SENZA CENSURA N.21
novembre 2006
ONU: dressed to kill…
Il Libano al centro della “guerra al terrorismo”. L’instabilità costruttiva come strategia unitaria dell’imperialismo
Su questo numero di SC abbiamo ritenuto utile
pubblicare una sintesi degli avvenimenti libanesi degli ultimi 3 anni circa,
focalizzandoci soprattutto sulle ingerenze internazionali sul Libano esercitate
da Usa e Francia in primis, ma non solo, attraverso l’ONU, per assicurarsi un
governo filo-occidentale che recidesse i propri rapporti con la Siria e
marginalizzasse le forze della Resistenza al suo interno.
Pressioni che hanno oggettivamente spianato la strada all’aggressione
israeliana, come unica opzione praticabile dall’imperialismo, per realizzare in
loco i propri fini, vista l’incapacità di applicare al quadro libanese la
formula delle rivoluzioni conservatrici sotto forma di golpe elettorali
filo-occidentali, o golpe veri e propri.
Abbiamo inoltre elaborato una cronologia ragionata della Guerra di Luglio,
nonché fornito altri due contributi, di cui uno redatto dalla redazione, l’altro
apparso sul sito italiano di Aljazeera (www.aljazira.it) sul profilo militare
della sconfitta dell’esercito dell’entità sionista e la vittoria della
Resistenza libanese.
In ultimo abbiamo voluto dare un quadro, per ciò che riguarda i costi, la
composizione e il posizionamento del contributo italiano alla missione Unifil, e
una breve sintesi dello stato dell’arte della composizione presente e futura e
del posizionamento di tutte le truppe internazionali che ne formeranno il
contingente.
Sul prossimo numero oltre che dare un quadro aggiornato della situazione,
elaboreremo un contributo sulla storia del Libano dalla fine della guerra civile
all’aggressione anglo-americana all’Iraq, con particolare riferimento agli
aspetti economici e sociali, oltre a cercare di approfondire la conoscenza sulle
forze della Resistenza libanese e palestinese, presenti in Libano, dando in
particolar modo la voce ai resistenti stessi attraverso i loro comizi,
comunicati e documenti o interviste.
L’invasione anglo-americana nel marzo del 2003 in
Iraq ha accelerato le dinamiche di trasformazione a livello regionale dell’area
medio orientale.
Il Libano, tra gli altri, si è trovato al centro dell’iniziativa non solo di USA
e Israele, ma anche della Francia in primo luogo, per quanto riguarda le potenze
del nascente polo imperialista europeo e dell’Arabia Saudita, storico e fedele
alleato Usa nella regione.
Il recente protagonismo italico, tranne che per alcune sfumature, si è accodato
a questa iniziativa “multilaterale” anti-libanese, azione internazionale che
aveva sì come passaggi intermedi la subordinazione libanese alle politiche
imperialiste delle potenze occidentali e di alcune regionali, ma come fine
ultimo la guerra alla Siria e all’Iran.
C’è stata quindi una oggettiva convergenza di interessi tra questi stati nel
conseguimento di una trasformazione interna al Libano che si appoggiasse ad
alcune forze politiche interessate a godere dei benefici che un nuovo
protettorato internazionale sul Libano stesso, sotto le vesti della vittoria di
un movimento “democratico” e “patriottico” di cui si erigevano a guida, gli
avrebbe portato.
A questo blocco politico si contrappone tuttora un arco di forze “patriottiche”,
nel quale i soggetti politici protagonisti della resistenza contro l’occupazione
Israeliana (1982-2000) prima e/o contro l’aggressione sionista del luglio-agosto
del 2006, ne costituiscono la colonna vertebrale; partiti che rifiutano tuttora
l’ipotesi di una pace separata con Israele che porti alla “liquidazione” delle
storiche rivendicazioni arabe e palestinesi sulla propria terra, si oppongono
con forza all’opzione di una guerra contro Iran e Siria, forze che anzi vogliono
mantenere con Damasco un rapporto di buon vicinato.
Naturalmente non si tratta solo di una polarizzazione che riguarda gli
orientamenti di politica estera, ma delle scelte opposte in chiave della
gestione della “cosa pubblica” e di mantenimento/superamento dell’ordine
confessionale esistente, soprattutto alla luce della lunga e sanguinosa storia
di violenze intra-libanesi e intra-comunitarie di cui la guerra civile è stata
costellata.
Questo progetto destabilizzante patrocinato dall’imperialismo e dai suoi alleati
nell’area non è un oscuro disegno ordito in segreto a Washington, ma i contenuti
espliciti emergono dai documenti a cui l’attuale dirigenza neo-con pubblicamente
si rifà per ciò che concerne l’intero “Medio Oriente”.
I nomi di questi autori, come è stato il caso di Nathan Sharansky, ex dissidente
sovietico immigrato in Israele e divenuto, ad un certo punto, ministro di Ariel
Sharon e del suo The Case for Democracy, sono noti e nel caso specifico di
questo autore è stato citato proprio da G.W.Bush come fonte di ispirazione
privilegiata della sua visione di politica estera.
Altri, come Bernard Lewis, Fouad Ajami e Robert Satloff, sono più o meno tutti
sostenitori della tesi secondo cui il mondo arabo sarebbe come un aggregato di
minoranze religiose ed etniche incapaci di vivere insieme in stati nazione, gli
stessi termini “mondo arabo” e “mondo mussulmano” dovrebbero, per R.S., essere
banditi «dal lessico diplomatico americano», difendendo un approccio specifico
per ogni singolo paese, «sia con le parole che con le azioni».
Le soluzioni auspicate per favorire sia la “democratizzazione” che gli interessi
USA, si baserebbero, come afferma giustamente lo studioso libanese Walid Charara,
esplicitamente sulla «strumentalizzazione del comunitarismo nel quadro di una
strategia di “instabilità costruttiva”» [1].
La situazione irachena ne è l’esempio più evidente, mentre ciò che è avvenuto a
Gaza e nei territori occupati, non può che essere ascritto a questa opzione
politica tipica del divide et impera imperialista.
I diktat dell’ONU e la “primavera di
Beirut”
Facciamo ora una breve sintesi delle pressioni internazionali sul Libano
e delle sue ripercussioni all’interno, dal 2004 alle elezioni del maggio-giugno
del 2005.
Diciamo subito che la politica anti-siriana promossa dalle varie potenze
occidentali e regionali e il tentativo di far disarmare la resistenza libanese e
palestinese, altro non erano che i prodromi per un’azione militare scattata
proprio in ragione del fatto che il tentativo di fomentare il conflitto
intra-libanese e di marginalizzare le forze politiche che costituiscono e
appoggiano la resistenza era parzialmente fallito: l’opzione militare era la
naturale conseguenza per la realizzazione di questi fini egemonici.
Con l’invasione del Libano, il 12 luglio scorso Usa e Israele hanno aperto
infatti il “terzo fronte”, dopo l’Afghanistan e l’Iraq, nella guerra per la
costruzione del «Grande Medio Oriente», l’Italia è l’unico paese presente,
operante e con interessi e ruoli di un certo rilievo su tutti i fronti.
Procediamo con ordine.
Nel giugno 2004 il presidente francese Jacques Chirac, che gode di ottimi
rapporti con Rafiq Hariri, sottopone a Washington l’idea di far adottare dal
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una risoluzione che contesti la
possibilità di una proroga, da parte del parlamento, al mandato del presidente
libanese, nel caso specifico Emile Lahoud, inviso al primo ministro Rafiq Hariri.
Si tratta di una chiara ingerenza negli affari interni libanesi.
Bisogna ricordare che tale eventualità era stata adottata a metà anni novanta
proprio dal governo a capo di R. Hariri, senza che all’interno, né tanto meno
all’estero questo avesse fatto tanto scalpore.
E. Lahoud, durante il periodo della sua presidenza, aveva sostenuto senza
riserve e aveva fatto supportare da parte dei servizi di sicurezza – e più
discretamente da parte dell’esercito – la guerriglia di Hezbollah contro
l’occupazione israeliana, sostegno che aveva facilitato notevolmente la vittoria
della resistenza; era convinto che il Libano dovesse restare fedele all’asse
siro-iraniano nella regione, ed aveva sempre rifiutato di cedere alle pressioni
americane che esigevano il disarmo dello Hezbollah, il ritiro del “Partito di
Dio” dalla frontiera con Israele o almeno il dispiegamento lungo tutta questa
frontiera dell’esercito libanese.
Per questo R. Hariri, insieme a Walid Jumblatt del Partito Socialista
Progressista druso, e ad un gruppo di personalità maronite del Kornet Chehwan
(un Forum fondato nel 2001 sotto gli auspici del patriarcato maronita per
ricomporre le divisioni intercristiane) iniziano una violenta campagna contro il
rinnovo o il prolungamento del mandato di E. Lahoud.
Così, l’amministrazione USA accoglie molto rapidamente la proposta
“rivoluzionaria” della Francia, che converge con i propri interessi specifici
nella regione, e conferisce alla politica di Washington l’avvallo della comunità
internazionale, allargando i contenuti della risoluzione che esige anche il
ritiro immediato delle truppe siriane dal Libano (per altro passate nel corso di
4 anni da 40.000 a 14.000 unità), il disarmo del “Partito di Dio”, il
dispiegamento dell’esercito libanese lungo la frontiera con Israele, il disarmo
dei campi palestinesi.
È la naturale conseguenza della politica di “guerra al terrorismo” che ha
portato gli USA a stilare una loro lista, mutuata poi dall’UE, di organizzazioni
ritenute terroriste già nell’ottobre ’97 e aggiornata nel dicembre del 2001, in
cui rientrano già dalla prima stesura tutte le organizzazioni della resistenza
palestinese, presenti anche in Libano, ed Hezbollah stessa; nonché della
politica statunitense contro i paesi del cosiddetto “asse del male”, di cui
Siria e Iran farebbero parte.
Già con l’invasione anglo-americana dell’Iraq i rapporti degli USA con la Siria
si erano incrinati. Il 13 aprile del 2003 Bush Jr aveva accusato la Siria di
avere fornito armi all’Iraq, di avere favorito il flusso di guerriglieri nel
corso del conflitto, di ospitare i leader del regime iracheno in fuga, di
nascondere le armi vietate di Saddam per togliere agli USA la giustificazione
politica dell’intervento. Rumsfeld aveva aggiunto che la Siria appoggia da anni
gli Hezbollah e che negli ultimi mesi ha svolto test con armi chimiche.
Accusata di sostenere la resistenza irachena, e di praticare una politica
anti-americana nella regione, sarà inclusa tra i paesi che gli USA ritiene fare
parte dell’ “Asse del Male”: il Congresso americano aveva adottato, il 12
dicembre 2003, una legge chiamata «Syrian Accountability and Lebanese
Sovereignty Restoration Act», che permette al presidente degli Stati Uniti di
adottare varie misure di boicottaggio economico contro la Siria o di sequestrare
i conti intestati a organismi ufficiali siriani.
È così che il CS dell’ONU adotta la risoluzione 1559 il 2 settembre 2004.
All’indomani dell’adozione di tale risoluzione, il Parlamento libanese licenzia
un progetto di legge, approvato precedentemente dal Consiglio dei ministri e
proposto dal primo ministro, che emenda la Costituzione al fine di consentire il
prolungamento del mandato presidenziale per tre anni.
Così il 6 settembre si dimettono dal governo quattro ministri, tre dei quali
appartengono al gruppo di W. Jumblatt. Il primo ministro annuncia le proprie
dimissioni per il 20, ma inizia immediatamente consultazioni informali per
arrivare ad un governo di unità nazionale con i membri dell’opposizione.
Le forze politiche libanesi si polarizzano, i partiti d’opposizione antisiriani,
guidati da W. Jumblatt, si uniscono dopo il 20 settembre nel gruppo detto
“Raggruppamento Democratico”, dando vita a due risoluzioni il 22 settembre e il
13 dicembre chiamate rispettivamente Bristol I e II dal nome dell’Hotel a Beirut
dove si svolgono le loro riunioni; a loro si oppone il “Raggruppamento di Ai
nEl-Tiné”, dal nome della residenza del capo del potere legislativo, Nabih Berri.
R. Hariri continua a tentare invano di costruire un governo di unità nazionale
tra i due raggruppamenti.
Il 1° ottobre il deputato e ministro dimissionario Marwan Hamadé, appartenente
al gruppo di W. Jumblatt, subisce un attentato, in cui rimane ucciso il suo
autista, mentre esce di casa.
Le dichiarazioni americane e francesi contro la Siria s’inaspriscono, mentre un
governo di unità nazionale sembra oramai fuori discussione.
Intanto il 19 ottobre, una dichiarazione del CS dell’ONU (S/PRST/2004/36) chiede
al Segretario Generale delle Nazioni Unite di: «assistere le parti in causa per
applicare la risoluzione 1559 e presentare un rapporto semestrale sull’andamento
di tale applicazione».
Il 20 ottobre R. Hariri si dimette, viene eletto primo ministro Omar Karamé che
forma un governo composto da personalità ritenute filosiriane, ma anche da
ministri indipendenti che non appartengono alle solite cerchie (tra cui tre
ministri francofoni che hanno strette relazioni con istituzioni economiche o
culturali francesi).
O.Karamé viene fatto oggetto di una violenta campagna mediatica a livello
nazionale e internazionale che lo dipinge come un inetto in mano a Damasco.
È in questo contesto che il 14 febbraio del 2005, Rafiq Hariri muore insieme al
suo ministro dell’economia e ad altre 18 persone in un attentato in pieno centro
a Beirut.
Come ha scritto G.Corme: «Il trauma provocato da questa tragedia fa esplodere
tutta l’ostilità fino a quel momento trattenuta. Essa si manifesta in
manifestazioni oceaniche, animate dai giovani libanesi. Ciò che emerge e trova
espressione è l’esasperazione giovanile: per la disastrosa situazione economica
e sociale, per l’assenza di sbocchi professionali, per gli arresti arbitrari di
giovani militanti cristiani, sostenitori di Aoun o di Samir Geagea, capo delle
Forze Libanesi; per la presenza di operai siriani, i cui bassi salari hanno
contribuito a incrementare la fuga dei libanesi, iniziata da tempo, dagli
impieghi non qualificati con salari ridotti; per l’invasione di prodotti
agricoli siriani, che ha accelerato il declino dell’economia rurale, anch’essa
iniziato da molto tempo. La Siria diviene così il capro espiatorio di tutti i
mali del Libano, il che consente di cancellare di colpo tutte le responsabilità
che gravano suoi nuovi «eroi» della libertà, benché costoro siano stati i più
fedeli sostenitori dell’egemonia siriana sul Libano e gli ideatori di reti di
corruzione.»
Abbiamo così una mobilitazione reazionaria di massa capeggiata da voltagabbana
servi dell’imperialismo, che ha come proprio modello le rivoluzioni
conservatrici avvenute in Ucraina tra il novembre 2004 e il gennaio 2005, in
Georgia nel 2003, e che aveva debuttato “positivamente” in Jugoslavia
nell’ottobre del 2000.
L’indignazione internazionale data dal rilievo mediatico della vicenda è
grandissima, centinaia di migliaia di giovani si riversano nella piazza dei
Martiri, dove verrà sepolto R. Hariri, a cui viene immediatamente attribuita la
statura di un “comandante” o di un capo spirituale.
Quella piazza diviene il centro di mobilitazioni e fino alle elezioni estive
avrà sempre una presenza costante, sarà tribuna dei leader anti-siriani che
uniscono i fedeli del primo ministro defunto, le Forze Libanesi di S. Geagea,
quelli della “Corrente Patriottica Libera” del generale Aoun ancora in esilio,
insieme al PSS di W. Jumblatt e agli ex-comunisti del Movimento della Sinistra
Democratica fondata nel 2004.
Di fronte alla marea reazionaria montante, a cui non sono assolutamente estranei
sentimenti xenofobi e sciovinisti contro la popolazione siriana che vive in
Libano e che vedrà, durante questi mesi, numerosi episodi di aggressioni ad
operai siriani che costeranno la vita a più di una trentina di loro, Hezbollah
chiama a una grande manifestazione in sostegno della Siria e di denuncia della
Risoluzione 1559 del CS dell’ONU in quanto favorevole agli interessi israeliani
e americani nella regione.
Circa mezzo milione di persone manifestano il 7 marzo a piazza Ria Del-Sohl.
In risposta, il 14 marzo, il blocco reazionario, per bilanciare la folla
oceanica scesa in piazza il 7, mobilita non solo la comunità cristiana, ma
quella sunnita e drusa, dimostrando che la forza numerica non appartiene solo ad
Hezbollah.
Questa manifestazione verrà presentata come la prova di una ritrovata unità
nazionale, capace di “liberare” il Libano e di condurlo “alla democrazia”: la
«Primavera di Beirut», vuole essere nell’immagine che dà di sé e che i Media
occidentali gli danno, una sorta di ripetizione della «Rivoluzione Arancione»
avvenuta in Ucraina, infatti i manifestanti antisiriani inalberano, come in
Ucraina, sciarpe arancioni.
Usa e Francia si pongono alla testa di questa nuova crociata per la “libertà” e
la “democrazia”.
I golpe elettorali in Jugoslavia e in
Ucraina
Occorre ora fare una piccola digressione per inquadrare meglio questo
modello di rivoluzione restauratrice, ripercorrendo per sommi capi le vicende
balcaniche dell’autunno del 2000 e i recenti avvenimenti in Ucraina del
2004-2005, ricordando il fallimentare tentativo golpista contro la “Rivoluzione
Bolivariana” del 2002 in Venezuela, che ha fornito un modello positivo anche ai
patrioti libanesi per fare abortire il progetto di involuzione filo-imperialista
del Libano.
Nei Balcani si è trattato di silurare Slobodan Milosevic, che governava la
Repubblica Federale di Jugoslavia da 13 anni, superando tutti i turni elettorali
che si sono svolti, una strana figura di “dittatore” in un paese dove le 14
maggiori città, compresa Belgrado, erano in mano all’opposizione, così come la
maggioranza dei media, un paese dove la CIA dichiara pubblicamente di avere
speso dal 1997 al 2000 ben 77 milioni di dollari per foraggiare tutta
l’opposizione serba e in particolare Otpor (resistenza), un organizzazione
studentesca che organizza e guida le numerose manifestazioni di protesta contro
Milosevic.
Le pressioni internazionali congiunte di USA e UE, in un paese che subisce un
embargo e che ha subito una aggressione militare, con bombardamenti aerei durati
più di 90 giorni nella primavera del ’99, alla vigilia dell’elezioni, sono
altissime, tutto perché il paese non ha accettato di applicare le ricette del
FMI, spalancando le porte ai capitali americani ed europei. Il risultato delle
elezioni è incerto, da una parte Vojislav Kustunica, il candidato di tutta
l’opposizione serba unita (la DOS), si autoproclama vincitore subito dopo la
chiusura delle urne, dicendo di avere avuto la maggioranza assoluta e dall’altra
il governo dichiara che si deve ricorrere al ballottaggio perché nessuno dei due
candidati ha superato il 50% dei consensi, cosa che verrà confermata dalla
Commissione Elettorale.
Dopo il ricorso presentato dal DOS contro l’esito elettorale e l’annullamento
del primo turno delle elezioni della Commissione, la situazione si fa convulsa.
Viene assaltata la casa di Milosevic, incendiata la sede della televisione di
stato, assediato e invaso il parlamento.
Il giorno seguente i giudici costituzionali, sotto la pressione della folla,
cambiano radicalmente posizione e assegnano la vittoria all’opposizione.
Poco dopo, Milosevic appare in televisione, stringe la mano a Kostunica e
annuncia il suo ritiro dalla politica.
In Ucraina tra il settembre 2004 e il gennaio 2005 la nomenklatura filorussa,
che fa capo al primo ministro Viktor Yanukovic, viene estromessa dal potere
grazie a un “movimento di massa” guidato da una frazione di quella stessa
nomenklatura che ha invertito il suo orientamento di marcia col sostegno di UE e
USA.
Il governatore filo-occidentale Viktor Yushenko, leader del partito Nasha
Ucraina, già direttore della Banca centrale ucraina ed ex primo ministro, nonché
uomo del Fondo Monetario Internazionale, mentre i risultati effettivi degli
scrutini smentiscono i sondaggi dell’Exit-poll che lo davano per vincitore,
denuncia brogli e chiama in piazza i suoi sostenitori che occupano la piazza
principale di Kiev.
I dimostranti sono organizzati da gruppi neo-nazisti e dal Pora, un movimento
giovanile addestrato e finanziato dalla CIA sulla falsariga di Otpor.
Vengono annullate le elezioni precedenti e se ne fanno delle nuove che danno un
esito positivo per Yushenko, nonostante le denunce inascoltate dei brogli
presentate dall’altro candidato.
È superfluo poi parlare di quelle elezioni farsa messe su dagli occupanti e dai
loro collaborazionisti in Iraq ed Afghanistan, a cui tutti i commentatori
occidentali, come nei casi precedenti hanno plaudito come grandi prove di
democrazia.
Il
protagonismo dell’ONU e la lenta morte della “Rivoluzione dei Cedri”
Per tutto il mese di febbraio e marzo, USA, Francia e Israele
intensificano le proprie pressioni sul Libano, moltiplicando i discorsi solenni
contro la Siria e chiedendo una rigorosa applicazione della Risoluzione 1559 del
CS dell’ONU.
L’attività dell’ONU si fa essa stessa frenetica intervenendo di peso per
determinare il futuro assetto del paese.
Ci sarà, come abbiamo già detto, un primo rapporto del Segretario Generale del
CS sull’applicazione della risoluzione 1559 del 2004, seguito il 19 da una
dichiarazione del Presidente del consiglio di sicurezza, che riafferma
l’appoggio all’integrità territoriale e alla sovranità del Libano e esprime
inquietudine per la mancata applicazione della risoluzione.
Ci sarà successivamente una dichiarazione contro l’omicidio di R. Hariri il 15
febbraio che chiede al Segretario Generale di seguire con attenzione la
situazione in Libano e di fare rapporto al CS sulle circostanze dell'assassinio.
Successivamente, il 7 aprile viene adottata la risoluzione 1595 che decide la
formazione di una commissione d’inchiesta internazionale, a cui viene designato,
come presidente, il 13 maggio, il giudice tedesco Deltev Mehlis.
Il 26 aprile viene trasmesso il secondo rapporto sull’applicazione della
risoluzione 1559, informandolo che le truppe siriane hanno lasciato il Libano.
Il 4 maggio un’altra dichiarazione, invita il governo siriano e libanese a
collaborare con i funzionari Onu per la verifica dell’effettiva evacuazione
delle truppe siriane, esigendo l’invio delle truppe nel sud del Libano e
congratulandosi per la fissazione della data delle elezioni, ingiungendo il
ricorso all’assistenza internazionale per organizzarle.
Il 7 giugno, un’altra dichiarazione si felicita per il buon esito delle
elezioni.
Infine, il 29 luglio 2005, viene approvata un’altra risoluzione, la 1614, che
esige dal governo libanese l’invio di un numero sufficiente di soldati e di
forze di sicurezza su tutto il territorio del sud del Libano: «per esercitarvi
il controllo e avere il monopolio dell’impiego della forza su tutto il
territorio e prevenire attacchi dal Libano a partire dalla Linea blu».
Come ha scritto Georges Corm: «non si conosce un altro paese che, senza avere
infranto le regole del diritto internazionale o avere costituito una minaccia
per la pace, in così poco tempo sia stato gratificato da un analogo attivismo da
parte dell’ONU…»
Nonostante il ritiro delle truppe siriane, le accuse di responsabilità diretta
nei confronti della Siria e di responsabilità diretta o indiretta dei servizi di
sicurezza libanesi “filosiriani”, suffragate dal rapporto dell’ONU sulla prima
commissione d’inchiesta, non si placano, facendo chiedere a gran voce alle forze
politiche dell’opposizione le dimissione del capo dello stato e dei servizi di
sicurezza.
Intanto, la famiglia Hariri designa il 20 aprile il suo successore politico nel
figlio Saad, nonostante Bahia Hariri, sorella del defunto e deputata della città
di Saida dal ’96, fosse stata in prima fila durante i giorni della “primavera di
Beirut”, estromessa, molto probabilmente a causa della sua posizione troppo
morbida nei confronti della Siria [2].
Nel giro di qualche giorno Saad vola prima a Parigi, poi negli Stati Uniti, dove
si intrattiene a lungo, insieme al principe ereditario dell’Arabia Saudita, con
Dick Cheney.
Nel mese di giugno vengono assassinati Samir Kassir, del Movimento della
sinistra democratica, l’ex dirigente comunista Georges Haoui, mentre Elias El
Murr, genero del presidente della Repubblica e ministro della difesa, viene
ferito.
In una situazione di tensioni e con un governo di transizione che deve garantire
lo svolgimento dell’elezioni per giugno, il Libano va al voto.
L’unico fatto rilevante prima del voto è il ritorno del generale M. Aoun il 7
maggio, che pronuncia un discorso in contrasto con l’isteria dominante: chiede
di non continuare ad accusare sconsideratamente la Siria, ormai estromessa dal
Libano, o ad imputare al presidente della Repubblica e ai servizi di sicurezza
ogni attentato o omicidio; fa suo il progetto di lotta alla corruzione e
prospetta la creazione di una commissione d’inchiesta per fare luce su come si
sia giunti ad un debito pubblico così colossale.
I contenuti del progetto politico del leader maronita e il suo successo tra le
file della sua comunità, sono uno smacco alla coalizione guidata da Hariri.
Tra le pressioni internazionali del terzetto (USA, Francia, Arabia Saudita) e
una società mobilitata e polarizzata al di là dei tradizionali costumi libanesi,
e con gli osservatori Onu che chiudono benevolmente un occhio sui brogli che
assicurano a Tripoli la vittoria assoluta delle liste patrocinate da S. Hariri,
si svolgono le elezioni.
La coalizione uscita vincente, le cosiddette Forze del 14 marzo sono composte:
dalla Corrente del Futuro, di S. Hariri, che ha il gruppo parlamentare più
consistente, composto da 38 deputati, la maggioranza dei quali (18) sono della
comunità sunnita, mentre 16 sono della comunità cristiana; dal Partito
Socialista Progressista di K. Jumblatt con 16 deputati, che detiene pressoché il
monopolio della comunità drusa; dalle Forze Libanesi di S. Geagea, amnistiato
dal nuovo governo il 18 luglio 2005, che contano 6 deputati e 1 ministro al
governo; dal Partito delle Falangi Libanesi, la storica formazione di destra dei
cristiano-maroniti che conta 4 deputati; dal Forum Kornet Chehwan, fondato nel
2001 sotto gli auspici del patriarcato maronita per ricomporre le divisioni
intercristiane, che conta 5 deputati e ne fa parte padre Ghassan, già
ambasciatore dell’ONU e proprietario del prestigioso quotidiano anti-siriano
al-Nahar; dal Movimento della Sinistra Democratica che conta un deputato e dal
Movimento per il Rinnovamento Democratico, fondato nel 2001 da alcuni politici e
intellettuali vicini alla sinistra, che conta un deputato. Le forze
“patriottiche” che hanno appoggiato direttamente la Resistenza Libanese,
rappresentate in Parlamento sono: Hezbollah con 14 deputati, Amal (il cui leader
Nabih Berri è presidente della Camera) con 15 deputati, la Corrente Nazionalista
Patriottica di M. Aoun, che si trasformata in partito nel settembre del 2005 e
ha raccolto circa il 70% del “voto cristiano” senza essere rappresentata nel
governo e che conta 14 deputati.
Nel febbraio del 2006 ha firmato “un memorandum d’intesa” con Hezbollah in cui
gli riconosce il diritto a mantenere le armi fino alla liberazione delle
fattorie di Shebaa. Dopo la guerra, M.Aoun è tornato a criticare il governo di
Siniora e a sollecitare la formazione di un governo di unità nazionale; infine
il Partito Nazionale Sociale Siriano conta 2 seggi.
Bisogna ricordare che anche il Partito Comunista Libanese ha partecipato alle
elezioni legislative nel 2005 e nel 2004 alle municipali. Stando a ciò che
dichiara la compagna Marie Nessif, membro dell’ufficio politico del PCL, in un
intervista al Manifesto del 15 ottobre 2006: «Le statistiche ci davano il 12%.
Eppure non abbiamo rappresentanti in Parlamento perché in Libano non c’è il
sistema proporzionale, ma un maggioritario di stampo confessionale. Molti
municipi, però, hanno sindaci comunisti, e se cambierà la legge elettorale,
potremmo avere almeno 10 parlamentari.»
Il 28 giugno Foua Siniora, uno dei più stretti solidali di R. Hariri e suo
ministro delle Finanze per 6 anni, viene designato a formare il nuovo governo,
incarico portato a termine il 19 luglio, mentre N. Berrih, presidente del
parlamento dal ’92 viene rieletto con tale ruolo.
La mobilitazione popolare guidata da Hezbollah e gli equilibri politici
post-elettorali non hanno permesso la realizzazione degli obbiettivi di
ingerenza negli affari libanesi, di cui L’ONU è stata la principale
protagonista, piegandosi agli interessi non solo di Usa e Israele, ma della
Francia, nonché dell’Arabia Saudita e dell’Egitto.
Solo l’opzione militare diretta affidata a Israele, prevista secondo H.
Nasrallah per l’ottobre di quest’anno, anticipata obtorto collo a Luglio e la
contestuale fomentazione della guerra civile, avrebbero permesso di seguire quel
cammino auspicato dalle maggiori potenze imperialiste.
Note
Questo contributo si è avvalso, oltre che
delle fonti riportate nelle note di chiusura, dei libri: Il Libano
contemporaneo, storia e società, Georges Corme, Jaca Book, febbraio 2006, in
particolare del XII capitolo; Accadde in Iraq, dall’invasione del Kuwait alla
resistenza anticoloniale 1990-2005, Cesare Allara, Colibrì 2005, in particolare
dell’introduzione.
1) Questa espressione è propria di R.S., direttore esecutivo dell’influente
Washington Institute for Near East Policy, usata in un articolo datato 15 marzo
2005 dal significativo titolo: Assessing the Bush Administration’s Policy of «Constructive
Instability» (part I): Lebanon and Syria; gli stessi obbiettivi si trovano in un
contributo precedente dello stesso istituto apparso nel maggio del 2000, di D.P
e Z.A.: Ending the Syrian Occupation in Lebanon: the US role. Report of the
Lebanon Study Group, consultabili entrambi sul sito di questo istituto:
www.washingtoninstitute.org.
2) «Ma chi è, allora, questo osservatore supremo?» si chiede Alain Gresh, in un
articolo scritto per «Le Monde Diplomatique», nel giugno del 2005 «Un uomo
pressoché sconosciuto, presentato dal quotidiano francofono L’Orient-Le Jour
come «specialista in telecomunicazioni», la cui biografia si riassume in poche
righe.
Saad Hariri, 35 anni, figlio minore del primo ministro assassinato il 14
febbraio 2005, si è laureato alla Georgetown University, a Washington. È stato
direttore generale di Saudi Oger, società con un fatturato di 2 miliardi di
dollari e un organico di 35.000 persone.
Musulmano sunnita, è legato alla famiglia regnante in Arabia Saudita, in
particolare al principe Abdelaziz Ben Fadh, figlio del re e potente ministro di
stato. Le sue credenziali politiche? Non gliele chiede nessuno. Non è stato
designato al suo incarico da un partito o da un’organizzazione.
È stata «la famiglia» - termine di cui nessuno qui percepisce il connotato
dispregiativo - che, con un comunicato, ha informato la popolazione della sua
decisione. Questa si articola in due punti: innanzitutto Nazek Hariri, vedova
del primo ministro Rafik Hariri, assumerà «la supervisione e la gestione di
tutte le associazioni sociali e di beneficenza che patrocinava il martire del
Libano»; d’altra parte, il figlio Saad «assumerà la responsabilità e la
leadership storica di tutti gli affari nazionali e politici, al fine di
proseguire sulla via della ricostruzione nazionale a tutti i livelli».