SENZA CENSURA N.21
novembre 2006
U.E. e legislazione “antiterrorismo”
Continua la persecuzione dei militanti turchi solidali coi prigionieri politici
Ci sembra opportuno occuparci ancora dei fatti
giudiziari che stanno ormai da diversi mesi colpendo diversi militanti turchi ed
europei di origine turca, sul suolo e grazie alle leggi “antiterrorismo” della
UE, e dei recenti sviluppi di queste vicende.
Riepilogandole, troviamo un processo farsa a Bruges, in Belgio, contro 11
militanti accusati di essere “terroristi” del DHKP-C, 7 dei quali condannati lo
scorso 28 febbraio in primo grado a pene dai 4 ai 6 anni, 6 dei quali
incarcerati nonostante siano in attesa dell’appello. Un processo che ha visto
per la prima volta l’utilizzo della nuova legislazione antiterrorismo belga, che
contiene anche la novità, nell’ordinamento giuridico del paese, di derogare al
principio della responsabilità individuale. Una legislazione che si basa sulla
definizione di terrorismo della decisione-quadro della Commissione Europea nel
2001, da cui è anche scaturita la “lista nera” europea delle organizzazioni
“terroriste”, inserite esecutivamente e senza alcuna possibilità di appello, fra
le quali troviamo oggi il DHKP.
Inoltre posteriormente a questa sentenza la polizia olandese aveva eseguito un
mandato internazionale di cattura contro Bahar Kimyongür, uno dei processati a
Bruges e l’unico senza mandato di arresto, dopo che l’omologa belga lo aveva
“consegnato” de facto agli olandesi, come è ampiamente stato provato in questi
mesi, con un informativa sul suo passaggio in Olanda. Questo perché la
legislazione belga non consente di intervenire, anche a fronte di mandato
internazionale, per fatti svoltisi fuori dal territorio belga.
Poi registriamo il processo in corso in Italia (a Perugia) contro Zeinep Kilic e
Avni Er, altri due militanti turchi, con le medesime accuse del processo belga.
Anche questo processo è privo di accuse specifiche che sostengano l’accusa di
terrorismo. Giova anche ricordare che della roboante “operazione 1° aprile”, che
aveva portato in tutta Europa all’arresto di un centinaio di militanti, fra cui
Zeinep e Avni, solo questi ultimi due permangono detenuti. E che con quest’operazione
la magistratura italiana aveva per la prima volta sperimentato il nuovo articolo
270ter.
Contemporaneamente in Turchia è in corso ormai da anni lo sciopero della fame
fino alla morte da parte dei militanti prigionieri del DHKP-C, a staffetta, e
che vede la partecipazione anche di vari familiari e da ultimo di un avvocato
difensore dei suddetti prigionieri, contro l’isolamento carcerario e le celle di
“tipo F”, alias contro l’applicazione anche in Turchia del modello carcerario
dell’Europa Occidentale. Riguardo a questa lotta, numerosi militanti turchi, e
in particolare quelli che militano nell’associazione dei familiari dei
prigionieri politici turchi, Tayad, hanno in questi anni svolto le più diverse
attività informative e di agitazione per sostenere i prigionieri in sciopero e
denunciare la tortura dell’isolamento in Turchia e le responsabilità europee
riguardo alla sua applicazione. Molti di loro, residenti in Europa, hanno svolto
nei paesi europei queste attività. E sono queste che vengono attualmente prese
di mira con le operazioni giudiziarie di cui parliamo.
Ovviamente il quadro si potrebbe allargare, potremmo parlare di altre situazioni
europee, ma questi sono i primi elementi che viene spontaneo mettere in
relazione.
Lo stato turco da un lato, gli stati UE dall’altro, con sempre più evidenza,
stanno cercando di boicottare queste attività di denuncia e informazione, e
stanno sperimentando su questo gli strumenti giuridici appena forgiati.
Venendo ai fatti salienti degli ultimi mesi, dopo più di due mesi di detenzione
nelle carceri olandesi, Bahar Kimyongür è stato inaspettatamente liberato lo
scorso 4 luglio. La “giustizia” olandese, dopo aver chiesto all’omologa turca
maggiori argomenti riguardo all’accusa di terrorismo mossa contro Bahar, ha
giudicato che il mandato d’arresto internazionale emesso dalla Turchia non
conteneva motivazioni sufficienti per procedere alla sua estradizione verso lo
stato turco, aprendo anche da un punto di vista strettamente giuridico dei dubbi
sulla sostenibilità del carattere “terrorista” delle attività informative svolte
da Bahar. Ritenute insufficienti le accuse dello stato turco di aver preso parte
a un’azione di contestazione di un ministro turco al parlamento belga, di aver
partecipato a un comitato di sostegno a un prigioniero politico del DHKP-C
detenuto in Germania, o di aver assistito a delle udienze del processo contro la
militante turca Feriye Erdal nel 2000; ritenuta altrettanto insufficiente la
lista di una trentina di azioni armate condotte in turchia dal DHKP-C, senza
alcuna specifica su come fossero relazionate all’attività di Bahar. E su questi
elementi - un copione che conosciamo bene anche in Italia - si fonda la
richiesta turca di estradizione, così come il processo di Bruges.
Processo che ha visto svolgersi le udienze d’appello dall’11 al 19 settembre
scorsi, alla presenza di oltre un centinaio di sostenitori degli accusati oltre
ad alcune delegazioni internazionali; questo mentre 3 degli accusati permangono
in totale isolamento nelle carceri belghe, nonostante vari pronunciamenti del
tribunale sulla mancanza di motivazioni per tenerli in isolamento.
Durante le udienze è stata fra le varie cose smascherata con documenti video la
montatura secondo cui 2 degli accusati, fra cui Bahar, avrebbero rivendicato “un
attentato del DHKC” durante le iniziative contro il vertice NATO in Turchia il
28 giugno ’04. Questa accusa era servita come unico elemento giustificativo per
applicare ai due la nuova legislazione “antiterrorismo”.
Complessivamente si è manifestato appieno il carattere prettamente politico del
processo, con l’attitudine a considerare la semplice simpatia verso un movimento
accusato (arbitrariamente) di “terrorismo” come un atto di “terrorismo”. Al di
la della quindi ovvia richiesta di condanna da parte del PM, la decisione della
corte è stata fissata per il 7 novembre ’06.
Venendo al processo in corso a Perugia, si sono in questi mesi continuate a
svolgere le udienze, il 29 settembre l’ultima, e altre sono programmate nelle
prossime settimane, la prima l’11 novembre. In pratica il più delle volte si è
trattato di udienze convocate e subito sospese per la mancanza di testimoni che
non erano stati fatti entrare in Italia dalla Turchia, e complessivamente si sta
assistendo a un processo che langue da ormai anni e il cui risultato concreto è
di segregare in carcere i due militanti processati prima che venga emessa
qualsiasi condanna. Tra l’altro si ha anche notizia della possibilità che contro
Zeinep vi sia pendente una richiesta di estradizione verso la Germania.
Un elemento comune fra questi processi è che essi si basano grandemente su
documenti informatici provenienti dall’estero. Un gran traffico di CD è stato
montato fra le polizie europee, per costruire elementi di “prova”
dell’appartenenza degli accusati al DHKP-C. Al di la degli ovvi dubbi
sull’attendibilità di una “prova” che è passata per le mani della polizia di
mezza Europa prima di essere resa pubblica, e che nel frattempo è stata tradotta
e ritradotta con non si sa bene quali criteri, ci si ritrova comunque a
confrontarsi con accuse pesanti che si basano però su documenti virtuali.
Materiale facilmente manipolabile, per chi ne ha i mezzi.
Altro aspetto correlato per quanto riguarda il processo belga, è che è bastata
l’accondiscendenza del giudice per permettere alla Turchia di acquisire tutti i
documenti informatici relativi al processo, con gli ovvi rischi quindi per i
militanti processati.
Sul versante turco sembra che il perdurare del death fast dei prigionieri del
DHKP-C, unito a quello di vari familiari e ora di un avvocato difensore, stia
via via smuovendo una fetta dell’opinione turca, e creando alcuni problemi di
gestione. Anche se, ragionando sul contesto europeo in cui è inserita questa
dinamica, e proprio mentre si parla per la Turchia di ingresso nell’UE, appare
molto difficile che lo stato turco modifichi a ritroso un modello carcerario che
è quello che già da tempo vige in tutta l’UE, del cui obiettivo di rottura
dell’identità politica dei prigionieri rivoluzionari abbiamo abbondanti prove,
non ultima il recente utilizzo in Italia dell’articolo 41bis. Una politica
carceraria perfettamente congrua alla legislazione sempre più repressiva di cui
i fatti di cui stiamo parlando sono esempio chiaro e banco di sperimentazione.
A fianco degli avvenimenti giudiziari in Belgio e Olanda si è sviluppata in
Belgio una vasta campagna per la liberazione di Bahar e per la libertà di
espressione e di organizzazione che ha visto numerose mobilitazioni sotto ai
tribunali e altrove, oltre alla raccolta in tutta Europa di migliaia di firme
per la sua liberazione, e che complessivamente ha mobilitato una larga frangia
dell’opinione pubblica belga e fatto sviluppare una certa attività di resistenza
alla legislazione “antiterrorismo”. Questo mentre dal carcere Bahar attuava
varie forme di protesta contro il trattamento riservatogli.
In Italia, oltre a costruire ove possibile l’informazione sul processo di Bruges
e l’arresto di Bahar, qualche realtà sta provando a muoversi anche in sostegno
ai militanti turchi processati a Perugia, convocando fra molte difficoltà
qualche sit-in di solidarietà durante le udienze.
Dal canto loro i media, in particolare quelli belgi, hanno trattato l’affare
Kimyongür parlando di “terroristi turchi”, bene attenti a non far mai trasparire
che si trattava di militanti della sinistra. I media nostrani, tutti, hanno
chiaramente evitato di parlare di tutto ciò, tacendo d’altro canto anche su
quanto riguarda il processo di Perugia. Inutile specificare come
sistematicamente i media turchi evitino la questione delle celle “tipo F” e
liquidino come “terroristi” i militanti che subiscono la tortura
dell’isolamento.
Anche da questo lato, nulla di nuovo: i media di regime coprono il regime.
Difficile dare un’ordine preciso a tutte queste iniziative giudiziarie, ma
complessivamente appare chiaro che, sotto questa copertura, l’utilizzo
all’interno della UE delle costantemente aggiornate legislazioni
“antiterrorismo” sta procedendo per esperimenti sempre più aggressivi nei
confronti della libertà di espressione e di organizzazione; e che questo
procedere a volte risulta pure caotico e poco coordinato. Capitano allora gli
“incidenti”, come il rilascio di Bahar in Olanda.
Complessivamente comunque il grosso portato di quest’attacco alle suddette
libertà risulta ancora una volta chiaro ed effettivo al di là degli anni di
carcere che potranno essere o non essere comminati (e che comunque gli
“accusati” stanno già scontando): le accuse di terrorismo, il carcere, le
intimidazioni, e via dicendo, sono ormai il pane quotidiano per chi si colloca
nella sinistra radicale. Un trattamento che non viene inflitto con la sentenza
di qualche processo, ma ancora prima, a discrezione degli esecutivi dei vari
paesi UE, che grazie alle più o meno nuove legislazioni antiterrorismo e tramite
operazioni di polizia hanno la possibilità di applicare pesanti provvedimenti
repressivi ai militanti a partire esclusivamente da un giudizio eminentemente
politico sulla loro collocazione e identità, riformulando a proprio piacimento
le accuse, prescindendo da qualsiasi fatto specifico, e prima di qualsiasi
“giudizio”. Ed effettivamente i mesi e gli anni trascorsi in carcere dai
militanti turchi di cui parliamo, senza una sola condanna definitiva,
rappresentano bene questa realtà.