SENZA CENSURA N.20
luglio 2006
“Banditi” a Milano…
Lettera aperta di alcuni antifascisti dell’11 marzo a Milano
Pubblichiamo questo contribuito che vuole essere
uno stimolo al dibattito sul significato politico di quella giornata e su tutto
ciò che a tale mobilitazione è connesso.
Questo intervento si pone all’interno del percorso che ha portato alla
mobilitazione anti-fascista dell’11 marzo a Milano rivendicandone pienamente il
suo senso più profondo e ha il fine di contribuire a sviluppare la più ampia
solidarietà militante nei confronti dei compagni e delle compagne arrestati.
Pensiamo che l’iniziativa di sostegno ai detenuti/e è la naturale continuazione
della responsabilità politica assuntasi con quella manifestazione.
L’opera di falsificazione e linciaggio mass-mediatico e la condanna politica ha
riguardato tutti gli organi di informazione, così come tutte le forze
istituzionali, che si sono adoperate per non far emergere il carattere
antifascista della mobilitazione, e che insieme ai numerosi fermi tramutati in
arresti, hanno contribuito a rendere impegnativa la difesa e la comunicazione
dell’iniziativa intrapresa e ad ostacolare un bilancio che fosse un prodotto di
una riflessione autonoma e collettiva da socializzare.
È per questo che un tentativo di bilancio è un passaggio obbligato nella
sedimentazione di un patrimonio di esperienze che ponga la lotta per la radicale
trasformazione dell’esistente come sbocco necessario, determinando un piano del
confronto tra compagni non inquinato né da logiche “emergenziali” legate ad una
visone miope dello scontro sociale, né dagli apparati politici istituzionali e
dalla loro filiera clientelare all’interno dei movimenti politico-sociali.
Le formazioni neo-fasciste sono la testa di ponte
per l’affermazione di politiche di ancora maggiore subordinazione del
proletariato nei confronti della borghesia, sono la punta di lancia di una
modalità di risoluzione squadrista delle contraddizioni sociali nella loro
“pericolosa” saldatura con quelle forze soggettive che mirano ad una
trasformazione dell’esistente.
Se le formazioni fasciste sono nate più di ottant’anni fa per distruggere il
movimento proletario e le sue espressioni più avanzate, ora esistono anche
affinché questo non si costituisca come soggetto politico autonomo, affinché chi
lotta non incontri stabilmente chi possa dare maggiori strumenti di
comprensione, meno estemporanee ipotesi di organizzazione e un conseguente
orientamento rivoluzionario: oggi la loro traiettoria contro-rivoluzionaria non
è postuma ma preventiva.
Il peso di queste formazioni non dipende solo dalla loro consistenza numerica ma
dal fatto di essere strumenti di un processo di controrivoluzione preventiva di
cui sono la più coerente espressione: dalla lotta all’immigrazione
“clandestina”, alla restaurazione dei dettami della gerarchia cattolica sulle
nostre vite, dalla subordinazione di genere al neo-colonialismo. La loro
convergenza e connivenza con le forze della destra istituzionale ne è una
conseguenza, la loro tolleranza da parte della sinistra istituzionale non è
dovuta solo alla “ipocrisia” democratica ma al fatto che, con gradi e sfumature
diverse, alcuni campi di battaglia politica della sinistra sono gli stessi delle
formazioni neo-fasciste...
Queste battaglie politiche preparano il terreno alla mobilitazione reazionaria
di massa, che ha come coagulante un blocco che vuole porsi al centro
dell’iniziativa politica securitaria, segregazionista e guerrafondaia, chi tenta
di contrastare tale tendenza deve essere messo nelle condizioni di non potere
nuocere.
Ma se è vero che in questi ultimi anni stiamo assistendo ad una netta ripresa
dell’iniziativa politica da parte di formazioni legate all’estrema destra, è
anche vero che questi fenomeni costituiscono soltanto la punta dell’iceberg di
un processo più esteso ed articolato di fascistizzazione della società che trae
alimento soprattutto dalle contraddizioni sociali innescate dall’immigrazione in
un contesto di crisi economica generalizzata, di disoccupazione strutturale e di
precarietà diffusa.
E’ un fatto che il crescente utilizzo di manodopera immigrata, mantenuta
forzatamente in una condizione di costante ricatto e assoggettamento, e i
processi di delocalizzazione produttiva nei paesi dove è più basso il “costo del
lavoro”, costituiscono un forte strumento di riduzione generalizzata dei salari
e di inasprimento complessivo delle condizioni lavorative che divengono sempre
più precarie e flessibili.
Di fronte allo scenario di forte instabilità sociale che va prefigurandosi
l’unica soluzione proposta consiste nel rilancio della competitività e della
produttività del lavoro da perseguire, per forza di cose, attraverso politiche
di riduzione dei salari, di smantellamento delle garanzie e dei sistemi di
protezione delle fasce sociali più deboli, di privatizzazioni, di trasferimento
di risorse al grande capitale, di rilancio dell’impegno bellico come fattore
strategico necessario all’accaparramento di risorse energetiche e al controllo
di importanti vie di comunicazione.
L’efficacia di queste politiche dipende dalla continuità nel tempo di questi
processi e dunque su di una maggiore stabilità ed autorità dei governi in carica
a discapito della loro effettiva rappresentatività e della stessa mediazione
parlamentare.
Questa svolta autoritaria si accompagna ad una crescente militarizzazione della
vita e delle relazioni sociali, soprattutto in chiave preventiva, attraverso un
massiccio impiego delle forze dell’ordine, la cooptazione di ampi settori di
lavoro sociale in compiti di ordine pubblico e di sicurezza e una sempre
maggiore pervasività di politiche di controllo territoriale.
In ultimo, ma non per importanza, non possiamo fare a mano di notare l’ampio
ricorso alla detenzione carceraria e alla diffusione e differenziazione delle
strutture adibite a tal scopo nonché alla rinnovata azione di deterrenza che il
carcere – e con esso la tortura – assolvono anche in conseguenza dell’agguerrito
corporativismo sindacale della Polizia Penitenziaria.
Ecco che quindi la pratica squadrista delle formazioni dell’estrema destra si
intreccia con l’azione repressiva vera e propria esercitata dallo stato,
entrambe queste ultime vogliono convincere che il prezzo da pagare per la
militanza politica è alto, troppo elevato rispetto agli obiettivi conseguiti
nell’immediato e che determinati terreni d’intervento sono da lasciare in mano
alle istituzioni in senso ampio.
In un contesto in cui le dinamiche della globalizzazione hanno una regia
transnazionale e ricadute planetarie e dove le direttive europee incidono sempre
più sul corpo della classe di tutto il continente, si vorrebbe ancorare la
giusta salvaguardia delle garanzie sociali complessive ad una prospettiva
nazionale di difesa e di contrapposizione tra “nativi” e “stranieri”, se non
addirittura a riferimenti ancora più strettamente localistici.
Questo approccio ha aperto ed apre tuttora degli spazi alla “destra sociale” e
inquina il terreno della ricomposizione politica di classe nelle lotte,
negandone a priori l’orientamento internazionalista e favorendone invece
l’atteggiamento corporativo e l’arroccamento delle rivendicazioni allo
sciovinismo metropolitano, che sono il terreno di cultura del fascismo vecchio e
nuovo e trasformano il mare sociale in cui noi dovremmo “nuotare come pesci” in
una palude inquinata in cui riusciamo solo a intossicarci...
In questo modo anziché aprirci ad una concezione che amplia i nostri orizzonti
almeno allo spazio euro-mediterraneo e alle dinamiche che in esso si sviluppano,
contribuiamo allo sviluppo della fortezza Europa, nella sua versione di Europa
sociale per molti(?) ma non per tutti, o rischiamo di ricadere in un localismo
facile preda delle fauci dell’opportunismo.
Si sa la crisi inasprisce le contraddizioni sociali, accelera la polarizzazione
politica, “drammatizza” lo scontro, è proprio in questo contesto che le parole
di Ernst Bloch tornano attuali: “L’errore stava in ciò che i comunisti non hanno
fatto. Il non fatto rappresenta una lacuna e la sua forza d’attrazione era
straordinaria [...] i comunisti poi, non hanno saputo vedere la ferita, non
hanno saputo ascoltare la voce confusa di un’epoca in cui il capitalismo non
godeva affatto di buona salute. Fu così che i nazisti poterono inventare una
cosa del tutto inedita. Il radicalismo di destra”.
I giovani proletari qui, come altrove, fanno tremare i piani del capitale quando
“scendono in campo” e giocano una partita che i borghesi vorrebbero truccata e
tutta piegata ai loro meschini fini elettorali.
L’offensiva fascista stenta a trovare una risposta adeguata anche a causa della
criminalizzazione di ogni pratica di auto-difesa e dello svuotamento della
capacità di analisi in grado di ponderare quale sia il peso reale delle
formazioni neo-fasciste nel più complesso fenomeno di fascistizzazione della
società, nonché a causa di un deleterio atteggiamento attendista e di delega nei
confronti dei partiti che si dicono “antifascisti”.
Ma sarebbe un errore scaricare tutta la responsabilità sui partiti e i sindacati
della compagine istituzionale sedicenti di sinistra. E certo non perché essi non
assolvano, da svariati decenni, ad un ruolo funzionale agli appetiti padronali e
quindi complementare agli interessi storici della destra ma essenzialmente
perché, proprio per questo motivo, non dovrebbero godere della nostra fiducia
né, in generale, della fiducia, di quella dei proletari.
Infatti, una volta che è stata abbandonata completamente ogni ipotesi di
trasformazione rivoluzionaria della società capitalista, non resta che il piano
delle compatibilità con questa, dei compromessi, dell’assunzione di
responsabilità verso il capitale e i suoi amministratori, la politica dei
sacrifici, la guerra di rapina e la spartizione fra potenze imperialiste, la
real politik insomma. Ma è nei periodi di crisi – quando gli spazi di
contrattazione tendono a ridursi e con essi anche la capacità di mediazione
istituzionale dei conflitti in senso riformistico – che si assiste alla
capitolazione più ipocrita di queste forze sul terreno della reazione.
Se da un lato si assiste da anni al tentativo costante di riabilitare il
ventennio fascista, relativizzandone i crimini di cui si è macchiato contro il
movimento operaio e rivoluzionario, contro le popolazioni che ha tentato di
assoggettare e nell’oppressione di genere che ha rafforzato, per legittimare gli
attuali crimini della democrazia (in perfetta continuità con quelli fascisti),
dall’altro si cerca di svuotare l’antifascismo che diviene sempre più un valore
astratto, svuotato da ogni significato di pratica concreta inserita in un
percorso di liberazione. Tutto questo proprio quando una sorta di neo-moderno
maccartismo, non solo in chiave propagandistica, criminalizza le dottrine
sovversive comuniste e anarchiche o le lotte di liberazione nazionale e di
giustizia sociale. Proprio quando la feccia fascista viene definitivamente
sdoganata in un superamento da “destra” della già deleteria logica degli opposti
estremismi ed i contenuti della propaganda fascista acquistano piena legittimità
democratica (basti pensare alla questione delle Foibe o dell’ “Esodo” degli
italiani dall’Istria e dalla Dalmazia o alle tesi sulla “Difesa della Razza”).
Senza maturare strumenti adeguati e senza collocare la propria azione in una
prospettiva spaziale e temporale più ampia, contestualizzando il qui e ora della
propria pratica, la cappa che incombe su di noi ci appare troppo gravosa e lo
scotto in termini repressivi troppo pesante, ma se ci si pensa come parte
integrante di un movimento internazionale di resistenza con una prospettiva di
trasformazione dell’esistente la percezione di sé cambia radicalmente e si
scopre che Parigi, Bastia, Bilbao e persino Baghdad non sono così distanti.
Occorre riaffermare la centralità dell’analisi politica e della pratica
militante non solo tesa a intervenire in ogni contraddizione sociale in cui i
fascisti tentano di inserirsi, in special modo nelle fasce di proletariato
metropolitano autoctono in bilico tra la precarietà sociale e l’emarginazione
tout court, così come tra le fasce relativamente protette della working class,
non solo impedendogli di apparire pubblicamente e politicamente, e di difenderci
noi praticamente, ma ridando senso e sbocco ad una pratica e ad una prospettiva
di rottura e ricomposizione.
L’antifascismo non è e non è mai stato una sorta di “guerra tra bande” tra
“neri” e “rossi” funzionale alla strategia della tensione, ma un terreno di
intervento e di crescita di generazioni di militanti che hanno cacciato i
fascisti dalla fabbriche, li hanno contrastati nei quartieri, li hanno
affrontati in piazza e in strada proprio perché questi sono e saranno gli
sgherri peggiori della reazione: il loro ruolo nelle varie stragi di stato e
l’opera di sicariato politico contro i compagni non saranno mai dimenticate né
perdonate dal proletariato!
Noi non dobbiamo dimenticare che il nostro belpaese è stata la culla di un
moderno movimento internazionale: il fascismo, appunto, che è servito da modello
per l’instaurazione di feroci dittature e di movimenti autoritari in tutto il
mondo, né dobbiamo dimenticarci del tributo di sangue pagato dal proletariato
internazionale per liberarci dalla peste bruna, né tanto meno di chi ha
amnistiato i fascisti e gli ha permesso di riciclarsi mentre la repressione
cominciava a colpire i partigiani!
A Milano, l’11 marzo, ci siamo trovati nuovamente di fronte a forze dell’ordine
che agiscono come vere e proprie forze di occupazione in una città assediata e
che hanno probabilmente maturato la loro esperienza anche in contesti di
occupazione neo-coloniale, oltre a situazioni di tutela dell’ordine pubblico in
conflitti sociali: dagli sgomberi di case occupate alle manifestazioni anti-tav,
dalla repressione degli operai in lotta fino alle varie manifestazioni che in
questi ultimi anni si sono succedute da Napoli e Genova 2001 in poi, più o meno
grandi, più o meno represse.
Ciò che ci preme di dire è anzitutto che molte delle discussioni nate
all’indomani di quella giornata di lotta sono state innescate dalla reazione
repressiva dello stato e dall’attività intimidatoria e ricattatoria che ne è
scaturita anche attraverso un’informazione sempre più omologata sugli interessi
borghesi e pertanto priva di punti vista critici e alternativi.
In altre parole, non si è sufficientemente verificata la capacità di mantenere
un punto di vista indipendente ed autonomo, che nonostante le differenze, che
certo non nascono con l’11 marzo, fosse in grado di ribadire anzitutto un senso
di appartenenza ad un movimento che va ben oltre la specifica giornata, le
provenienze geografiche e le aree militanti che lo compongono. La compattezza e
la determinazione mostrata nel portare l’attacco ai banditen di Milano
richiedeva – e lo richiede tuttora – un’eguale – se non maggiore – compattezza e
determinazione nel rivendicare la propria radicale e intransigente opposizione
non solo alla parata fascista ma a tutto ciò che essa allude e prelude e che
abbiamo cercato fin qui di descrivere.
Le cariche di polizia, gli arresti, l’opera di criminalizzazione, la gravità dei
reati contestati, la carcerazione preventiva e le minacce di nuovi arresti e di
ulteriore repressione non rappresentano soltanto la conseguente reazione
repressiva, meccanica, agli eventi dell’11 marzo sul piano giuridico e
dell’ordine pubblico. In tale azione è altresì possibile ravvisare il tentativo
di orientare il dibattito e la riflessione fra i compagni, circoscrivendoli a
quella giornata, nota ai più attraverso le ricostruzioni fornite dagli organi di
polizia e amplificate dai media.
Lo scenario che è stato rappresentato – che probabilmente per ragioni elettorali
non è stato quello degli opposti estremismi, della guerra fra bande, che avrebbe
comunque mostrato la natura politica della vicenda e, così, responsabilizzato le
istituzioni – ha avuto come cardini l’utilizzo insensato, spropositato e
indiscriminato della violenza (bambini che mangiano vetri nei loro panini,
macchine ed un’edicola incendiata, la bomba piena di chiodi) e il provato
isolamento dei manifestanti (il linciaggio da parte della “gente”) dei quali
vengono via via indicate le rispettive strutture politiche di appartenenza.
Certamente, trattandosi di ricostruzioni false e punti di vista faziosi, non
hanno trovato riscontro all’interno degli ambiti del movimento antagonista ma
tuttavia hanno conseguito l’obiettivo di ridimensionare la capacità di
iniziativa autonoma, delimitando il campo della critica e dell’analisi politica
sul terreno definito dalle esigenze e dagli interessi della controparte, sia di
centro-destra che di centro-sinistra.
Un terreno nel quale non possiamo che “giocare” un ruolo di difesa passiva; dove
dobbiamo, anzitutto, dar conto dei nostri limiti per poter giustificare i nostri
eventuali sbagli. Una pubblica ammenda, col sapore dell’autocritica collettiva,
che serva anzitutto a rimuovere il significato politico, di critica pratica
autonoma che si manifesta come rottura, che quella giornata di lotta ha espresso
ed, eventualmente, a lenire la durezza dello stato nei confronti degli arrestati
e dei passibili di arresto.
E’ chiaro che da questa posizione di sostanziale subalternità al punto di vista
borghese non è possibile discutere di metodi e forme di lotta incisivi, di
pratiche efficaci di autodifesa collettiva, di utilizzo della violenza senza
generare al contempo divisioni e ulteriore frammentazione negli ambiti di
movimento che si troverebbero costretti ad affrontare questo necessario
confronto, incalzati, loro malgrado, dalla spinta dell’azione repressiva dello
stato.
In gioco c’è la possibilità di costruzione di uno spazio autonomo di confronto e
di iniziativa in grado di saldarsi con le contraddizioni sociali latenti ed
esplosive nella metropoli e con le espressioni più avanzate della lotta di
classe nella Fortezza Europa e non accontentarsi di un ruolo di nicchia relegato
ad occuparsi in un certo modo di alcune questioni specifiche perfettamente
collocabili all’interno di una “corretta” e “leale” opposizione all’esistente,
una nicchia in grado di rappresentare i conflitti, che le istituzioni lasciano
rappresentare.
La difesa del significato politico di quella giornata e la capacità di tenuta di
una critica pratica autonoma è anche una delle migliori garanzie di salvaguardia
dei compagni e delle compagne arrestati/e.
Libertà per i compagni e le compagne arrestati/e
Libere/i tutte/i
La libertà non ha la tessera di
nessun partito |