SENZA CENSURA N.21
novembre 2006
L'equidistanza della sinistra
Dalla liquidazione delle mobilitazioni contro la guerra all'appoggio alle imprese neocoloniali
Equidistanza schierata.
Così si potrebbe definire la collocazione politica di quelle forze che hanno
contribuito dal 2003 a far defluire le mobilitazioni contro la guerra,
sviluppatesi contro l’ennesima aggressione all’Iraq.
Mobilitazioni che avevano avuto momenti significativi allorquando avevano saputo
individuare le mire geo-strategiche degli aggressori, la configurazione degli
interessi economici, in particolar modo quelli energetici, legati alla guerra,
l’apparato logistico (basi militari, ferrovie e porti) che permette un impresa
bellica, ed avevano fortemente messo in discussione la campagna guerrafondaia
dei media.
Oltre a questo, alcune mobilitazioni, in linea di continuità con quelle in
sostegno alla “Seconda Intifada” avevano visto il protagonismo di importanti
porzioni del proletariato immigrato di origine araba o di fede mussulmana.
Ma gli opportunisti hanno allora fatto propria, per così dire, l’interpretazione
statunitense della Missione compiuta, così come recitava la scritta sullo
striscione sulla portaerei Lincoln, dove il 1° maggio 2003 Bush jr dichiarò
ufficialmente finita vittoriosamente la guerra contro l’Iraq e il proseguimento
della “lotta al terrorismo”.
Questo anche se era evidente che la capacità di resistenza non si sarebbe
misurata con la possibilità di fermare frontalmente l’invasione delle truppe
anglo-americane, ma di impattare le strategie di occupazione logorando il nemico
con una guerra di guerriglia che non gli desse tregua.
Appare paradossale, ma le mobilitazioni anti-war, che non si erano espresse
significativamente contro l’aggressione all’Afghanistan, defluiscono, tranne
qualche sporadica e significativa ripresa, proprio alla vigilia dell’inizio
della Resistenza al dominio neo-coloniale anglo-americano in Iraq nel 2003 e
all’annuncio del proseguimento delle ostilità nei confronti di quei paesi
considerati da Washington facenti parte dell’“Asse del Male”, quali Iran e
Siria.
L’offensiva statunitense in tutto il “Medio Oriente” ha prima co-determinato tra
l’altro i tentativi falliti di destabilizzazione del Libano e poi ha supportato
l’aggressione israeliana a questo paese, con una convergenza di interessi tra
USA e Israele, Francia e Arabia Saudita.
Appare ancora più paradossale che a una sempre maggiore iniziativa della
resistenza, non solo in Iraq, non si sia determinato sul “fronte interno” dei
paesi impegnati nel conflitto un adeguato livello di mobilitazione che guardasse
all’insorgenza irachena come ad uno degli esempi più avanzati della lotta contro
la globalizzazione capitalista.
Queste forze, che vanno dalla sinistra istituzionale fino a dentro il
“movimento”, sono arrivate recentemente ad appoggiare la missione UNIFIL in
Libano, contribuendo a quella operazione di creazione di fiducia e consenso nei
confronti del protagonismo italiano nell’area mediterranea, che ha trovato nello
slogan FORZA ONU della manifestazione estiva di Assisi la sua sintesi migliore.
Questo dopo la timida condanna estiva dell’aggressione israeliana e i modesti
tentativi di mobilitazione contro la guerra da essi promossi.
La maggiore preoccupazione di costoro era nel differenziarsi a parole rispetto
alla maggioranza del centro-sinistra, senza però prendere una posizione
conseguente di rottura e fare esplodere fino alle estreme conseguenze le
contraddizioni in seno alla maggioranza governativa.
Secondo costoro, Il “nuovo” protagonismo dell’ONU, il ruolo di primo piano
giocato dai paesi dell’UE, la presunta sconfitta dell’ “unilateralismo”
statunitense, sembrano essere stati i fattori che hanno permesso la fine
dell’aggressione militare, quando è chiaro che la Resistenza Libanese è stata la
principale artefice della cessazione temporanea del conflitto e che nonostante
questo la parte sud del Libano sta per essere militarmente occupata da 15.000
caschi blu, per la maggior parte di paesi UE facenti parte della NATO o come la
Francia, direttamente implicati, attraverso l’ONU, almeno dal 2004, nei
tentativi di “destabilizzazione” del Libano stesso.
La “Forza ONU” altro non è che un avamposto del nascente polo imperialista
europeo nella sua aerea di naturale espansione che va almeno dal nord Africa
all’area mediterranea del “Medio Oriente”, mentre sul piano politico l’appoggio
più o meno critico a questa missione non è che l’esempio di subordinazione della
politica della sinistra istituzionale e para-istituzionale allo sviluppo del
polo imperialista europeo, in un momento in cui, almeno nel nostro Paese, il
grado di autonomia e di organizzazione espressi dal proletariato non sono stati
tali da potere incidere su questo processo di riallineamento.
È proprio questa collocazione di equidistanza schierata, quintessenza
dell’opportunismo per ciò che riguarda il rapporto tra proletariato nella
metropoli e popoli della periferia integrata o in via di integrazione, che ha
permesso all’Italia di giocare un ruolo rilevante anche se non principale nei
teatri bellici apertisi con la “Lotta al Terrorismo”.
Questo è avvenuto e avviene in Afghanistan con la missione ISAF, ora sotto
comando NATO, e le due missioni navali ad essa connessa, in Iraq con la missione
ANTICA BABILONIA, nel quadro della coalizione anglo-americana e ora con la
missione LEONTE in Libano, senza tralasciare la sempre rimossa significativa
presenza militare nei Balcani, ora sotto direzione UE, e le proiezioni militari
in Africa, sotto l’ombrello ONU, come in Sudan.
Questa posizione ha permesso di plaudire a un ritiro graduale già
precedentemente programmato, glissando sugli interessi economici che si vanno
configurando attorno a un contesto di sfruttamento delle risorse energetiche e
di occupazione militare, come è il caso dell’Iraq, in cui gli interessi
dell’ENI, che è una azienda statale che si muove su un campo strategico come
quello energetico, o di FINMECCANICA, altra impresa di stato, cuore
dell’apparato militar-industriale, vengono, insieme agli altri interessi legati
alla “ricostruzione”, rimossi.
Un contesto in cui la Resistenza combatte sia contro gli occupanti, che contro
le forze collaborazioniste (i clan kurdi di Talabani e Barzani, così come le
forze politiche che fanno gli interessi di una forza regionale come l’Iran), che
i regimi arabi che hanno profondi interessi nella realizzazione della divisione
etnico-confessionale dell’Iraq e dell’inasprirsi dei conflitti comunitari.
Una equidistanza schierata che ha plaudito alle elezioni in regime di
occupazione, come mirabili avanzamenti del processo democratico - quando queste
sono nel migliore dei casi, anche nei paesi del cosiddetto “Primo Mondo”, solo
un vuoto simulacro - solo se queste premiavano delle forze politiche disposte a
collaborare, ritagliandosi una loro cospicua porzione di potere, con
l’imperialismo.
Una equidistanza schierata che le ha delegittimate qualora in queste non
risultassero vincitrici le forze politiche collaborazioniste o filo-occidentali,
non disposte a piegarsi ai programmi elaborati per loro dall’imperialismo.
Così è successo in Palestina, in cui la Comunità Internazionale ha di fatto
isolato il popolo palestinese, promuovendo un embargo politico-economico nei
confronti di una popolazione che subisce un’occupazione militare che si è sempre
più inasprita, anzi come l’Italia continua a stipulare accordi di cooperazione
con Israele e non ha battuto ciglio di fronte all’arresto dei membri del governo
di Hamas, sostenendo de facto i tentativi destabilizzanti di una parte di
Al-Fatha.
Riguardo a questo, la recente formalizzazione del livello di cooperazione tra
NATO e Israele, ridefinisce i rapporti tra i paesi che fanno parte dell’Alleanza
Atlantica e Israele, riallineando i già labili margini di scelta dei governi,
tra cui il nostro, nei confronti di Israele.
Per non parlare dell’appoggio a veri e propri golpe elettorali, che dall’esempio
Jugoslavo fino alla “rivoluzione arancione” in Ucraina e all’onda lunga della
“primavera di Beirut” in Libano, si sono succedute.
L’equidistanza schierata è una
attitudine politica in grado di fabbricare sempre motivazioni ad hoc per
allargare il solco tra i bisogni e le lotte del proletariato metropolitano “qui”
e la lotta dei popoli della periferia integrata, o in via di integrazione, “là”:
soprattutto quando sono anche gli interessi dell’imperalismo made in Italy a
essere messi in gioco dalla resistenza.
Non vede come il proletariato immigrato, che proviene dalle aree attraversate
dalla dinamiche di guerra/resistenza sia all’interno dell’attuale composizione
di classe un referente imprescindibile per qualsiasi mobilitazione in generale
ed in particolare quella contro la guerra, rifiutandosi di confrontarsi con
quelle che sono le espressioni organizzate che si muovono sul piano
politico-militare nelle zone interessate all’occupazione militare o alle
strategie di “instabilità costruttiva” dell’imperialismo, e che sono i naturali
referenti politici di significative porzioni di immigrati.
Quando non viene additata la scusa della scarsa comprensione del fenomeno
resistenziale: chi fa cosa e con quali prospettive, sebbene siano proprio i
resistenti a chiarire chi siano, cosa fanno e con quali prospettive; si
enfatizza la distanza tra “qua” e “là” facendo riferimento a “valori
universali”, concezione tipicamente euro-centrica e filo-occidentale della
sinistra del “Primo Mondo”, salvo però non dire che i popoli che lottano contro
l’imperialismo riconoscono di avere innanzitutto un nemico comune e di essere
per questo uno accanto all’altro.
Tutto questo di fronte ad una feroce offensiva “semantica”, che è un tutt’uno
con quella militare tout court, che ha fatto del paradigma dello “scontro di
civiltà” il suo cavallo di battaglia privilegiato nei confronti di tutti coloro
che mettono in discussione l’ordine esistente, nel costante tentativo di far
identificare larga parte della popolazione autoctona nella pratica
segregazionista e guerrafondaia dei governi occidentali.
È così che dalla passata liquidazione del patrimonio rivoluzionario dello
scontro di classe in Europa, ed in particolare in Italia, e del movimento
comunista internazionale, si è arrivati recentemente, nel corso delle
mobilitazioni contro la globalizzazione prima e della guerra poi, alla
santificazione della non-violenza, concepita come il più efficace dei mezzi di
lotta politica, quando per violento viene inteso qualsiasi atto tendenzialmente
incisivo nei confronti dell’attuale ordine sociale, qualsiasi reazione che miri
anche solo ad allentare la costante subordinazione a cui vorrebbero inchiodarci.
Partire dai limiti qui sommariamente elencati, vuole dire innanzitutto porre al
centro dell’agenda politica il loro superamento almeno a livello di impostazione
dei problemi all’interno di una ipotesi di prospettiva organizzativa autonoma.
I limiti di relazione con il proprio referente di classe qui, sempre più
precario e cosmopolita, e con le formazioni della resistenza in tutta l’area
euro-mediterranea, vanno superati nella prospettiva di una convergenza dei
percorsi di liberazione che si esprima ponendo al centro il problema
dell’efficacia della propria azione politica: schierarsi apertamente a fianco
della Resistenza dei popoli è il minimo indispensabile per potere re-impostare
un percorso di mobilitazione contro la guerra imperialista.