SENZA CENSURA N.21
novembre 2006
Dove va la legge Biagi
Spunti di dibattito sulla riforma del mercato del
lavoro
“Ripensare le regole del mercato del lavoro in
coerenza con gli indirizzi della Strategia Europea per l’occupazione è
l’obiettivo della legge delega 30/2003 (riforma Biagi)”.
(dal sito governativo
http://www.welfare.gov.it/RiformaBiagi/default.htm?baseChannel=LeggeBiagi
in data 18/10/2006)
La recente tornata elettorale ha riaperto un forte
dibattito sulla riforma del mercato del lavoro attuata dal governo Berlusconi.
Se da un lato il centro-destra manteneva ferma la propria convinzione nella
correttezza delle misure applicate, nel centro-sinistra, se comune era una
critica a quelle misure, diverse erano le indicazioni, fra chi ne chiedeva la
riscrittura, chi il superamento e chi l’abrogazione. Nel più generale dibattito
attorno al tema della precarietà e della flessibilità del lavoro, tutti i
partiti legati all’Unione hanno agitato e propagandato la necessità di una
revisione delle politiche di precarizzazione del lavoro e della vita. Alcuni
hanno espresso la chiara intenzione di abrogare totalmente la Legge 30 ed il
complesso dei provvedimenti legislativi ad essa correlati, fra i maggiori
responsabili della ulteriore deregolamentazione e destrutturazione del lavoro e
dei diritti ad esso connessi.
Con la vittoria elettorale del centro-sinistra si insedia il Governo Prodi ma “a
distanza di poco più di 100 giorni dall’insediamento del governo Prodi il
messaggio e gli atti concreti che arrivano sono di tutto un altro segno. Le
misure legislative finora approvate, quelle che si annunciano sono incardinate
ad una linea di condotta economica e sociale attenta, esclusivamente, al
risanamento dei conti dell’Azienda/Italia ed all’adeguamento strutturale del
capitalismo tricolore alle nuove sfide della competizione globale
imperialistica. La recente Legge Finanziaria, l’avvio dello scippo del TFR, il
completamento dell’assalto finanziario e speculativo al sistema pensionistico e
previdenziale sono indirizzati a tranquillizzare i mercati finanziari, le loro
istituzioni sovranazionali assicurando, nel contempo, l’osservanza alle
compatibilità economiche sancite dalla vigenza dei trattati e dei patti
internazionali” (Collettivo red link).
Sulla linea di questa nuova situazione anche l’atteggiamento del governo
rispetto al mercato del lavoro sembra indirizzato ad un rilancio della
concertazione come paradigma per cercare di ingabbiare le richieste di
un’inversione di tendenza e mantenere inalterate le linee di fondo che negli
ultimi anni hanno fatto da base all’introduzione di contratti e forme lavorative
cosiddette atipiche.
La concertazione fra le parti sociali rimane anche per gli imprenditori un
modello vincente e proprio da questi viene ribadita la necessità che non venga
affrontata nessuna riforma delle regole del mercato del lavoro. Confindustria ad
esempio è della ferma convinzione che la legge Biagi non abbia stravolto il
mercato del lavoro e dalle parole di Giorgio Usai, responsabile dell’area delle
relazioni industriali nell’organizzazione guidata da Montezemolo, se “è vero che
il 50% delle nuove assunzioni è a termine” questo è “solo perché l’ingresso nel
mondo del lavoro è sempre difficile”.
In una ricerca condotta nel giugno 2006 dall’Associazione piccoli industriali su
un campione di 270 imprese, ad essa associate, rappresentative di tutti i
settori, ne è emerso come gli industriali promuovano la “legge Biagi”. Si
evidenzia anche che non l´hanno applicata nella sua totalità visto che molte
possibilità non sono state sfruttate come “l´appalto”, usato solo per servizi
marginali (mense, pulizie o manutenzione), il “distacco” (un lavoratore che
viene temporaneamente messo a disposizione di altri), il “lavoro intermittente”
(discontinuità nell´impiego) o il “lavoro ripartito” (due lavoratori che si
dividono un unico contratto).
Molto più sfruttate, invece, le altre possibilità della legge come il “lavoro
somministrato” (sostituisce il lavoro interinale) usato da un terzo delle
imprese, il part-time (61%), l´“apprendistato” (49%) e il “lavoro a progetto”
(51,6%), mentre stenta a prendere piede il “contratto di inserimento” (13%)
perché mancano adeguate agevolazioni per le imprese. L’Api ha inoltrato alla
presidenza del consiglio alcune proposte di modifica della normativa come ad
esempio la possibilità delle imprese di assumere un numero predeterminato di
lavoratori a tempo determinato in rapporto al totale dei dipendenti, allungando
il periodo di prova dopo l’eventuale assunzione. Un’altra proposta riguarda la
riduzione del carico fiscale sul lavoro straordinario mentre si richiedono forme
di flessibilità nell’orario con la possibilità di allungarlo in alcuni periodi e
accorciarlo in altri, adeguando le capacità produttive al mercato. Nel complesso
gli imprenditori spingono affinché non solo venga mantenuto inalterato
l’impianto indicato dalla Legge 30 ma che le sue forme applicative vengano
ulteriormente alleggerite dai già pochi vincoli esistenti e che in uno scenario
di forte precarietà lavorativa e sociale sia sempre più e solo lo stato a farsi
carico degli ammortizzatori sociali (la cosiddetta flex-security) necessari
ormai per garantire un livello minimo di sopravvivenza e il mantenimento della
pace sociale.
Anche il governo non si discosta molto dalle indicazioni date dagli
imprenditori. Il ministro del lavoro Cesare Damiano ha più volte dichiarato
l’intenzione di migliorare la legge laddove crea precarietà e non di abrogarla;
“della 30 terremo le parti valide”, così il governo ha intenzione di procedere
per modifiche a tappe. I primi passi indicati sono quelli di cancellare il
“lavoro a chiamata” e lo “staff leasing” che abbiamo visto sono forme quasi per
nulla utilizzate dalle aziende. Il ministro Damiano spiega che “ciò che va della
legge 30 lo applicheremo. Ciò che non vale, ed è tanto, lo cancelleremo”.
Nonostante le dichiarazioni del luglio 2006 del capogruppo di Rifondazione alla
commissione lavoro, Augusto Rocchi, che affermava: “Il ministro si è impegnato a
inserire nella prossima finanziaria una delega per la modifica generale della
legislazione sul lavoro: e non si parla solo della Legge 30, ma del pacchetto
Treu e dei contratti a termine. Ma è chiaramente un processo che prende più
tempo”; nella presentazione della nuova Finanziaria non si è vista traccia di
tutto ciò.
Il programma dell’Unione per la campagna elettorale alla voce “lavoro” prevedeva
infatti un superamento della Legge 30 con l’abolizione del lavoro a chiamata,
dello staff leasing e del contratto d’inserimento - cioè quei contratti che come
abbiamo visto non sono utilizzati dalle imprese - mentre che altre forme di
flessibilità come il lavoro a progetto e quello interinale siano ricondotte
nell’impostazione del pacchetto Treu, la Legge 197 del 1997 varata dal governo
Prodi, ossia che abbiano un utilizzo limitato - sulla carta - entro una certa
soglia stabilita in sede di contrattazione collettiva tra le parti sociali.
Ricordiamo come sia stato proprio il pacchetto Treu a favorire l’estensione dei
contratti precari con l’introduzione in Italia del lavoro interinale e con la
regolamentazione degli attuali contratti a tempo determinato che spesso vengono
addebitati alla legge Biagi.
Il quadro fornito da una recente indagine Istat sul mercato del lavoro evidenzia
come ad oggi l’occupazione sia caratterizzata per il 63% da dipendenti a tempo
indeterminato e per la prima volta più della metà delle nuove assunzioni avvenga
con contratti atipici. La permanenza nel lavoro flessibile si allunga creando
incertezze. Molto alta è l’incidenza dei contratti a termine, di collaborazione,
a progetto o occasionali fra le donne e i giovani, il 57% di questi ha meno di
35 anni. Si è avuto un incremento dell’occupazione per lo più a termine a
partire dall’introduzione del pacchetto Treu e successivamente questa quota di
contratti a termine è rimasta stazionaria anche negli anni successivi
dimostrando una forte similitudine fra le misure adottate dal primo governo
Prodi e da quelle del governo Berlusconi. Il problema del precariato si fa
percepire diffusamente fra coloro che passano dal non lavoro ad un lavoro
dipendente o autonomo, infatti fra il 2004 e il 2005 il 40,5% ha trovato lavoro
nella forma di contratto a termine, di lavoro interinale o di lavoro a progetto.
Quello che non viene detto dalle statistiche è che questa situazione è la
diretta conseguenza della nuova organizzazione del lavoro capitalistico,
dell’internazionalizzazione dei cicli del capitale, della produzione per il
profitto che ha prodotto frammentazione e parcellizzazione fra la popolazione
lavoratrice. Le forme di lavoro flessibile servono per sostenere ed ottimizzare
le esigenze del capitale nell’estrazione di plusvalore e le diverse tipologie
contrattuali che le normano vanno nella direzione di sostenere questa economia,
quella capitalistica appunto. Nella competizione internazionale dei capitali le
imprese reagiscono aumentando le disparità di trattamento, agendo sulla parte
variabile del capitale riducendo il costo del lavoro. Frammentando e
parcellizzando la classe operaia, individualizzando i rapporti di lavoro si
ottengono meno diritti e peggiori condizioni per i lavoratori. In questo quadro
tutte le proposte neo-riformiste non permettono una vera inversione di tendenza
possibile solo all’interno della lotta di classe in un processo di transizione
al comunismo.
Il punto
di vista della borghesia, le riforme possibili…
Nel campo delle riforme è importante conoscere anche le proposte che
emergono nel dibattito su come si intende concepire l’attuale mercato del
lavoro, principalmente all’interno di quella variegata area che fa in qualche
modo riferimento alle forze politiche oggi al governo. Il dibattito e le
proposte ruotano in generale attorno alle indicazioni date dalla Cgil. Proposte
che sul terreno della riforma dei rapporti di lavoro si muovono nella direzione
di estendere un certo grado di protezione offerta dal diritto del lavoro a tutti
i lavoratori dipendenti, superando la distinzione tra “subordinazione” e
“parasubordinazione”, tra “lavoratori” e “collaboratori continuativi” e
sfoltendo la miriade di rapporti di lavoro atipici.
All’interno delle varie proposte nel dibattito innescato hanno un ruolo di primo
piano le riflessioni compiute da Pietro Ichino (attualmente docente presso
l’Università degli studi di Milano ed editorialista del Corriere della Sera, già
parlamentare del Partito Comunista Italiano) che reputa improponibile
l’estensione tout court dello Statuto dei lavoratori a tutti i dipendenti ma ne
sollecita una riscrittura, una nuova “rete di sicurezza” dove però nella prima
fase della vita lavorativa i rapporti di lavoro dovranno necessariamente avere
un grado di stabilità minore rispetto alle fasi successive. Questo viene
ritenuto indispensabile per non impedire l’ingresso sul mercato del lavoro e a
sua giustificazione viene evidenziato come nella seconda metà degli anni
settanta fu il sindacato guidato da Bruno Trentin a chiedere l’introduzione del
contratto di formazione e lavoro. In questa ottica vengono avanzati tre progetti
studiati da economisti e/o docenti universitari, collaboratori del ministero e
consulenti di diversi organismi sovranazionali, che vogliono delineare dei
dispositivi di accesso graduale al regime di stabilità piena del rapporto di
lavoro che possa sostituirsi all’insieme eterogeneo dei rapporti di lavoro
“fuori standard” che caratterizzano il regime attuale.
La prima proposta, formulata da T. Boeri e P. Garibaldi, prevede un rapporto di
lavoro unico a tempo indeterminato, assistito subito dall’art. 18 dello Statuto
dei lavoratori per quanto riguarda discriminazioni e licenziamento disciplinare
ingiustificato mentre per quel che riguarda il licenziamento per motivi
economico-organizzativi, caratterizzato da un primo periodo di tre anni di
protezione soltanto indennitaria. Questa proposta viene dai relatori definita il
“sentiero a tappe verso la stabilità”, dove si prevede un percorso di lungo
periodo per l’ingresso nel mercato del lavoro garantendo alle imprese
un’assunzione “flessibile”. Questo sentiero ha tre fasi: la prova, l’inserimento
e la stabilità. Con un contratto a tempo indeterminato si dovrebbe essere
soggetti a un periodo di prova di sei mesi, questo per garantire i padroni sulle
“qualità” del lavoratore. Dal sesto mese al terzo anno dopo l’assunzione, si
entra nel periodo di inserimento dove si è tutelati dall’art. 18 per quanto
riguarda il licenziamento disciplinare e discriminatorio e da una protezione
indennitaria nel caso di licenziamento economico. Al termine del terzo anno, la
cosiddetta tutela reale, il reintegro, viene estesa anche ai licenziamenti
economici. In questa proposta viene anche indicato nella durata massima di due
anni il contratto a tempo determinato (Ctd) e viene previsto un salario minimo
per coprire i lavoratori oggi lasciati fuori dalla contrattazione.
La seconda proposta, formulata da M. Leonardi e M. Pallini, si caratterizza
rispetto alla prima per una minore flessibilizzazione in merito al licenziamento
per motivi economico-organizzativi: un periodo di franchigia allungato fino al
massimo di un anno, seguito da un regime di mera incentivazione dell’accordo
economico tra le parti per la cessazione del rapporto in alternativa
all’applicazione della vecchia disciplina protettiva, sul modello della legge
tedesca Hartz del 2003. Secondo gli estensori della proposta, i contratti “a
tempo determinato” rispondono a esigenze organizzative e funzionali reali delle
imprese e hanno contribuito a un effettivo aumento dell’occupazione. Un progetto
di legge di riforma, quindi, non può solo limitarsi a cancellare o riorganizzare
le tipologie di lavoro a tempo determinato, ma deve preoccuparsi di come
soddisfare la necessaria flessibilità nell’organizzazione d’impresa.
L’introduzione dei contratti a tempo determinato ha creato una sostanziale
differenza di condizioni di lavoro tra lavoratori di diverse età. Tali
differenze vanno eliminate. In Italia, dal 1997 a oggi i contratti a tempo
determinato di varia natura hanno dato occupazione a circa due milioni di
lavoratori, il 10 per cento dell’occupazione totale e circa il 30 per cento
delle nuove assunzioni. Tra i giovani dai 15 ai 29 anni, il 25 per cento degli
occupati è a tempo determinato e il 50 per cento dei nuovi assunti lo scorso
anno hanno un contratto a tempo determinato. Nuova occupazione è stata possibile
essenzialmente grazie a questi tipi di contratto.
Questa riforma del contratto di lavoro a tempo indeterminato fa riferimento al
progetto di legge di iniziativa popolare “contro il lavoro precario” promosso da
parte dello schieramento di centrosinistra ed è sostenuto dalla “sinistra” dei
Democratici di sinistra (vedi
http://www.precariarestanca.it/proposta-di-legge). Il progetto di legge di
iniziativa popolare propone:
di estendere le tutele legali del lavoratore subordinato al “lavoratore economicamente dipendente”, cioè a chi, pur senza essere eterodiretto nell’esecuzione della prestazione della propria attività manuale o intellettuale, si obblighi a prestarla “in via continuativa all’impresa, con destinazione esclusiva del risultato al datore di lavoro”;
di limitare il ricorso del lavoro subordinato a termine a ipotesi oggettive per rispondere a esigenze predeterminate nel tempo e di carattere straordinario od occasionale;
l’abrogazione dei nuovi tipi contrattuali del lavoro intermittente, del lavoro ripartito, del lavoro a progetto e del lavoro accessorio.
Secondo Pallini e Leonardi queste proposte sono
pienamente condivisibili. Si deve abbandonare la strada della flessibilità
“marginale” per superare le forme di lavoro subordinato “precario”.
Si deve abrogare quindi la disciplina di cui al decreto legislativo 368/2001 di
contratti di lavoro subordinato a termine con requisiti causali indeterminati e
senza limiti di durata massima e di rinnovo, che è stata anche fonte di
incertezza per le stesse imprese, per tornare a un sistema di requisiti causali
oggettivi, giustificati da esigenze aziendali predeterminate nel tempo. È
opportuno altresì abrogare i nuovi tipi contrattuali che “parcellizzano” la
prestazione del lavoratore senza neppure rispondere efficacemente alle esigenze
di flessibilità dimensionale dell’impresa.
Viene proposta una ripartizione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, in
coerenza con le indicazioni della Corte di giustizia europea che li distingue
non in relazione al tipo di vincolo rispetto al committente (se subordinazione e
coordinamento), ma rispetto alla loro posizione sul mercato, identificando
sostanzialmente il lavoratore autonomo con una “impresa individuale” capace di
vendere a terzi un bene o un servizio (anche professionale o consulenziale).
Ma a fronte dell’ampliamento dei destinatari della tutela legale del lavoro
subordinato e alla riduzione delle possibilità di ricorrere a tipologie
contrattuali di rapporti “a termine”, rilevano che è necessario importare
margini ragionevoli di flessibilità nel nuovo tipo di lavoro a tempo
indeterminato “standard”, sia in entrata sia in uscita. I contratti a tempo
determinato hanno risposto a due esigenze delle imprese: avere periodi di prova
più lunghi per valutare i lavoratori e avere maggiori margini di flessibilità.
La flessibilità in entrata può ottenersi in misura ragionevole attraverso
periodi di prova più lunghi al momento dell’assunzione, disciplinati liberamente
dai contratti collettivi. La flessibilità in uscita può agevolarsi attraverso
l’attribuzione al lavoratore, alle dipendenze di un’impresa con più di quindici
dipendenti, di una “indennità economica di licenziamento”, che si aggiunge al
periodo di preavviso. Questa indennità si applicherebbe solo in caso di
licenziamenti individuali (e non collettivi) per giustificato motivo oggettivo
(e non disciplinare). Il medesimo meccanismo di indennità è stato previsto in
Germania dalla riforma Hartz del Governo social-democratico.
Per le forme di collaborazione coordinata e continuativa non deve
necessariamente significare l’automatica estensione a quest’ultime delle
previsioni dei contratti collettivi sottoscritti per i lavoratori subordinati,
soprattutto in materia di retribuzione minima, orario di lavoro, fruizione di
permessi e ferie.
Ad esempio si devono poter prevedere minimi retributivi differenziati per i
“coordinati”, anche in senso peggiorativo per compensare i minori obblighi e
restrizioni cui sono soggetti nell’esecuzione della prestazione di lavoro.
Secondo gli ideatori di questa riforma il lavoro oggi considerato precario
verrebbe ricondotto nell’ambito del lavoro subordinato e quest’ultimo reso un
po’ più flessibile. Il sindacato potrebbe allargare la sfera di rappresentanza e
di contrattazione anche ai lavoratori oggi esclusi. Il lavoro a tempo
determinato rimarrebbe solo per requisiti causali determinati e giustificati da
esigenze limitate nel tempo.
La terza proposta formulata da Andrea Ichino si distingue invece dalle prime due
per la previsione, in alternativa al contratto a tempo indeterminato con
protezione piena fin dall’inizio, della possibilità di prima assunzione con un
contratto a termine di durata non inferiore a tre anni, non rinnovabile presso
la stessa impresa, fruibile dallo stesso lavoratore fino a un massimo di tre
volte presso imprese diverse. I cardini della proposta del Contratto temporaneo
limitato (CTL) secondo A. Ichino sono quattro:
Nell’area del lavoro subordinato e delle collaborazioni autonome in posizione di dipendenza economica (dove il collaboratore trae più di metà del proprio reddito da un unico rapporto) sono aboliti tutti i preesistenti contratti temporanei di lavoro (contratto di inserimento, lavoro a chiamata, lavoro a progetto), salvi i casi classici di eccezione individuati dalla legge n. 230/1962 (lavoro stagionale, sostituzione di lavoratore assente, settore dello spettacolo, ecc.) e il lavoro interinale.
A ciascuna azienda è consentito assumere per una sola volta un lavoratore con un contratto temporaneo che deve avere durata non inferiore ai 3 anni (Ctl). È ammesso il patto di prova, fino al massimo di tre o sei mesi, a seconda del livello professionale. Alla fine del contratto, il lavoratore viene assunto a tempo indeterminato oppure lascia l’azienda.
Ciascun lavoratore può usufruire al massimo di tre contratti temporanei limitati, ciascuno con un’azienda diversa, prima di un’assunzione a tempo indeterminato.
La possibilità di Ctl di durata superiore ai tre anni è lasciata alla libera contrattazione delle parti, ed il recesso del lavoratore è consentito anche prima del termine.
Salve le eccezioni tradizionali, dunque, la
proposta prevede due soli tipi contrattuali: il contratto a tempo indeterminato
e il contratto temporaneo limitato. Nella fase di transizione, gli altri
contratti temporanei attualmente previsti dall’ordinamento, ad esempio i
contratti a progetto, continuerebbero fino a scadenza e poi verrebbero
sostituiti da Ctl o da rapporti a tempo indeterminato.
Ma quale è l’idea del mercato del lavoro e degli istituti contrattuali per la
Cgil? Nella proposta avanzata nel febbraio 2005 il sindacato indicava come
necessario un rovesciamento della filosofia della Legge 30 ridando al pubblico
un ruolo centrale e di governo, diminuendo la frantumazione nelle tipologie di
impiego ridando centralità al rapporto a tempo indeterminato. Devono essere
cancellati alcuni rapporti di lavoro: lo staff leasing, il contratto a chiamata,
il contratto con vouchers, l’apprendistato per diritto-dovere, il contratto di
inserimento.
È anche necessario un intervento di riscrittura per gli attori operanti nel
mercato del lavoro, un doppio canale che da un lato individui le imprese di
fornitura del lavoro temporaneo e dall’altro i soggetti interessati alla
selezione e ricollocazione del personale. In questo modo va riconfermato il
primato del pubblico con un supporto di soggetti privati per coprirne le
carenze, favorendo l’intreccio tra servizi all’impiego e imprese di outplacement.
Dovrebbe essere cancellato l’istituto della certificazione dei rapporti di
lavoro e reintrodotto il divieto di interposizione di manodopera, salvo per le
causali definite dalla legge e dalla contrattazione per il lavoro temporaneo.
La Cgil partendo da questi presupposti chiede che le collaborazioni costino
anche previdenzialmente e fiscalmente come il lavoro subordinato e che siano
riservate a funzioni con elevata autonomia e creatività, tutte individuate dalla
contrattazione collettiva. Per il contratto a termine si chiede che venga
ripristinata la titolarità della legge e della contrattazione collettiva per
definire causali e percentuali massime di utilizzo, il tutto per ridurne
l’abuso. Che per il part-time venga favorito l’uso volontario per conciliare
lavoro e vita privata ridando equilibrio tra contrattazione collettiva e
rapporto individuale. Si chiede che il lavoro in somministrazione torni ad
essere lavoro temporaneo, le cui causali e le percentuali massime di utilizzo,
siano rimesse alla contrattazione collettiva.
L’apprendistato e il contratto di reinserimento devono essere rinominati come
contratto a scopo formativo e contratto d’inclusione e devono avere una funzione
di completamento e aggiornamento delle competenze; il vantaggio per l’impresa
deve essere di natura contributiva e fiscale e non di tipo salariale o basato
sulla compressione di alcuni diritti come la malattia. Si dovrebbero prevedere
tirocini formativi per i giovani fra i 16 e i 18 anni con un intreccio tra
strutture scolastiche/formative e imprese. Per i soggetti “svantaggiati” si deve
applicare il contratto di inclusione, al cui interno si prevede la possibilità
di misure soggettivamente calibrate rispetto alle condizioni di disagio. Si
chiede che venga effettuato un controllo più rigido in merito ai regimi
d’appalto e al trasferimento di ramo d’azienda. Si propone una riforma generale
degli ammortizzatori sociali con l’obbiettivo di difendere e riqualificare il
lavoro. Questa proposta va completata con raccordi tra strumenti di impostazione
lavorativa che vedono come conclusione l’istituto del “reddito di ultima
istanza”, con strumenti di stampo inclusivo/sociale quali il “reddito di
cittadinanza o di inclusione” rivolto a chi il lavoro non lo ha mai incontrato.
Questa è una sintesi di alcune delle proposte che il sindacato italiano più
rappresentativo avanza e propone anche all’attuale governo basandosi
essenzialmente sullo strumento delle leggi di iniziativa popolare.
Tutte le proposte che abbiamo brevemente esaminato, pur cercando di ridare
maggiori diritti e garanzie, rimangono interne ad una logica di patto sociale,
di compromesso fra le parti e non mettono in discussione i rapporti gerarchici e
di sfruttamento insiti nell’attuale organizzazione del lavoro.
Sono proposte “ottimiste” che partono da una valutazione positiva del
cambiamento sia nella guida politica del paese con il governo di centro-sinistra
sia con il cambio ai vertici di Confindustria con la presidenza Montezemolo;
cambiamenti che possono permettere il rilancio del terreno della concertazione e
della contrattazione tanto cara alla sinistra italiana e al sindacato, Cgil
compresa. Anche per questo sindacato non si va molto oltre la richiesta di un
ritorno ai principi del pacchetto Treu e nonostante alcune dichiarazioni
rimangono ingabbiati nella logica che ha prodotto il patto sociale sancito
dall’accordo del luglio 1993.
Una classe in movimento…
La critica all’intero impianto della Legge 30 e dei decreti attuativi è
presente in tutte le forze a partire dalla sinistra sindacale Cgil, a tutto il
sindacalismo di base o autorganizzato, fino alle diverse anime che compongono il
variegato movimento, dai cosiddetti partiti della “sinistra radicale” alle
strutture ed organismi autonomi. Tutti sbandierano l’intenzione di abrogare
totalmente la legge 30 e tutto quel complesso di provvedimenti che ha permesso
di destrutturare il lavoro, precarizzando e flessibilizzando, rendendo sempre
più individuale il rapporto fra lavoratore e controparte padronale sia nel
settore privato che pubblico. In primo piano, nelle mobilitazioni, sono state in
questi anni quelle figure sociali che hanno maggiormente subito gli effetti
della precarietà lavorativa e della ristrutturazione sia dei settori produttivi
che di quelli dei servizi.
Diverse iniziative si sono susseguite ed hanno posto all’ordine del giorno la
richiesta di nuovi diritti e di un reddito o di un salario dignitoso; hanno
posto all’ordine del giorno la richiesta di una stabilità lavorativa in
opposizione alle logiche proprie della riforma del mercato del lavoro a partire
dalle proposte del Libro Bianco, passando per il pacchetto Treu fino alla legge
Biagi.
Questo movimento diversificato e frammentato ha saputo muoversi sia a livello
territoriale con numerose vertenze, di cui una delle più significative è quella
dei lavoratori dei call-center e di Atesia in particolare, sia a livello di
iniziative più generali passando dai vari May Day fino alle iniziative della
rete “Stop precarietà ora”. Nell’appello di indizione della manifestazione a
Roma del 4 novembre prossimo è indicata al primo punto la necessità
dell’“abrogazione delle tre leggi simbolo della politica per la precarietà del
governo delle destre, la Legge 30, la Legge Bossi-Fini sui migranti, le leggi
Moratti sulla scuola e l’università e di tutte le disposizioni e decreti ad esse
collegati”. Viene posta immediatamente dopo come priorità, la mobilitazione per
“la fine del regime della precarietà a vita che oggi tocca milioni di
lavoratrici e lavoratori. La riscrittura di tutta la legislazione sul lavoro e
sull’occupazione, per mettere fine a tutte le forme di precarietà permanente e
diffusa, per combattere il lavoro nero e sottopagato, per contrastare la caduta
dei salari, la flessibilità selvaggia negli orari, il peggioramento delle
condizioni di lavoro. [...] Il lavoro a termine deve tornare ad essere solo
un’eccezione e dovrà in ogni caso garantire salari e contributi più alti del
lavoro a tempo indeterminato. [...] Nuove norme contro le imprese pubbliche e
private, che si ‘smontano’ (tramite appalti, trasferimenti di ramo d’azienda,
esternalizzazioni) con il solo scopo di ridurre diritti e salari. [...] Va
garantita la centralità del pubblico nel collocamento dei lavoratori.”
Come sopra evidenziato questo aggregato di forze ed individualità si pone, tra
le altre indicazioni, anche l’obbiettivo dell’abolizione della Legge 30
principalmente attraverso una pressione all’interno delle strutture sindacali e
politiche di loro riferimento, strutture oggi per lo più al governo del paese.
Viene condotto un lavoro che passando da incontri nazionali ad assemblee e
dibattuti a livello locale arriva fino alla manifestazione nazionale del
prossimo 4 novembre.
I soggetti che rappresentano questa coalizione riportano la loro esperienza
fatta sul campo e la reale conoscenza degli attuali livelli di precarietà, come
ad esempio dalle parole del segretario generale della Flc Cgil, la federazione
dei lavoratori della scuola, università e ricerca, che descrive così l’attuale
situazione dei precari in questo settore: “In questi ultimi anni è esploso un
vero e proprio far west della precarietà, che ha significato un calo di diritti
per i lavoratori, ma anche un’aggressione brutale a uno dei servizi essenziali:
quello all’istruzione. Si parla, per difetto, di circa 300 mila persone. Il 20%
del personale della scuola, il 50% delle università, fino all’80% negli enti di
ricerca - eclatante il caso Cnr - il 70% nella formazione professionale. L’età
media dei neoassunti in ruolo nelle scuole è di 39 anni, 5 anni più alta
rispetto al 2001, ma addirittura 14 anni più alta rispetto agli anni Ottanta.
Gli assegnisti di ricerca hanno un’età che varia tra i 32 e i 40 anni.
Tantissime le tipologie contrattuali: esternalizzati, cococò, a progetto, borse
o assegni di ricerca, consulenze, contratti di insegnamento, dottorati, lavoro
volontario, per citarne alcune. Io ritengo che questo «boom» [...] sia stato
voluto per indebolire il carattere pubblico della conoscenza e dare spazio al
privato”.
Questi soggetti portano anche con loro però tutti i limiti stessi delle
organizzazioni da cui provengono ed in cui svolgono attività di rilievo, ed
anche tutte le ambiguità che in questi anni sono emerse nelle scelte di
un’azione essenzialmente concertativa e neo-corporativa. Ancor di più oggi dove
il governo di centro-sinistra sta ulteriormente confermando delle scelte di
politica neo-liberista in continuità con il governo precedente, dove non vi è
traccia di un’inversione di rotta rispetto alla precarietà e alle condizioni
generali dei lavoratori mentre si aumentano stanziamenti per le spese militari e
per finanziare la guerra imperialista. Così l’imperativo dell’abolizione delle
leggi imposte dal governo Berlusconi appare sempre più solo formale e vuoto se
rimane interno ad una battaglia per una spartizione di una maggiore
“rappresentanza” istituzionale fra i vari partiti ed il governo.
Una chiara posizione contro la Legge 30 viene espressa anche nell’indizione
dello sciopero generale: “Le scriventi organizzazioni sindacali CUB, A.L. Cobas,
Confederazione Cobas, USI-AIT, USI, Unicobas e Slai Cobas, PROCLAMANO lo
Sciopero Generale di tutte le categorie pubbliche e private per l’intera
giornata del 17 novembre 2006. Lo sciopero generale è indetto per la
redistribuzione del reddito la difesa ed il rilancio del sistema previdenziale
pubblico e dello stato sociale (scuola, sanità, casa, ecc…), per salari europei,
rinnovi contrattuali veri, lavoro stabile e tutelato e diritto al reddito,
contro la guerra, per il taglio drastico delle spese militari, contro la legge
finanziaria, lo scippo del T.F.R., la legge 30 ed il pacchetto Treu ...”.
È questo un importante momento per la costruzione di un’opposizione reale alle
politiche statali imposte dalla classe dominante, la borghesia imperialista, che
segue il riuscito sciopero dello scorso 6 ottobre che ha portato a Roma più di
trentamila precari della pubblica amministrazione, tutti insieme per
l’abolizione della Legge 30, contro il Pacchetto Treu, per la stabilizzazione di
tutti i rapporti di lavoro, finora dispersi e frammentati, e per il diritto ad
un salario adeguato al carovita crescente.
Se fino ad oggi comunque non abbiamo assistito ad un vero movimento in conflitto
con le politiche governative, dove le diverse iniziative sono rimaste
frammentate, divise ed anche estemporanee, dove la protesta è rimasta nell’alveo
di una critica ideologica, una nuova situazione richiede uno sforzo maggiore sia
di elaborazione che di iniziativa per la ri/costruzione di una forza di
opposizione di classe, fuori da ogni suggestione neo-riformista, che parta dalla
centralità del lavoro, dallo scontro capitale/lavoro.
Riannodare le fila che da un lavoro di propaganda sappiano costruire forme di
organizzazione e coordinamento dei soggetti sociali che formano il nuovo
proletariato metropolitano, a partire dalla partecipazione attiva e cosciente ai
momenti di lotta che si stanno sviluppando, promuovendone l’estensione e l’unità
delle singole vertenze, ricomponendo il particolare nel generale della critica
allo sfruttamento capitalistico.
Se è corretto avanzare la parola d’ordine “abolire la Legge 30”, allo stato
attuale dello sviluppo della lotta di classe questo risulta più uno slogan da
cui partire per costruire iniziative ed aggregazione piuttosto che un concreto
risultato da ottenere nell’immediato. E’ necessario andare oltre la facciata,
tutta questa legislazione che è stata introdotta è il risultato di un’offensiva
padronale che il capitale sta dispiegando a livello globale e riguarda tutti gli
stati-nazione dei paesi a capitalismo avanzato, per cui non si tratta “solo” di
opporsi ad una specifica legge, ma, essendo questa espressione dell’attuale
organizzazione del lavoro capitalistico diviene questo il vero obbiettivo di una
necessaria critica della trasformazione e del superamento. Il superamento
dell’attuale struttura economica e sociale si trasforma in un piano per una
prospettiva rivoluzionaria di lunga durata che implica come momenti altamente
positivi la ri/conquista nell’immediato di forme di rigidità e di garanzie che
portino ad un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita per tutte/i.
Ed allora... facciamo come in Francia!!!
Perché no!!!