SENZA CENSURA N.21
novembre 2006
Mediterraneo allargato: tra imperialismo e resistenza
L’invasione del Libano meridionale ad opera delle
forze imperialiste, mal celate dietro il mandato ONU, in piena continuità con la
politica di aggressione e occupazione dall’Afghanistan all’Iraq, passando per
l’ingerenza interna a paesi dove si risvegliano i desideri di emancipazione,
continua a confermarci la necessità di comprendere quali processi politici,
economici e sociali stanno investendo l’area del cosiddetto «Mediterraneo
Allargato». Quell’area di espansione degli interessi imperialisti che va dal
Marocco fino agli stessi paesi del golfo, in particolare quelli che si
affacciano sul Mediterraneo. Sarebbe certamente un errore guardare questi paesi
staccati da una realtà più globale, cosa che peraltro gli stessi protagonisti
della Resistenza Antimperialista presenti all’interno, nella specificità della
loro battaglia, non fanno. A dimostrazione di ciò lo stesso interesse verso
esperienze anche lontane di opposizione all’imperialismo americano come quelle
che si stanno sviluppando in America Latina.
Dall’altra, come già ribadito nei numeri precedenti sull’argomento, i conflitti,
le resistenze e le trasformazioni che saranno in grado di determinarsi
nell’area, potrebbero influenzare più di altro le possibilità di sviluppo di una
prospettiva di trasformazione anche al centro dell'Europa. Non solo, quindi, la
constatazione dell’incapacità di esportare una prospettiva nella periferia
(qualche nostra “ricettina” da bravi e puri occidentali), ma al contrario la
necessità di dover guardare e comprendere le contraddizioni stesse del nostro
agire nel quadro attualmente determinante della lotta contro i cani imperialisti
portata avanti dalle varie forme di resistenza.
La comprensione di quanto avviene nelle politiche europee e NATO nel
Mediterraneo allargato, che si parli di Euro-mediterraneo o di grande Medio
Oriente, la loro ingerenza nei processi di trasformazione interna ai paesi
coinvolti in queste, le ricadute nei termini di contraddizioni sociali, in
termini di controllo dell’area, è strumento necessario per sviluppare una
maggiore capacità di interazione ed integrazione con la parte di quel
proletariato frutto della diaspora che porta nelle nostre metropoli la
contraddizione stessa delle politiche di aggressione e di deturpazione
perpetuate dall’imperialismo nell’area.
Quando parliamo di Mediterraneo allargato ci riferiamo ad un’area che negli
ultimi anni ha fatto registrare indici di crescita estremamente elevati
(nell’ultimo anno 5,6-6% con la previsione di una sua stabilizzazione per il
2007-2008 intorno al 5,2-5,6%), particolarmente per l’aumento del prezzo del
petrolio, garantendo una cresciuta elevata in termini di disponibilità di
liquidità. Secondo uno studio dell’osservatorio sulle opportunità globali
costituito da ISPI e Università Bocconi, questa crescita ha caratteristiche
sicuramente di disomogeneità concentrandosi particolarmente in quei paesi
esportatori di petrolio (Algeria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran e la
Libia, su cui mancano tuttavia statistiche attendibili). Di questa congiuntura
favorevole hanno risentito in parte anche quei paesi dell’area che hanno in
qualche modo dovuto fare i conti con l’aumento del prezzo del petrolio. L’Egitto
dopo un periodo di stagnazione registra dal 2004 un progressivo aumento della
ripresa economica, e così la Giordania che per questo anno dovrebbe attestarsi
intorno al 6%.
Interessante la valutazione di questo studio su quanto abbia inciso
l’occupazione dell’Iraq nella crescita dei paesi vicini: «Si noti che le
economie regionali hanno beneficiato in vari modi della situazione irachena.
Nella (modesta) misura in cui è stata attuata, la ricostruzione ha gonfiato le
esportazioni dei paesi confinanti. Ma anche l’insuccesso della ricostruzione
irachena ha prodotto benefici. Ad esempio le economie della Giordania e, in
misura minore, della Siria hanno beneficiato dell’afflusso di cittadini iracheni
a reddito elevato, che vi si sono stabiliti o quanto meno vi hanno trasferito la
famiglia (stimolando la domanda di abitazioni e servizi di lusso) e i patrimoni
(rafforzando il sistema finanziario giordano e, attraverso la Siria, libanese).
Non vanno poi dimenticati altri effetti economici della guerra che non
riguardano i flussi interregionali. Ad esempio, la Giordania ha ricevuto aiuti
addizionali dagli Stati Uniti mentre l’Egitto ha beneficiato di un forte aumento
delle entrate del Canale di Suez, motivato prima dallo sforzo bellico e poi
dall’aumento del prezzo del petrolio, che ha incentivato l’utilizzo del Canale
per raggiungere più rapidamente i mercati europei».
Lo studio rileva che più lentamente questa tendenza si sta propagando verso i
paesi del Magreb come Algeria e Libia che stanno utilizzando con estrema cautela
le rendite dovute alle esportazioni petrolifere, almeno in funzione di una
crescita regionale.
Altro aspetto interessante è l’analisi per la quale ad oggi i paesi esportatori
di petrolio si trovano, da un punto di vista finanziario, in una situazione ben
diversa dalla guerra contro l’Iraq del 1991, perché a differenza della
precedente questa guerra non è da loro finanziata attraverso la rendita
petrolifera che rimane a loro disposizione aumentandone così la capacità
politico-finanziaria.
La dimensione regionale può rappresentare un terreno sul quale potrebbero
svilupparsi scenari anche interessanti di opposizione all’imperialismo americano
ed europeo o subalternità a questo, e questa potrà determinarsi all’interno di
un quadro, imperialista o antimperialista, a seconda di chi, nella pratica,
riuscirà a imporsi come testa pensante e imporre all’interno di quale ipotesi
questa dovrà costruirsi. Potrebbero non essere casuali i riferimenti
all’esperienza bolivariana e l’interesse che suscita l’opposizione
all’imperialismo yankee che si è creata attorno a questa. E’ quindi possibile e
probabile la ricerca di una maggiore integrazione regionale in funzione di una
maggiore capacità di contrattazione nel quadro degli interessi imperialisti.
Come peraltro, l’altra faccia della medaglia a cui poniamo il nostro interesse
come militanti, l’integrazione potrebbe svilupparsi all’interno di un quadro in
cui le esperienze di resistenza armata, politica e sociale assumono
collettivamente il ruolo dirigente delle trasformazioni e l’emancipazione dagli
interessi dell’imperialismo. Ma ad oggi questa ipotesi rimane nelle possibilità,
sebbene come vedremo in seguito il fuoco covi sotto la cenere delle macerie
imperialiste, mentre è oggettivo uno sviluppo, anche contraddittorio,
all’interno del quadro imperialista.
Negli ultimi anni - dice l’Osservatorio - sono aumentati in maniera
significativa i flussi valutari regionali, non solo per le maggiori
disponibilità dovute al trend petrolifero, ma in gran parte per un
«antiamericanismo finanziario» influenzato in particolare dalle numerose
difficoltà riscontrate post 11 settembre da parte dei detentori di capitali
dell’area a causa delle numerose restrizioni e controlli su flussi finanziari
provenienti dai paesi arabi. Le borse della regione hanno visto dal 2004 una
crescita che supera in certi casi il 60% con una media che si attesta intorno al
50%. Differente il discorso se affrontiamo lo scambio di merci che, sebbene
abbia visto un logico aumento si attesta ancora, secondo gli studi, su una quota
troppo bassa (intorno al 10% del totale).
Per i paesi dell’area la prima possibilità è stata quella della riduzione del
debito estero in particolare verso quei paesi esterni all’area. L’esempio
dell’Algeria, paese produttore del Magreb, è ritenuto eclatante per il fatto che
oltre a ridurre il proprio debito estero ha accresciuto del doppio le proprie
riserve valutarie. I dati riportano che nel 2004, periodo nel quale era già in
atto l’aumento delle quotazioni, circa due terzi delle addizionali sono state
risparmiate (non allocate nella spesa pubblica) e quindi dirottate sul mercato
finanziario.
Questo insieme di condizioni ha fatto sì che nel 2005 gli investimenti regionali
rappresentassero in termini di quantità il 28 % del totale contro, ad esempio,
il 42% complessivo di tutti i paesi UE. Una quota estremamente superiore se
questa viene presa come dato rapportato al PIL e alla popolazione.
Secondo la banca dati MIPO (Mediterranean Investment Project Observatory), nel
2005 il primo investitore estero nei paesi del Mediterraneo è stata l’Arabia
Saudita con ben 6,8 miliardi di euro di investimenti. In particolare, l’Arabia
Saudita è stata il primo investitore estero in Turchia e Libano e il quarto in
Egitto. Sempre nel 2005 gli Emirati Arabi Uniti (EAU), con 2,6 miliardi di euro
complessivi, sono stati il primo investitore estero in Giordania, il secondo in
Egitto, Marocco e Siria, e il terzo in Libano. I paesi del Golfo hanno poi
nettamente superato l’America del Nord (16% degli investimenti totali nel
Mediterraneo).
In secondo luogo, il forte aumento degli investimenti esteri, dal Golfo e dal
resto del mondo, è molto importante perché evidenzia la crescente attrattività
dei paesi mediterranei. Sempre secondo la banca dati MIPO, nel 2005 gli
investimenti esteri nei paesi mediterranei hanno toccato i 44 miliardi di euro
contro i 20 miliardi del 2004 e i 10 miliardi del 2003.
Da un punto di vista geografico, Turchia e Vicino Oriente arabo rappresentano la
destinazione privilegiata, insieme al Marocco, a cui le monarchie del Golfo sono
legate da una vicinanza politica e istituzionale. Nel resto del Maghreb, invece,
gli investimenti dei paesi del Golfo sono piuttosto limitati, con l’eccezione
dell’investimento kuwaitiano nella telefonia algerina.
Il NATO Defence School ha dedicato ampio spazio al dibattito sulla cooperazione
tra paesi del Magreb, ritenendola come uno degli elementi attraverso il quale
può realmente prendere forma una reale integrazione con i paesi esterni all’area
stessa.
Il documento dal titolo «Le Maghreb Stratégique» individua alcuni punti critici
del percorso di integrazione nel sistema globale dei paesi dell’area: - le
debolezze attuali della cooperazione regionale; - le evoluzioni contrastate dei
regimi politici e delle società del Magreb. All’interno ci si preoccupa di
ricordare innanzitutto il contesto storico nel quale l’idea anche di un’unione
del Magreb si è imposta ai nuovi stati indipendenti. La specificità delle lotte
di liberazione nazionale, le contraddizioni tra le solidarietà anticoloniali e
gli interessi nazionali particolari, le scelte politiche ed economiche diverse
di ogni paese della regione hanno contribuito a trasformare il Magreb “in una
realtà scoppiata”. Toccati dagli effetti della mondializzazione e della fine
della guerra fredda, forzati a riconsiderare il loro sistema d’alleanza, i paesi
del Magreb per pesare nella regione ed imporsi come un interlocutore di peso di
fronte agli Stati Uniti ed all’Unione europea, devono attuare con successo la
loro integrazione regionale. Il documento prosegue affermando che occorre agire
su tutti i fronti: garantire la complementarità delle loro economie,
democratizzare i loro regimi politici, sostenere le evoluzioni delle loro
società verso la modernità. Conclude che occorre tuttavia concentrarsi su due di
questi fronti: rafforzare la dinamica del partenariato euromediterraneo,
indispensabile perché il Magreb attui con successo gli adattamenti politici,
economici e sociali necessari; dinamizzare gli sforzi d’integrazione regionale,
ancora troppo timidi ed impregnati di nazionalismo per permettere ai paesi del
Magreb di costituire una massa critica politica ed economica sufficiente. In
caso contrario, è l’«Islamismo» radicale che confischerebbe il grande obiettivo
di realizzazione di un “Magreb dei popoli” al di là del “Magreb degli stati”.
Il peso economico, politico e strategico del mondo arabo, secondo gli estensori
del documento, rimane scarso a causa della sua incapacità di collegarsi e
integrarsi, e ciò nonostante due elementi: da un lato una retorica statale,
consumata fino all’osso, che fa appello alla classe ed alla solidarietà araba, e
dall’altro una sensazione molto forte d’appartenenza e d’identità del mondo
arabo che oltrepassa le situazioni nazionali particolari. Questa sensazione
d’appartenenza delle popolazioni è ritenuta il motore sotterraneo permanente dei
quadri di cooperazione.
Secondo alcuni interventi presenti all’interno del
documento la cooperazione regionale non può infatti esistere nell’assoluto: i
suoi obiettivi, la sua pertinenza e le sue condizioni di sviluppo dipendono
soprattutto dalla situazione geopolitica e strategica nella quale si trova ogni
regione in questione. Da questo punto di vista, la situazione del Maschrek è
ritenuta nettamente più preoccupante di quella del Magreb: gli stati arabi del
Maschrek, esposti alle interferenze esterne, in particolare quelle degli Stati
Uniti, «disturbati» dal peso militare di Israele, hanno sviluppato una
“posizione di bunker”, una psicologia di assediati. E’ loro pensiero che non ci
può dunque essere cooperazione regionale senza due elementi essenziali: da un
lato un contesto di pace e di stabilità, dall’altro l’integrazione coerente di
Israele in ogni cooperazione così istituita. Una proposta è di articolare tre
quadri regionali di cooperazione: il Magreb arabo, cioè i cinque stati membri
del UMA (Unione del Magreb Arabo), gli stati del golfo, che raccoglie i membri
del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) e Yemen, infine il Maschrek
centrale, che raccoglie i paesi vicini di Israele, compresa la Palestina e
l’Egitto. Quest’ultimo paese costituirebbe del resto, a causa della sua
posizione e del suo peso strategico, un ruolo fondamentale di collegamento tra
il Maschrek centrale ed il Magreb.
Viene affrontata la questione delle evoluzioni contrastanti, riferite agli
interessi di sviluppo capitalistico, delle società e dei regimi, che determina
l’immobilismo politico delle istanze decisionali; il che risulta essere sempre
più mal sopportato da una «società civile» in espansione, la quale rischia di
trovare nel radicalismo politico e religioso la sola forma d’espressione di
frustrazioni troppo a lungo contenute. Si insiste sulla differenza crescente tra
una retorica ufficiale fatta di slogan derivati dalla guerra fredda e le
evoluzioni di fondo, prendendo come esempio la società marocchina: miseria
sociale, esplosione demografica ed urbana, disoccupazione dei giovani ed in
particolare dei giovani laureati. Facendo riferimento al Marocco affermano che:
«Se il regime ha saputo coraggiosamente affrontare la questione dei diritti
umani e della memoria di “anni di piombo”, in particolare con l’instaurazione
dell’istanza di equità e riconciliazione, la sua azione resta molto
insufficiente in materia di trasformazione economica e sociale, ambito che
diventa così il bacino di islamisti e di altre forze che volgono al loro conto
rivendicazioni fondamentali d’identità e di giustizia sociale».
Il documento consegna un’analisi delle evoluzioni delle società del Magreb
centrale (Algeria, Marocco e Tunisia) prendendo come riferimento quattro
settori: la transizione demografica, l’istruzione, l’occupazione ed il ruolo
delle diaspore. Fa osservare che le società dei tre paesi evolvono spesso nello
stesso senso, anche se ciò è realizzato secondo ritmi leggermente spostati, e
ciò indipendentemente dalle politiche statali. Ribasso della natalità e
arretramento dell’età del matrimonio sono constatati nei tre paesi, senza che i
governi traggano conclusioni di tale evoluzione in materia di diritti della
donna, ad esempio. Per quanto riguarda il settore dell’istruzione, afferma che
gli effetti combinati dell’esplosione demografica di ieri, della
generalizzazione dell’insegnamento e di una politica linguistica troppo a lungo
ideologica (arabo contro francese) comportano conseguenze inattese. La
disoccupazione massiccia e l’assenza di rete sociale garantita dallo Stato
favoriscono a loro volta lo sviluppo di tutta una economia informale e di un
sistema di “astuzia” generalizzato nel quale la solidarietà familiare e
comunitaria prevale. Il documento continua affermando che i modi di vita si
trasformano rapidamente sotto il peso dell’influenza della diaspora,
dell’apertura ad internet e della moltiplicazione delle antenne paraboliche.
L’attuale leadership politica è figlia dell’accaparramento e
dell’occidentalizzazione e fa della paura del terrorismo l’arma per consolidare
il proprio potere. «Così, società e regimi sembrano vivere su due pianeti
diversi, fino al momento in cui le contraddizioni diventeranno troppo forti e
genereranno scossoni destabilizzanti e che saranno innescati dalla pressione
della piazza in alcuni paesi, o dall’azione dei gruppi estremisti in altri».
Le difficoltà sono emerse chiaramente durante gli incontri tra i paesi
Euromediterranei in occasione dei 10 anni dal lancio del Processo di Barcellona,
attraverso il quale è stato avviato il processo di integrazione euromediterraneo.
Difficoltà che modificano sensibilmente l’ottimismo iniziale e hanno riguardato
la quasi totalità dei piani sui quali andavano ad intervenire (economico,
finanziario, riforme, democratizzazione) dovendo constatare che il progetto
Euromed si trova in una sorta di limbo che rischia di far prevalere gli
interventi dei singoli paesi europei al di fuori della dimensione dell’unione.
Sebbene prevalgono ad oggi difficoltà, queste non modificano nella sostanza la
volontà di rilancio, e per questo ci sembra importante quanto emerso come
proposta parallelamente al vertice di Barcellona. Non ne conosciamo pienamente
la portata, ma nella sostanza appare una proposta che può in ogni modo fornirci
spunti interessanti, insieme alla proposta «Per la costruzione di una Alleanza
di Resistenza Popolare Araba» che abbiamo pubblicato nel numero 17 di SC, per
trovare strumenti pratici di interazione e coordinamento tra la resistenza
all’interno dell'Europa e quella, ben più proiettata in avanti, presente
nell’area mediterranea sud ed est.
La Campagna «No al Mediterraneo del Capitale, No alla guerra, Alternativa a
Barcellona +10» nel suo manifesto di costituzione [vedi riquadro in basso]
denuncia chiaramente quanto i paesi europei sviluppino una politica di
aggressione neocoloniale nei confronti dei paesi del sud ed est del Mediterraneo
occultata dietro un poco credibile sviluppo e democratizzazione. Tale processo
ha provocato un aumento della disoccupazione, ulteriori restrizioni dei diritti
civili, l’aumento delle diseguaglianze, la privatizzazione dei servizi pubblici;
sta impoverendo le risorse a disposizione della sicurezza sociale, è alla base
di una regressione in materia di legislazione del lavoro colpendo
particolarmente le condizioni di vita e di lavoro di giovani e donne. I
finanziamenti Meda (finanziamenti nel quadro euromediterraneo) sono stati
utilizzati non tanto per la creazione di uno sviluppo sostenibile nei paesi del
sud ma per sostenere i programmi di aggiustamento strutturale dettati da FMI e
Banca Mondiale. Le multinazionali agroalimentari hanno profondamente minato
l’economia agricola e alterato gravemente gli ecosistemi dell’area. La politica
di appoggio alla guerra in Iraq, alla difesa di Israele e alla politica dei
muri, e il rafforzamento della presenza militare nell’area, rappresentano i
tasselli della politica europea nei confronti dei popoli del Mediterraneo. Non
manca l’appoggio ai regimi dittatoriali o pseudo-democratici (come Mohamed VI)
ai vari governi israeliani, passando per El Assad, Mubarak, Ben Alí, e Buteflika,
mentendo quando parlano di avanzamento della democratizzazione e dei diritti
umani. Nella realtà esigono la mano dura nei confronti della crescente
ribellione dei lavoratori delle città, dei contadini e degli studenti che si
mobilitano per i loro diritti a Rabat e al Cairo.
Queste contraddizioni si legano profondamente a quanto sta determinando nelle
masse arabe l’aggressione nei confronti di Libano e Palestina da parte di
Israele, oltre alla chiara percezione che la missione ONU sia portatrice nella
realtà di un dispiegamento di forze nella regione pronte ad aprire altri fronti
di guerra.
«Allo slogan gridato nelle strade arabe “Senza Giustizia Nessuna Pace” occorre
aggiungere quello “Nasser 1956, Nasrallah 2006: la dignità”; un parallelismo che
emerge nelle aspirazioni popolari arabe, in cui il nazionalismo si oppone al
neo-settarismo religioso che gli USA pretendono di favorire, per controllare
meglio i paesi arabi. Mentre si mette a nudo l’incapacità dell’esercito
israeliano di sconfiggere Hezbollah, e si manifesta la resistenza dei
combattenti libanesi per far fronte all’aggressione, le strade arabe sono
entrate in una situazione simile a quando si mette al fuoco un bollitore
d’acqua: è stato riscaldato poco a poco fino ad arrivare al punto d’ebollizione.
Significative sono state le manifestazioni in Egitto, dove i fratelli musulmani
si mescolavano con la sinistra del movimento Kefaya (Basta), dove le immagini di
Nasrallah si mescolavano con quelli di Nasser e del Che. Ovunque nel mondo arabo
centinaia di manifestazioni, ogni giorni più partecipate, hanno percorso le vie
con un grido unanime: “Senza giustizia Nessuna Pace”. Questo concetto positivo
di pace che allarma tanto l’imperialismo in qualsiasi parte del mondo:
risoluzione delle cause che producono il conflitto…»
(Alberto Cruz, El grito de la calle árabe: “sin justicia no hay paz”, CSCA)