SENZA CENSURA N.23
luglio 2007
editoriale
Tutti i reati e i crimini sono di fatto
sociali. Ma fra tutti i crimini sociali quello che dovrà essere considerato il
peggiore è la pretesa impertinente di voler ancora cambiare qualcosa in questa
società, che pensa di essere stata finora anche troppo buona e paziente; ma che
non vuole più essere criticata. [Guy Debord, Commentari sulla società dello
spettacolo, 1988]
Abbiamo deciso di dedicare l’editoriale di questo numero al tema della violenza.
Le ragioni che ci hanno spinto a fare questa scelta sono principalmente due: la
prima è che questo tema è sempre più spesso al centro delle campagne (repressive
e/o mass-mediatiche) di attacco alle più svariate forme di organizzazione o di
resistenza che spezzoni di classe esprimono, e la seconda è che registriamo una
grande difficoltà (noi per primi) ad affrontare questo tema e di conseguenza a
rispondere adeguatamente a questi attacchi.
Vorremmo chiarire subito che non si tratta semplicemente di discutere se ci
piace o meno la violenza: diamo per scontato che ognuno di noi probabilmente ha
come aspirazione suprema quella di vivere in pace in una società giusta e
libera. Se però sul concetto di “pace” crediamo sia ormai abbastanza scontata la
necessità di rapportare il suo significato astratto alla concretezza dei
rapporti sociali esistenti, così pure riteniamo che questo sforzo debba essere
fatto anche sul concetto di violenza.
Si tratta quindi di affrontare la questione, sia pur schematicamente, dal punto
di vista dello stato e dal punto di vista di chi vuole invece sviluppare
opposizione e resistenza.
Viviamo in una società violenta, strutturalmente violenta. La società del
capitale è obbligatoriamente una società violenta, che impone con la forza delle
proprie armi lo sfruttamento dell’uomo e del territorio per la propria
riproduzione e per il conseguente arricchimento di pochi privilegiati ai danni
di miliardi di persone in tutto il mondo.
L’industria bellica e la ricerca militare sono i settori trainanti di qualsiasi
società capitalista, che da sempre fa della guerra il suo principale strumento
di sviluppo e di competizione a livello internazionale.
Per non cadere in una sterile disquisizione moralistico/filosofica e tentare di
mantenere la riflessione nei confini della politica è però necessario a nostro
avviso introdurre il concetto di monopolio della violenza legittima da parte
dello stato.
In una fase in cui la risposta alle crescenti difficoltà economiche è il sempre
più capillare restringimento degli spazi di “democrazia” e di agibilità
politica, in cui la dialettica sociale è sempre più blindata dentro a forme di
rappresentanza sempre più vuote e insignificanti, il monopolio materiale,
culturale e morale della violenza è per lo stato un elemento strategico che non
ammette anomalie o eccezioni.
La violenza viene oggettivamente ammessa, anzi, scientificamente programmata ed
organizzata, ma solo se finalizzata alla difesa di precisi interessi economici e
politici.
Questo implica due passaggi concreti: il primo è l’allineamento trasversale e
massiccio di ogni componente sociale a questa linea strategica come
discriminante per la sua “compatibilità”; il secondo è il capillare attacco a
tutto ciò che si muove in un modo o nell’altro al di fuori di questa
prospettiva.
Politici, giornalisti, magistrati, opinionisti diventano così paladini di questo
modello sociale scagliandosi furiosamente nei talk show televisivi e sulle
pagine dei giornali (o degli atti giudiziari) contro ogni forma di resistenza.
Il bene contro il male, i buoni contro i cattivi, i ragionevoli contro gli
irragionevoli. E del resto questo schema non è altro che la declinazione di una
strategia assunta dal comando a livello internazionale e ben sintetizzata nella
cosiddetta “lotta al terrorismo”.
Sarebbe fin troppo facile evidenziare l’ipocrisia di questa gente che, per
convinzione o per opportunismo, difende a spada tratta un potere grondante di
sangue.
Vogliamo però notare alcuni aspetti di questa campagna politica che possono
avere una ricaduta immediatamente più vicina ai nostri campi di intervento.
Il primo è che uno dei passaggi politici fondamentali che ha portato al
definitivo sdoganamento delle aree “comuniste” delle opposizioni parlamentari
sia sul piano europeo che su quelli nazionali e a conclusione di un lungo
processo restauratore, è stata proprio la scelta di esprimere come discriminante
ideologica di prospettiva la strada della non-violenza, tentando così di
“archiviare” definitivamente un patrimonio storico, politico e culturale da
sempre fondamentale strumento nelle mani degli sfruttati.
Il secondo è che ormai i cosiddetti “intellettuali”, ammesso che se ne riescano
ancora a trovare, storicamente voce fuori dal coro proprio perché
tendenzialmente fuori dagli ingranaggi del potere, sono stati quasi
completamente cooptati in questa “battaglia di civiltà” e spesso non
rappresentano altro che la putrescente e giullaresca corte di questo o quel
potentato.
Il terzo, più volte affrontato nel lavoro e nelle pagine di Senza Censura, è
l’incessante sviluppo di azioni repressive di ogni genere che accompagnano quasi
quotidianamente il lavoro politico di molti, moltissimi di noi.
Ma veniamo a noi.
C’è da dire che sicuramente questa campagna di bombardamento politico, culturale
e repressivo che sempre più spesso ha al centro in maniera evidentemente
strumentale il tema della violenza, sta condizionando l’agire e il dibattito
politico di molte esperienze, organizzate o meno, anche nel campo
dell’opposizione e dell’antagonismo.
In molti casi, soprattutto nelle situazioni più giovani o meno consolidate,
mancano proprio gli strumenti per contrastare questi attacchi o quantomeno per
affrontarli con una chiave di lettura più ampia e complessiva.
Altre volte, come abbiamo segnalato con preoccupazione in altre occasioni, c’è
chi sceglie di “rincorrere” i limiti delle compatibilità imposte, invece di
denunciarli e contrastarli, pensando con questo comportamento di potersi
garantire uno spazio di vivibilità e di riproduzione proprio. E’ ovvio che nel
quadro attuale di guerra totale descritto sommariamente più sopra questo
tentativo non può che risultare velleitario ed arrogante e ha a nostro avviso
come unico risultato concreto quello di offrire una comoda “sponda” alle
strategie dell’imperialismo.
In alcuni casi, invece, le scelte sono lucidamente politiche o, per meglio dire,
consapevolmente complici.
Per esempio in questi mesi assistiamo, segno dei tempi, a innumerevoli
celebrazioni sul movimento del ’77 nelle quali vengono valorizzati gli aspetti
politici e culturali più variegati di quel periodo, liquidando però quasi sempre
in modo scientifico il dibattito sull’uso della forza e sulle esperienze che
l’hanno praticata in quegli anni. Una rimozione ipocrita, complice, quasi si
trattasse di uno scheletro nell’armadio, che vorrebbe ridurre alla follia di
pochi “terroristi” quello che invece in quegli anni era un dibattito centrale
tra centinaia di migliaia di militanti a livello nazionale e, più in generale,
grazie allo sviluppo delle tante lotte di liberazione nazionale sostenute dalle
guerriglie di mezzo mondo, a livello internazionale. Un dibattito che,
all’interno di una concreta prospettiva di trasformazione, ha messo in
discussione anche il monopolio della violenza legittima da parte dello stato e
dei suoi sgherri.
Qui non si tratta di condividere o meno le scelte delle tante organizzazioni
rivoluzionarie sviluppatesi in quegli anni, né tanto meno di sterile nostalgia;
qui si tratta semplicemente di storia, di storia politica, della nostra storia
politica. O, per dargli ancora maggior valore, di memoria. Una memoria che si
materializza in tutta la sua attualità nelle migliaia di militanti rivoluzionari
rinchiusi ancora oggi nelle carceri di tutto il mondo e in un contesto politico
e sociale, sia sul fronte interno che su quello internazionale di resistenza ai
piani dell’imperialismo, tutt’altro che pacificato.
Questo attacco allora deve essere contrastato, almeno sul piano politico ed
ideologico, perché la posta in gioco va ben al di là della specifica questione
sulla violenza ma riguarderà sempre di più la possibilità di misurarsi in avanti
sul piano complessivo della prospettiva, della liberazione.
Noi crediamo che da sempre i movimenti sociali e politici abbiano cercato di
riappropriarsi, anche con l’uso della forza, di quegli spazi di agibilità
politica scientificamente negati dal potere e dalle sue istituzioni.
E se è evidente a tutti che la questione dell’uso della violenza, in questa
fase, non può essere messa al centro del dibattito dei movimenti o delle
esperienze organizzate che si muovono al loro interno, essa non va comunque
liquidata con sufficienza o, peggio, con moralismo, soprattutto da parte di chi
si sforza di agire all’interno di una prospettiva reale di trasformazione.
Anche perché, d’altro canto, lo scontro con l’apparato
repressivo/poliziesco/culturale dello stato è praticamente quotidiano, ed è
sempre più evidente che l’attacco passa anche attraverso questo processo
costante di rimozione.
Non è un terreno facile, e sicuramente non può essere affrontato schematicamente
o in maniera superficiale.
Siamo però convinti che sia un errore madornale lasciare l’iniziativa unicamente
allo stato e al suo esercito di giullari, di sbirri, di carnefici, e che vadano
invece trovate, sperimentate, anche nella fase attuale, nuove forme per
consolidare la dialettica tra resistenza di classe e prospettiva rivoluzionaria.
Noi abbiamo deciso di discuterne e di proporre queste brevi e sicuramente
limitate riflessioni proprio perché crediamo che rinunciare a qualsiasi
strumento di critica politica su questi temi non significhi solo dare
indirettamente sostegno alle attuali strategie dello stato, ma rischi in
prospettiva di “disarmare” culturalmente e politicamente le nuove generazioni e
con esse ogni possibile percorso di trasformazione futura.