televisioni, si sono ben guardati dal dire come un movimento, preservando la propria unità e il suo pluralismo, può organizzarsi per difendersi dalla polizia e violare i divieti dell’autorità, sventando la manovra a tenaglia degli uomini in divisa e della non meno pericolosa parte filo-istituzionale.
Peccato che qualche esponente del “movimento” sul pericolo di infiltrazione del “blocco nero” alla manifestazione di Roma, come su tanto altro, non abbia avuto la decenza di tacere, collocandosi anche questa volta nella posizione di colui che si sente in dovere di calibrare il “proprio” dibattito rispetto alle esigenze formulate dal blocco sociale dominante e oggettivamente al di fuori del movimento reale espressosi in Germania, nonché in antitesi con la qualità del dibattito delle forze soggettive dell’antagonismo sociale che si muovono in tutta Europa.
Diciamolo pure francamente: il fatto di accreditarsi agli occhi della sinistra istituzionale come il cuore della mobilitazione non si traduce poi sul campo nella capacità di gestione di una manifestazione quando questa per composizione, contenuti e spirito sfugge almeno in parte alla logica della bella sfilata da cartolina politically correct.
Chi si è assunto la responsabilità politica di agire fuori dalle compatibilità a Rostock così come a Roma, tenendo ben saldo il valore di uno spirito unitario ma non subordinato alle nefaste logiche della “sinistra radicale”, ha tutta il nostro incondizionato appoggio; si tratta comunque di lavorare affinché una massa critica diventi una forza d’urto dotata di una intelligenza collettiva con un solido processo di costruzione organizzativa alle spalle.
E comunque sarà più probabilmente il tentativo del nemico di imporre manu militari le sue scelte, che si tratti della costruzione di grandi opere, della presenza di basi militari, di siti di stoccaggio e di “smaltimento” del ciclo dei rifiuti, per non parlare delle politiche di sacrifici a livello sociale che farà imboccare al movimento reale il percorso più consono alla realizzazione dei propri obbiettivi.
Perché su un gamma di questioni importanti siamo arrivati al dunque e auspichiamo che la tempistica accelerata con cui questo esecutivo cerca di trasformare i suoi punti di criticità in punti di forza, rilanciando e passando come un rullo compressore sugli ostacoli che si frappongono alla sua opera di “governance” non dia solo “il fuoco alle polveri” ai movimenti ma lo stimolo per costruire un alternativa all’attuale sistema sociale sviluppando un processo di organizzazione di classe adeguato.

Rostock è stato un bello schiaffo in faccia per tutte quelle componenti “opportuniste” di movimento che in Italia non riuscendo a gestire le dinamiche che si erano sviluppate sull’onda lunga del movimento contro la globalizzazione da Seattle in poi, dopo Genova hanno preferito stralciare dalla loro agenda politica gli appuntamenti dei vari organismi sovra-nazionali come momenti di possibile costruzione di opposizione alle scelte della borghesia internazionale, così come hanno largamente “snobbato” iniziative congiunte praticate a livello planetario, salvo poi recuperare e sfruttare ex post il risultato di quei notevoli processi organizzativi intrapresi da altri compagni/e all’estero, così come hanno cercato di fare con la mobilitazione contro il G8 in Germania e con la stessa manifestazione di Roma di sabato 9 giugno.
La “tara genetica” che caratterizza buona parte del ceto politico di movimento e che lo attraversa tutto (da alcune componenti “critiche” del sindacalismo confederale a quello di base, dai numerosi “partiti comunisti” a sinistra della sinistra istituzionale fino a esperienze più locali e di base) è quella di subordinare la propria azione ai margini di agibilità lasciati dalla sinistra istituzionale, in un estenuante gioco di contrattazione al ribasso con questa, in cui si tiene il massimo silenzio nei confronti delle manovre repressive preventive dello stato e della sua opera di criminalizzazione di alcune componenti del movimento, si limita la propria iniziativa politica allo spettacolo ad uso e consumo dei media e quindi della propria immagine di “reale opposizione” alla politica dominante, non si vuole elaborare e socializzare strumenti critici e di crescita collettiva pratico-teorica.
Fare terra bruciata dei meccanismi di riproduzione di tali dinamiche, o almeno iniziare a superare questi limiti storici della rappresentazione politica delle istanze di classe, all’interno dei movimenti e grazie alle dinamiche che i movimenti stessi sviluppano, è un obiettivo non secondario di chi vuole contribuire alla costruzione di un processo organizzativo che sia antagonistico a questo sistema dominante e alternativo dal punto di vista politico.
La valorizzazione di esperienze politiche come quella che ha portato alla mobilitazione di Rostock impone di fare emergere i contenuti e le pratiche di quelle giornate così come il percorso politico che l’ha preceduto e sostenuto, senza produrre in Italia quei meccanismi di criminalizzazione di alcune pratiche e “marginalizzazione” di alcune tematiche che fanno del ceto politico di movimento Belpaese una “anomalia negativa”.
Tutto questo pensiamo che sia non solo auspicabile, ma praticabile e collocabile all’interno di una prospettiva più ampia che crei un rapporto virtuoso tra iniziativa locale e le relative forme di sperimentazione di cooperazione politica indipendenti e tentativi di coordinamento a livello più ampio, sia in senso spaziale che di composizione politica.
Già il potere lavora da tempo affinché questo non accada, operando affinché esperienze politiche pregresse con più ampi orizzonti di critica e di trasformazione sociale non si saldino ad esperienze indipendenti scaturite nelle lotte su specifici obiettivi. Non si possono sacrificare i margini di cooperazione tra compagni ad operazioni di “ricomposizione politica” di area o di creazione di una “organizzazione specifica”, sarebbe meglio indirizzare le proprie energie su terreni di lavoro e su obiettivi concreti e unificanti che pongano le premesse per una identità condivisa, una pluralità di pratiche che arricchiscano i percorsi di antagonismo e una crescita politica complessiva, senza naturalmente buttare all’ortiche la propria proposta politica particolare.
 



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