SENZA CENSURA N.21
novembre 2006
Violenza settaria in Iraq
La violenza settaria in Iraq e la nuova guerra in Medio Oriente. Gli USA incrementano il numero di effettivi in Iraq e “rioccupano” Baghdad (di Carlos Varea)
Pubblichiamo anche su questo numero della Rivista
alcuni contributi apparsi sul sito della campagna “contra l’ocupation y Por la
Soberania de Iraq” (www.iraqsolidaridad.org) che danno un quadro aggiornato
dell’evoluzione della situazione irachena, soprattutto rispetto agli sviluppi
successivi all’insediamento del nuovo governo, e dopo l’apertura in Libano, con
l’aggressione israeliana, del “terzo fronte” della “Guerra al terrorismo”
iniziata nel 2001.
Il tentativo di divisione etnico-confessionale dell’Iraq, fomentata dagli
occupanti e sostenuta da coloro che hanno con essi interessi parzialmente
convergenti è da tempo al centro della riflessione di SC.
Così come è stato al centro della nostra ricerca e riflessione, sin dall’inizio
dell’insorgenza irachena contro il dominio neo-coloniale, lo stato dell’arte
della Resistenza che, è bene ricordarlo, nel solo mese di ottobre del 2006 ha
liquidato circa 100 marines e che il 10 ottobre, tra l’altro, ha attaccato,
distruggendola parzialmente, la Base Falcon, a sud di Baghdad, una delle basi
più importanti per quanto riguarda la fornitura di munizioni per le truppe USA.
Entrambi i contributi sono di Carlos Varea, che è coordinatore della campagna
sovracitata, di cui abbiamo già tradotto e pubblicato altri articoli sui numeri
precedenti.
Pubblichiamo inoltre un comunicato del Fronte Patriottico Nazionalista e
Islamico dell’Iraq sull’aggressione sionista contro il Libano: La resistenza
irachena incrementa le sue azioni armate in solidarietà col Libano e la
Palestina, e una scheda sul contratto recentemente stipulato tra il governo di
centro-sinistra e il governo fantoccio iracheno, per la costruzione di quattro
pattugliatori militari per la “nuova” Marina irachena, navi che verranno
prodotte da FINMECCANICA nei cantieri liguri di FINCANTIERI.
La violenza settaria in Iraq è un fatto
indiscutibile. Non lo è il fatto che sia l’espressione di uno scontro civile o
religioso tra comunità che hanno convissuto o si sono mescolate nei secoli. Non
è una guerra che affronta sunniti contro sciiti o arabi contro kurdi, ma
piuttosto correnti settarie e arretrate incoraggiate dagli occupanti e
interessate alla sparizione dell’Iraq.
In primo luogo, la violenza settaria in Iraq ha come obiettivo lo sradicamento
del campo contrario all’occupazione, dei settori laici e secolari della società,
l’eliminazione fisica dei suoi intellettuali e professionisti, la perdita dei
diritti civili e delle donne, l’espulsione delle comunità minoritarie, in alcuni
casi estranee alla spirale di violenza. La violenza settaria in Iraq ha come
obiettivo finale lo smantellamento dello stato Iracheno e la frattura della sua
società, anticipazione dello smembramento territoriale del paese e della
gestione oligarchica delle sue risorse energetiche.
Questo è il suo aspetto strategico. La presunta “guerra civile” in Iraq esprime
il conflitto tra il progetto di emancipazione della resistenza – la
ricostruzione di uno stato pienamente sovrano, di gestione pubblica e sociale
delle risorse, integratore e democratico- e il modello opposto di divisione
settaria del paese in entità territoriali gestite da forze arretrate e
sottomesse ad interessi stranieri.
La responsabilità di ciò che accade in Iraq è, in primo luogo, degli occupanti
che hanno introdotto il germe delle confessioni nelle nuove istituzioni da essi
istituite ed hanno aperto il paese alla rete di Al Qaida, come alle trame dei
servizi segreti propri o di paesi terzi che si nascondono dietro a questo nome.
In secondo luogo, la responsabilità di ciò che occorre in Iraq è delle forze che
hanno aperto il paese a confessioni reazionarie e alla frattura settaria.
Certamente, la comparsa di Al Qaida in Iraq e dei suoi attacchi indiscriminati
hanno favorito questa logica già esplicita di pulizia etnica e di
omogeneizzazione confessionale o etnica, ma mai possono giustificarla. La
maggioranza degli attentati attribuiti ad Al Qaida sono infatti opera di trame
oscure – degli stessi occupanti, delle nuove autorità, o dei servizi segreti di
paesi terzi- o di un piccolo contingente di militanti, per la maggior parte
stranieri, sistematisi in Iraq grazie all’occupazione e che tengono conto
dell’espresso rifiuto della popolazione, della sua resistenza armata.
Se alla fine la violenza settaria in Iraq assumerà la forma di una “guerra
civile” (come massimi responsabili britannici e comandi militari statunitensi
già prevedono che possa accadere) questa sarà stata il risultato, in primo
luogo, della stessa logica imposta dagli occupanti e del sostegno dato da questi
alla guerra sporca dei paramilitari; in secondo luogo, della dinamica interna
allo stesso campo collaborazionista che, insieme agli interessi di paesi terzi
(nel caso delle formazioni kurde per Israele e di quelle di confessione sciita
per l’Iran), desidera creare una frattura in Iraq per poter gestire
autonomamente le risorse petrolifere del nord e del sud del paese.
Questo, senza dubbio, non era il progetto iniziale degli occupanti, che
speravano di poter controllare facilmente il paese per mezzo di un governo
centrale liberale e formalmente democratico. La loro responsabilità non è per
questo minore. E così è per i loro principali soci interni collaborazionisti: la
nuova oligarchia kurda e la confessione politica sciita. Stati Uniti e Regno
Unito provano ora a non perdere del tutto: adeguarsi a questa realtà – la
divisione effettiva dell’Iraq in tre entità- o tentare di invertirla
parzialmente. Da parte sua, la resistenza civile e militare irachena combatte
già su entrambi i fronti: contro l’occupazione e contro il settarismo.
Senza dubbio la guerra che vede Israele impegnato contro Libano e Palestina avrà
il suo impatto sull’evoluzione della situazione interna irachena, come vedremo
alla fine.
La scalata della violenza settaria
Secondo dati ufficiali iracheni, più di 180.000 persone (30.000 famiglie)
sono diventate rifugiati a partire dall’esplosione della cupola della moschea di
Samara il 22 febbraio – un’azione di cui non si conosce ancora l’autore- una
cifra senza dubbio minore di quella reale se solo includiamo le famiglie che si
sono registrate come tali. Quasi 30.000 di questi rifugiati sono fuggiti dalle
proprie case a Baghdad negli ultimi 5 mesi. La loro appartenenza comunitaria è
ugualmente suddivisa tra sunniti e sciiti. Questa già chiamata da tutti “guerra
civile” si nutre, per una parte, degli attentati indiscriminati con auto-bomba
perpetrati da organizzazioni che si suppone essere legate alla rete di Al Qaida
in Iraq (cioè correnti radicali sunnite Takfiriste) e per l’altra si nutre delle
uccisioni di sunniti e di persone legate al campo contrario all’occupazione
perpetrate da paramilitari sciiti interni agli apparati di sicurezza, in
concreto le Brigate (ora Organizzazione) Badr, del Congresso Supremo della
Rivoluzione Islamica in Iraq (CSRII), e la milizia del chierico as-Sader,
l’esercito del Mahdi.
Il salto di qualità occorso nel mese passato (luglio) è la comparsa di grandi
operazioni (assalti a quartieri, falsi controlli nelle strade, sequestri di
massa) realizzate da gruppi di entrambe le correnti settarie, con il conseguente
assassinio di decine di persone secondo la propria appartenenza comunitaria,
spesso stabilita esclusivamente per il nome di battesimo sul loro documento di
identità che, in Iraq, non include l’affiliazione etnica o religiosa. Molto
significativamente queste operazioni si stanno svolgendo alla piena luce del
giorno e con la partecipazione di grandi gruppi di uomini armati che si
dispiegano su veicoli con armamenti pesanti, senza che le truppe di occupazione
o dei nuovi corpi di sicurezza iracheni intervengano o perseguano
successivamente gli aggressori; e si consideri che spesso le mattanze si
svolgono vicino a distaccamenti che necessariamente devono sentire le
detonazioni. Tali atti possono essere considerati di chiara pulizia etnica
(confessionale, più precisamente) e comportano a Baghdad lo stabilirsi di aree
confessionali pure che si legano con zone periferiche del centro o dell’ovest
del paese di maggioranza sunnita o sciita, chiara anticipazione della frattura
territoriale di fatto del paese. Conseguire l’egemonia settaria nella capitale
(o in settori di essa) è essenziale nel futuro disegno delle entità territoriali
di un Iraq diviso secondo criteri comunitari.
Ugualmente, a Bassora sono state praticamente espulse le comunità cristiana e
sunnita e fisicamente eliminati i loro settori secolari (è stato sistematico
l’assassinio di insegnanti, per esempio) e di sciiti moderati da parte dei
paramilitari di distinte organizzazioni confessionali sciite, che a loro volta
si scontrano esse stesse per il controllo delle esportazioni e del mercato nero
del petrolio. Nelle ultime settimane, paramilitari sciiti si sono dispiegati
nello stesso modo fino a Kirkuk, dove la violenza esercitata dai peshmerga kurdi
(a loro volta integrati nelle nuove forze di sicurezza e militari) contro altre
comunità già anticipa la battaglia per il controllo di una zona strategica dal
punto di vista delle risorse energetiche.
E’ evidente che, sebbene le forze di sicurezza poliziesche e militari irachene
siano cresciute dai 169.000 effettivi di un anno fa agli attuali 264.000, il
deterioramento della situazione interna in materia di sicurezza va al galoppo.
Di più: l’incremento della violenza e della compartimentazione settaria
effettiva della capitale e di altre zone del paese è dovuta precisamente alla
proliferazione di servizi e forze di sicurezza che, siano formalmente affiliate
al nuovo governo o siano private, sono state formate secondo criteri settari o
sono state infiltrate da milizie confessionali. Secondo un alto comando militare
statunitense in Iraq, dei 26 battaglioni di polizia “cinque o sei hanno capi che
li utilizzano in maniera criminale o settaria, quando non in entrambi i modi”.
Come segnalano Cordesman e Sullivan, “dagli inizi del 2006 le milizie sono
arrivate ad essere una minaccia praticamente in tutte le province, città ed aree
dove la resistenza ha una presenza limitata”. Un’altra ipotesi di questa stessa
affermazione è che gli occupanti hanno perso il controllo del territorio, in
alcune zone a favore della resistenza, altrove a favore delle milizie settarie
delle formazioni sciite che sono, insieme a quelle kurde di Talabani e Balzani,
i loro principali alleati interni ed egemoni nelle nuove istituzioni.
La rioccupazione di Baghdad
Quest’estate il Pentagono ha deciso di rioccupare Baghdad mandando nella
capitale fino a 5.000 soldati con carri armati e veicoli corazzati al fine di
frenare – così si dice- la violenza settaria in città. I primi 3.700 effettivi
cominciavano a pattugliare la capitale lo scorso sabato 4 agosto. Ad essi si
aggiungeranno altri 4.000 soldati iracheni. Allo stesso modo, le truppe
britanniche già da diverse settimane tentano di recuperare il controllo perso in
ampie aree come Bassora e Amara, città del sud dell’Iraq.
Il Pentagono è dovuto ricorrere a truppe dispiegate nel nord del paese (due
battaglioni di brigata 172 Stryker dell’Esercito e fino a cinque compagnie della
polizia militare), sebbene arriverà anche a Baghdad un battaglione di
artiglieria dal Kuwait. A questi primi effettivi inviati nella capitale è stato
applicato il mezzo impopolare di prolungare di quattro mesi il periodo di
servizio in Iraq, che è di un anno. Secondo il tenente generale dell’esercito
Peter W. Chiarelli, comandante delle operazioni in Iraq, queste truppe
aggiuntive avranno la funzione di “…forze di reazione rapida per rispondere a
scontri settari”.
Con l’invio del contingente dal Kuwait e il prolungamento del servizio di altre
unità, gli USA avranno di nuovo superato i 130.000 soldati in Iraq. Questo nuovo
aumento di truppe statunitensi evidenzia due cose: in primo luogo, la dubbiosa
consistenza del calendario di riduzione delle truppe durante il 2006 annunciato
dal generale Casey, e in secondo luogo l’insolvenza e debolezza estreme del
nuovo governo di al-Maliki. Di conseguenza, la sfida ancora tutta aperta per USA
e Regno Unito di garantire un minimo controllo dell’Iraq.
Nell’anno delle elezioni l’amministrazione Bush fingeva di mostrare avanzamenti
effettivi in Iraq, in particolare la riduzione dell’implicazione militare
diretta statunitense; cioè, minore numero di truppe e minor numero di perdite.
Così dall’autunno del 2005 il Pentagono sta cercando di ridurre le sue perdite
in combattimento cedendo a forze irachene o perdendo il controllo territoriale,
o ricorrendo abusivamente al suo potere aereo e navale nelle zone sotto egemonia
della resistenza. Invece, nel 2006 si è mantenuto il numero ufficiale di sodati
USA morti in combattimento in una media di due al giorno, qualcuno meno a luglio
(30 perdite) però recuperata ad agosto. In più, senza un incremento sostanziale
di effettivi totali statunitensi, il passaggio di truppe dalle aree sotto il
controllo totale o parziale della resistenza a zone di violenza settaria (oltre
che verso la capitale, verso altre quattro province almeno delle 18 in cui è
diviso l’Iraq) sembra che debiliti la lotta controguerrigliera, quando non versa
in circostanze di assumere più perdite proprie. Alti comandi militari in attivo
o di riserva, oltre ad analisti, ripetono in questi giorni che l’attuale
dispiego di truppe in Iraq è insufficiente per controllare il paese.
L’invio di un maggior numero di truppe USA a Baghdad presuppone inoltre il
riconoscimento da parte dell’amministrazione Bush del fallimento del piano di
sicurezza per la capitale messo in moto a giugno dal primo ministro al-Maliki,
piano in cui le nuove forze di sicurezza irachene, e non le truppe USA,
dovrebbero sostenere il ruolo principale. Il 31 maggio, il piano di sicurezza di
Baghdad seguiva la dichiarazione di stato d’emergenza a Bassora, la seconda
città del paese. Però nonostante i mezzi imposti nella capitale (coprifuoco,
controlli e pattuglie) e le aspettative dopo l’uccisione di Al-zarkawi il 7
giugno in un attacco aereo statunitense, la spirale di violenza settaria che
vive l’area metropolitana di Baghdad dall’inizio dell’anno non solo non è
diminuita ma è aumentata in modo spettacolare.
Al Qaeda e i paramilitari sciiti
Il fallimento del piano di sicurezza di al-Maliki per Baghdad va
attribuito a fazioni interne allo stesso governo iracheno, che stanno dietro
l’escalation della pulizia etnica degli ultimi mesi contro la comunità sunnita,
nella capitale e nel suo circondario metropolitano, La spirale di violenza
settaria pone in evidenza lo scontro dentro allo stesso campo confessionale
sciita collaborazionista e il definitivo sganciamento degli interessi USA e del
regno Unito dalle correnti più apertamente filo-iraniane del governo iracheno.
Come bisognava prevedere con la morte di al-Zarkawi e così come segnalano
documenti recenti della stessa organizzazione, la rete di Al Qaeda in Iraq ha
radicalizzato la sua esplicita campagna di terrore contro la comunità sciita
nella capitale e nella sua periferia meridionale, ricorrendo ad auto-bomba in
quartieri di maggioranza sciita e più di recente ad assalti in aree miste, come
quello compiuto a Mahmudiya, a sud della capitale, lo scorso 17 luglio.
Tuttavia, comandi militari statunitensi riconoscono che la violenza settaria
sviluppata da paramilitari di affiliazione confessionale sciita sta causando più
vittime degli attentati con auto-bomba attribuiti ad Al Qaeda o gruppi affini.
Nei primi 5 mesi del 2006 i paramilitari hanno ucciso, sequestrandole, 6.000
persone solo nella capitale. A giugno, l’obitorio centrale di Baghdad ha
ricevuto 1.595 corpi, una cifra ancora maggiore rispetto ai mesi precedenti.
Questo istituto riceve da 35 a 50 cadaveri al giorno, la maggior parte dei quali
riportano segni di tortura (la firma degli squadroni della morte sono i segni
dell’uso di trapani e le orbite degli occhi vuote). Nel complesso, i dati
ufficiali iracheni raggiungono una cifra di 14.338 iracheni uccisi tra gennaio e
giungo 2006.
La violenza settaria perpetrata dalle formazioni paramilitari sciite sta avendo
un impatto tanto brutale dovuto a due fattori. Il primo, per il quale ha contato
– almeno fino alla designazione di al-Maliki, come ora vedremo- la tolleranza
della diretta implicazione delle forze di occupazione, che hanno visto negli
squadroni della morte la più efficace formula di annichilimento del campo civile
secolare e contrario all’occupazione, e di sottomissione con il terrore della
comunità sunnita, considerata il bacino principale della resistenza. E’ la
cosiddetta “Opzione El Salvador” che senza dubbio ha dato benefici agli
occupanti provocando prima l’esodo di migliaia di professionisti, professori,
intellettuali, donne e attivisti, con la conseguente rovina della rete di
organizzazioni politiche, sindacali e sociali create nei primi mesi di
occupazione.
Il secondo fattore –chiaramente legato al primo- è dovuto al fatto che i
paramilitari sciiti si sono avvalsi dei nuovi corpi di sicurezza iracheni,
soprattutto della polizia e dei suoi corpi speciali, come anche della Guardia
Nazionale e degli eserciti privati del cosiddetto Servizio di Sicurezza per i
rifornimenti e le installazioni. Così, la formazione militare del Congresso
Supremo della Rivoluzione Islamica in Iraq, la principale organizzazione della
coalizione governativa sciita Alleanza Unita Irachena, diretta da Abdul Aziz
al-Hakim, l’Organizzazione Badr, fondata in Iran nei primi anni ’80 come corpo
della Guardia della Rivoluzione con 20.000 membri, si è avvalsa dei corpi
speciali di sicurezza del Ministero degli Interni per dare copertura ai suoi
squadroni della morte, come denunciano le Nazioni Unite e riconoscono gli stessi
occupanti.
Da parte loro, gli squadroni della morte della milizia del chierico as-Sader,
l’esercito del Mahdi, con 10.000 effettivi, operano uniformati come corpi
privati di sicurezza dei ministeri che controllano (5 nel nuovo governo di
al-Maliki), e ugualmente da dentro la Polizia, sebbene realizzino assalti contro
quartieri di Baghdad (per esempio, quello di Adamiya) con le loro uniformi nere.
Badr e l’Esercito del Mahdi si dividono così gli stimati 65.000 membri dei
distinti corpi di sicurezza del Ministero degli Interni dispiegati a Baghdad.
Inoltre, l’affiliazione settaria dei battaglioni della Guardia Nazionale ha
determinato che gruppi paramilitari sciiti contino abitualmente sull’appoggio di
soldati iracheni durante i loro attacchi, come è successo nei successivi
tentativi di penetrazione nel quartiere di Adamiya da aprile, ai quali secondo
testimoni oculari hanno preso parte truppe statunitensi.
Verso il
federalismo settario
La violenza dei paramilitari sciiti si presenta abitualmente nei mezzi di
comunicazione come difensiva, cioè come legittima risposta di questa comunità
agli attacchi di massa di Al Qaeda, o davanti al tentativo della resistenza di
invertire la situazione interna creata attraverso la caduta del regime di Saddam
Hussein. Questa è la considerazione che permette di argomentare che ciò che
accade in Iraq è l’anticipo di una guerra civile. Tuttavia, la crescita
esponenziale della violenza da parte dei paramilitari sciiti nel 2006 risponde
essenzialmente agli scontri interni allo stesso campo collaborazionista di
confessione sciita, come già abbiamo sottolineato.
Gli USA hanno imposto l’elezione di Nuri al-Maliki, un uomo irrilevante e
insignificante, come nuovo primo ministro del primo governo non ad interim
dell’Iraq, opponendosi apertamente al precedente al-Yaafari, il candidato di
Teheran, che Washington e Londra accusavano di dare copertura, dentro i nuovi
apparati di sicurezza, a squadroni della morte alimentati dalle milizie di Badr
e dell’esercito di Mahdi. La designazione di al-Maliki ha visto per mesi la
ferrea opposizione dei protettori di al-Yaafari, le formazioni politiche di
entrambe le milizie: il CSRII e la corrente as-Sader, rispettivamente. Con 30
dei 275 seggi del nuovo Parlamento, il nullaosta finale di as-Sader alla
designazione di al-Maliki gli è valso 5 ministeri nel suo governo e mesi di
tolleranza statunitense perché i suoi squadroni della morte operino con piena
impunità contro la comunità sunnita e i settori laici.
L’amministrazione Bush vuole da al-Maliki che favorisca il mantenimento, dentro
il denominato “processo politico”, di formazioni politiche sunnite
(fondamentalmente, il Partito islamico) al fine di dare allo stesso l’apparenza
di unitario (però, si noti, sempre in chiave confessionale) e con esso, se
possibile, favorire la sospensione del fuoco di settori islamici sunniti
moderati della resistenza. E’ la logica che soggiace al già dimenticato progetto
di riconciliazione presentato da al-Maliki lo scorso 25 giugno.
Così, la pretesa degli USA di stabilizzare minimamente la situazione interna e
lo stesso compromesso del governo di al-Maliki includono necessariamente il
porre un limite alle azioni dei paramilitari sciiti e degli squadroni della
morte. La logica è semplice, come spiega al-Abdul Ilah al-Bayati: “la cosa
fondamentale è dare l’impressione che l’Iran e gli squadroni della morte,
controllati direttamente o indirettamente da questo paese, costituiscano il vero
pericolo sull’Iraq. E che, di conseguenza, la resistenza araba debba cooperare
con gli USA e con il regime di occupazione, per respingere questo pericolo.
Nessun patriota nel suo sano giudizio, né nessuna persona cosciente, può cadere
in questa trappola, indipendentemente da che si trovi un compromesso o meno
nella resistenza nazionale armata. Tutti sono coscienti che il “processo
politico”, per quanto lo mascherino, può riassumersi così: il potere ai
collaborazionisti e il petrolio agli USA. Il cambiamento di collaborazionisti
non altera il progetto”.
In tale impegno, né gli USA né il Regno Unito né al-Maliki contano su un grande
appoggio all’interno dello stesso governo. Molto significativamente, in chiara
contrapposizione alle pretese di al-Maliki, il leader del CSRII e prima capo
delle Brigate Badr, Abdul Aziz al-Hakim, approfittava del terzo anniversario
della morte in un attentato di suo fratello Baqir (24 luglio) per avvertire a
Nayaf gli occupanti che non interferiscano nello sforzo di sradicamento del
“terrorismo”, identificato da lui nella resistenza baathista e in Al Qaeda.
Al-Hakim, che dimostra un chiaro appoggio ad alcuni corpi di sicurezza accusati
insistentemente di promuovere la violenza settaria e di dare copertura agli
squadroni della morte, ha affermato in riferimento agli USA che “il tema della
sicurezza in Iraq deve ricadere sui corpi di sicurezza e nessuno dovrebbe
interferire in ciò”. Al-Hakim ha fatto inoltre riferimento alla formazione di
“comitati di difesa” nei quartieri, un invito a moltiplicare ancora di più le
strutture paramilitari. Allo stesso modo, non è casuale che forze di occupazione
statunitensi e britanniche a Baghdad, Diwaniyah, Bassora ed altre città
meridionali abbiano attaccato sedi dell’Esercito del Mahdi di as-Sader (azioni
che hanno comportato la morte di 15 paramilitari in uno scontro con truppe USA a
sud della capitale), dalla fine di luglio e per tutto agosto, ricorrendo anche a
bombardamenti aerei contro il quartiere di Baghdad di Medina as-Sader all’alba
del 6 e del 7 agosto- attacchi, questi, che sono costati la vita a 30 persone e
sono stati criticati dal primo ministro al-Maliki e dal presidente Talabani: non
si tratta di un intervento contro un gruppo della resistenza, ma piuttosto
contro un socio del governo collaborazionista che segue il suo proprio copione,
quello di farsi una posizione dentro il campo confessionale sciita
radicalizzando il suo discorso anti-occupazione e anti-israeliano, ora ancora di
più sulla base dell’aggressione contro il Libano.
Non sono estranee a questa situazione le chiavi interne e regionali. Il
parlamento iracheno dovrà affrontare nella restante parte dell’anno questioni
trascendentali già incluse nel testo della Costituzione approvata nel 2005, in
concreto, il federalismo e l’eliminazione di un marchio giuridico statale unico
rispetto a diritti civili ed economici. Di nuovo, al-Hakim (e ugualmente il
vicepresidente Abdel Abd al-Mahdi, anche alto responsabile del CSRII) ha
segnalato recentemente la sua intenzione di istituire una regione autonoma
sciita che includa nove delle 18 province irachene, da Babilonia (Babil) a
Bassora, seguendo l’esempio di quella già dichiarata in Kurdistan.
L’Iraq e la nuova aggressione israeliana
contro il Libano
La violenza settaria giustifica e favorisce la pulizia etnica e permette
di omogeneizzare territori per mezzo del terrore. Come accade nel Kurdistan, nel
centro e nel sud del paese (dove non opera in assoluto Al Qaeda) la violenza dei
paramilitari di Badr e di as-Sader è destinata a eliminare i concorrenti nella
gestione del mercato nero del petrolio, a espellere le comunità minoritarie
sunnite o cristiane, a sradicare settori laici e a impedire l’espansione
dell’attività resistente contro l’occupazione. Cioè, a impiantare un regime
autoritario islamico che proceda a gestire in modo diretto gli idrocarburi del
sud del paese. L’esperienza di questi anni di occupazione e le dichiarazioni
esplicite delle forze collaborazioniste permettono di immaginare che tale
gestione si realizzerà con alti livelli di corruzione e adottando criteri
capitalisti. E ciò, più che in sintonia con gli interessi strategici di USA e
Regno Unito, con quelli dell’Iran, nello stesso modo in cui in Kurdistan lo sono
con quelli di Israele.
In questa congiuntura, critica per il futuro dell’Iraq e per l’insieme della sua
popolazione, la guerra di aggressione di Israele contro il Libano e la Palestina
ha almeno tre punti di connessione con l’evoluzione della situazione interna
irachena.
In primo luogo, Israele ha agito in modo autonomo rispetto agli USA,
approfittando della estrema debolezza che il conflitto in Iraq impone a livello
internazionale e regionale nell’amministrazione Bush. Il governo USA si è visto
obbligato perciò ad appoggiare l’avventura militare di Israele in Libano,
includendola nel segno della sua “guerra globale contro il terrorismo”, ma
dovendosi dimenticare per molto tempo di qualsiasi progetto di stabilizzazione
politica ed integrazione economica della zona mediorientale, piani (il “nuovo
grande Medio Oriente”) recuperati con l’invasione e l’occupazione dell’Iraq nel
2003.
In secondo luogo, come risultato della nuova guerra regionale l’amministrazione
Bush ha potuto sviare l’attenzione internazionale e interna dall’atroce
situazione che vive l’Iraq, la cui popolazione si trova in miseria, nel caos e
nella violenza, e abbandona a decine di migliaia un paese sul cui futuro nessuno
scommette. E inoltre sviare l’attenzione dal pasticcio in cui si trova, tra mesi
di scandali (gli ultimi, la violenza e l’uccisione di una adolescente irachena
da parte di truppe statunitensi a Mahmudiya il 12 marzo, la condanna a una unità
di marines per la mattanza di Hadiza e l’accertamento di appropriazioni indebite
nei conti gestiti dagli occupanti) e in un momento in cui aumenta e non
diminuisce –al contrario di quanto annunciato- la sua implicazione militare
diretta, come conferma la rioccupazione di Baghdad. All’amministrazione Bush
tocca solo presentare al popolo statunitense che il prolungamento della sua
presenza in Iraq ha come nobile obiettivo salvare il popolo iracheno da se
stesso, dalla “guerra civile”, come già raccontano i giornalisti dei grandi
media del paese.
Ma – questo è il terzo legame- oltre a questo sollievo limitato, la guerra di
devastazione che Israele sta sviluppando contro il Libano e la Palestina dall’11
luglio debiliterà l’intenzione degli USA e del Regno Unito di usare il primo
ministro al-Maliki per recuperare qualcosa del controllo perso in Iraq. La
capacità militare e politica di Hezbollah e dell’Iran di rafforzarsi come
referenti anti-imperialisti e anti-sionisti nella zona sfruttando questa nuova
guerra regionale incoraggerà- o già lo sta facendo- le correnti di confessione
politica sciita in Iraq più vicine all’Iran a scuotersi di dosso definitivamente
la tutela degli occupanti, grazie ai quali hanno potuto rafforzarsi nel paese,
dai quali però nel paese si può già prescindere.
L’aggressione di Israele contro il Libano è stata condannata da tutti i membri
del governo collaborazionista iracheno, incluso lo stesso al-Maliki, che ha
avuto la sfortuna di doverlo fare durante la sua visita a Londra e Washington.
Ugualmente, il massimo leader spirituale sciita iracheno, il grande ayatollah
Ali as-Sistani, condannava alla fine di luglio l’aggressione israeliana contro
il Libano e –senza menzionare gli Stati Uniti- chiedeva al mondo islamico di non
dimenticare quali paesi stanno bloccando il coprifuoco in favore di Israele.
Alla fine, as-Sader convocava lo scorso venerdì 4 agosto, nel quartiere di
Baghdad che porta il nome di suo padre, una marcia nazionale in appoggio ad
Hezbollah, che ha contato sull’appoggio manifesto di vari ministri del governo
di al-Maliki (tra essi, quello della Difesa) appartenenti ad altre
organizzazioni di confessione sciita. Una prova del potere di fatto acquisito da
as-Sader dalle sue rivolte del 2004 è che, come abbiamo indicato, il primo
ministro al-Maliki abbia condannato gli attacchi delle truppe USA contro questo
stesso quartiere 48 ore dopo il concentramento di varie decine di migliaia di
suoi seguaci. Gli USA non possono scagliarsi apertamente contro i paramilitari
di as-Sader senza indebolire la stessa posizione di al-Maliki.
Come ha segnalato in questi giorni un ufficiale militare statunitense, per
eludere l’imbroglio: “noi dobbiamo avere molta cura nel non demonizzare tutto il
movimento di as-Sader”. Con un Kurdistan già di fatto indipendente, preso tra
l’attività della resistenza in buona parte del paese e la minaccia di una
rivolta sciita filo-iraniana nel resto del paese, gli occupanti hanno una
situazione veramente molto complicata in Iraq.
Mentre lo sforzo resistente di Hezbollah – una forza politica democratica
integrata nelle istituzioni libanesi- davanti all’aggressione di Israele ha
raccolto l’appoggio indiscutibile della società libanese, le organizzazioni
settarie sciite irachene approfittano della nuova guerra in Medio Oriente per
avanzare nel loro progetto di frammentazione dell’Iraq in entità confessionali,
il modello opposto a quello che sperimenta il Libano e che Israele vuole una
volta o l’altra distruggere. Insieme alle vittime civili dei bombardamenti di
Israele sul Libano e sulla Palestina, lo sforzo di emancipazione del popolo
iracheno contro l’occupazione e il settarismo potrebbe finire per essere così un
altro “danno collaterale” della nuova guerra in Medio Oriente.
Si moltiplicano per quattro gli
attacchi contro gli occupanti |
I
pattugliatori della Marina Irachena verranno costruiti in Italia da
Fincantieri
Tratto da: “Nuovi pattugliatori per l’Iraq” di
Pierangelo Caiti, in «Rivista Italiana di Difesa», ottobre 2006 |