SENZA CENSURA N.20

luglio 2006

 

I nostri ultimi 20 anni

Appunti per un’analisi e il rilancio dell’iniziativa di lotta nel settore metalmeccanico (parte prima)

 

Pubblichiamo il contributo di alcuni lavoratori di Sesto San Giovanni, che verrà contenuto in maniera più completa in un opuscolo di prossima pubblicazione. Data l’ampiezza dell’argomento, abbiamo deciso di pubblicarlo in due parti; il periodo che analizziamo in questo numero è quello che va dal 1994 al rinnovo del 2001.

Introduzione
Questa breve ricerca rappresenta la sintesi dei contratti dei lavoratori metalmeccanici della grande industria dal 1994 al 2006, e cerca di approfondire in particolar modo le parti riguardanti orari, diritti e salari.
Da sempre la categoria dei metalmeccanici ha cercato di rappresentare una propria conflittualità ad ogni sperimentazione sulle varie forme di sfruttamento e flessibilità avanzate dalle forze padronali; dal superamento dell’articolo 18 alla compressione dei salari, dal patto per l’Italia all’ attacco al diritto di sciopero, i padroni si son sempre trovati a dover affrontare una parte consistente di lavoratori fortemente contraria e i lavoratori metalmeccanici sempre in prima fila.
Le lotte del movimento dei lavoratori, e quello metalmeccanico in particolare, hanno segnato la storia del nostro paese, dagli scioperi nel periodo fascista, determinanti per la liberazione dal nemico nazifascista, alle manifestazioni di fine anni 60 per la conquista dello statuto dei lavoratori.
Il 1969 è l’anno dell’autunno caldo, così chiamato perché in quella stagione si tengono grandi lotte che si concludono con una grande manifestazione nazionale dei metalmeccanici il 28 novembre, a Roma. Viene firmato il contratto nazionale. I risultati più importanti sono: aumenti salariali uguali per tutti, riduzione a 40 ore dell’orario di lavoro a parità di salario, riconoscimento del diritto di assemblea in fabbrica durante l’orario di lavoro, riconoscimento dei rappresentanti sindacali aziendali.
Poi gli anni 70. Le organizzazioni metalmeccaniche Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil si uniscono nella Federazione lavoratori metalmeccanici (Flm). Nel 1973 viene firmato un altro importante contratto nazionale in cui si ottengono l’inquadramento unico operai-impiegati su 7 livelli, aumenti salariali uguali per tutti, il riconoscimento del diritto allo studio retribuito (le famose 150 ore), 4 settimane di ferie.
Dalla seconda metà degli anni Settanta si sviluppa una nuova offensiva padronale tendente a ripristinare condizioni di primato assoluto nelle imprese. Ancora una volta banco di prova è la Fiat che, nel 1980, annuncia 14.469 licenziamenti incontrando una dura opposizione operaia che si concretizza in 35 giorni di lotta dura.
Per la prima volta in Italia gli impiegati e i capi di una fabbrica si organizzano contro gli operai e tengono una manifestazione a Torino di 20.000 persone. La conclusione della vertenza (23.000 lavoratori in Cassa integrazione) apre una fase incerta e difensiva del sindacato.
La crisi e le ristrutturazioni degli anni Ottanta hanno modificato la struttura industriale italiana. Crescono le piccole e medie imprese e anche quelle dell’artigianato. Aumentano gli infortuni sul lavoro, intere aree industriali delle grandi città scompaiono e questo provoca una lenta ma inesorabile diminuzione degli iscritti al sindacato.
Gli anni ‘90 sono anni in cui sono successe vere e proprie trasformazioni radicali, dai processi di globalizzazione con spostamento di produzioni e capitali verso oriente, all’entrata dell’Italia in Europa, alle guerre ancora in corso, le varie riforme pensionistiche, il protocollo d’intesa tra le parti del luglio del ’93, le sperimentazioni di vero e proprio sfruttamento del nuovo millennio, l’allungamento dei tempi di lavoro ecc, ecc…
Il resto è storia recente e cerchiamo di raccontarla, analizzando passo dopo passo attraverso le ultime vicende contrattuali, soffermandoci su alcuni passi che riteniamo importanti e fondamentali, perché possano rappresentare una lucida presa di coscienza di quanto in questi anni ci è stato tolto.
I lavoratori metalmeccanici possono essere quindi un riferimento di parziale spaccato sociale per leggere ciò che è accaduto in questo ultimo periodo nelle lotte sociali.

I nostri ultimi venti anni
Negli ultimi 20 si è assistito ad un vero e proprio tracollo della classe lavoratrice, sia complessivamente che in natura di salari diritti e orari.
Il referendum abrogativo del 14 febbraio, conosciuto anche come decreto di San Valentino, emesso dal governo Craxi, segna il primo inizio dello smantellamento di quegli automatismi di recupero salariale per difendere il proprio potere d’acquisto. Viene così ridotta, per esser successivamente annullata, la scala mobile e, di conseguenza, il meccanismo che difendeva il potere d’acquisto dei salari dagli incrementi inflazionisitici. Con l’accordo del ‘93 si gettano le basi per un periodo di stagnazione dei salari; la dinamica del salario monetario viene vincolata al tasso d’inflazione programmato e quindi non è più oggetto di contrattazione sindacale.
Per tutti gli anni ’90 si assiste ad una rincorsa del salario per mantenere inalterato il suo potere d’acquisto con esiti catastrofici. Il salario diventa una variabile legata non più ai rapporti di forza e ai veri bisogni della classe, ma dipendente da indici economici generali e risultati aziendali e di settore.
A nulla sono servite le centinaia di assemblee fatte a ridosso delle ferie e nei primi giorni di settembre, al rientro nelle fabbriche. La Cgil guidata da Bruno Trentin, anche davanti alla miriade di disdette di tessere in tutti i settori, in comune accordo con le altre organizzazioni sindacali, sancisce la svendita del patrimonio di conquiste fatte negli ultimi anni da intere generazioni di lavoratori.
Ha inizio così il processo di convergenza verso l’armonizzazione monetaria europea, il cui costo verrà esclusivamente addebitato ai ceti del lavoro dipendente e precario, sia in termini di organizzazione che di salario. In meno di dieci anni dal 1984, col decreto di San Valentino e l’accordo 31 luglio del 1993, si è concluso il processo di deregolamentazione e flessibilizzazione del salario. Viene raggiunto così il vero obiettivo degli industriali, far sì che la variabile salariale venga completamente assoggettata alle esigenze di profittabilità delle imprese.
Ma ovviamente questo ancora non bastava, occorreva agire sulle forme di flessibilità delle assunzioni; il mercato del lavoro, infatti, risultava alla classe padronale rigido e, facendo leva sulla crisi occupazionale, da sempre arma decisiva e immancabile per proporre assunzioni al ribasso, ecco che nasce la legge nota come il pacchetto Treu, allora ministro del lavoro del governo di centrosinistra.
Il completamento della flessibilizzazione e deregolamentazione dei meccanismi di assunzione arriva a totale compimento con la legge 469 del 23 dicembre 1997, che impone il decentramento e la privatizzazione del collocamento e il predominio della chiamata individuale su quella numerica.
In pochi anni il mercato del lavoro in Italia si presenta come quello più flessibile d’Europa e, in tema di tassi di mobilità, non ha nulla da invidiare a quello statunitense. Questo triste primato è essenzialmente da imputare alle forze politiche del centrosinistra e alla concertazione sindacale, proseguita dopo la legge Treu con il Patto di Natale del 1998 e lo sviluppo dei patti territoriali e d’area.
Ora, una volta affossata la richiesta salariale, deregolamentata l’assunzione, occorreva intervenire sulla libertà di licenziamenti e sulle modalità concertative delle relazioni sindacali.
Sarà il neonato governo Berlusconi a continuare l’opera, con la presentazione il 3 ottobre 2001 del libro bianco sul mercato del lavoro in Italia. Nel testo, oltre ad una dettagliata analisi del mercato del lavoro in Italia, vengono proposte una serie di misure di intervento che vertono su tre punti principali:
- Incrementare la flessibilità di assunzione tramite l’introduzione di nuove tipologie contrattuali di lavoro: il lavoro a progetto, a chiamata, staff in leasing,ecc..;
- Sviluppare la flessibilità in uscita, tramite una revisione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300 del 20 maggio 1970): argomento poi che diviene centrale nella delega interna alla Legge Finanziaria per il 2002  in materia di riforma del mercato del lavoro;
- Ridurre la contrattazione collettiva a vantaggio della contrattazione individuale.
Il principi di fondo su cui si sviluppa il Libro Bianco e tutto il processo di flessibilizzazione degli ultimi 15 anni si basa sul primato del libero mercato. Il mercato del lavoro è un mercato come tutti gli altri, dove l’equilibrio è garantito dal libero incontro tra domanda e offerta. Perché ciò avvenga, occorre che vi sia piena flessibilità nella domanda e nell’offerta di lavoro, in modo tale da consentire il raggiungimento di un livello di salario in grado di garantire la piena occupazione (flessibilità del salario). Tutte le parti che compongono il libro bianco, hanno come elemento comune il concetto della libertà del singolo lavoratore, ad esser imprenditore di se stesso. Il superamento quindi di tutti i vincoli determinati dalle contrattazioni collettive. Infatti, si sostiene che la contrattazione individuale sia l’unico ambito che può regolamentare lo scambio  economico che avviene sul mercato del lavoro. Qualunque intervento ad un livello sovra-individuale diventa distorsivo e quindi capitalisticamente inefficiente. E ancora, “Il sistema di contrattazione collettiva ha mantenuto (…) caratteristiche di centralizzazione che si sono rilevate eccessive e inadeguate ad assicurare quella flessibilità della struttura salariale capace di adeguarsi ai differenziali di produttività e di rispondere ai disequilibri di mercato. (…)Essa produce norme che escludono la libera pattuizione individuale e non lascia alcuna flessibilità alle parti”.
Vi sono stati notevoli attacchi successivi e ripetuti alla classe lavoratrice, in alcuni casi parzialmente respinti, come la volontà di eliminare una volta per tutte l’articolo 18 dallo statuto dei lavoratori, per esempio. Ma certo ancora non basta, esistono ancora molti laccioli che devono esser sciolti definitivamente, e si covano qua e là sacche di resistenza corpose di lavoratrici e lavoratori, a detta di molti tutelati e privilegiati, che ancora conservano diritti ormai antistorici e antiquati. La categoria dei metalmeccanici ben rappresenta una parte di quelle sacche di resistenza che ad ogni contratto vorrebbero vedere con le ossa rotte. L’ultimo contratto, durato più di un anno e con 60 ore di sciopero, ne sono un chiaro esempio.
In sintesi questo documento vuole essere Raccolta, Memoria e Strumento politico per poter interpretare meglio ciò che avviene sui luoghi di lavoro, le sue origini le contraddizioni e le risposte date.
Ma vuole anche rappresentare uno strumento utile e di riferimento per molti lavoratori metalmeccanici (e non solo) che in questi anni hanno lottato affinché tutto ciò non accadesse; una ricerca che si trasforma in strumento politico…e fatto circolare sui luoghi di lavoro e nelle realtà sociali con cui poter dare continuità al nostro lavoro comune.

Contratto 1994
normativo quadriennale
Apertura della trattativa: 3 maggio 1994
Chiusura della trattativa: 5 luglio 1994
Il contratto siglato nel 1994 viene ricordato nella storia degli accordi di categoria come il contratto meno indolore e senza ricorrere ad alcuna ora di sciopero.
Rappresenta il primo contratto successivo agli accordi del 93 e viene visto da tutti come una buona base di partenze per delineare le nuove regole della contrattazione tra le parti.
Solo tre mesi sono bastati per discutere ed infine approvare le nuove parti normative, dal maggio al luglio 1994, con una grande assemblea dei delegati con più di 5000 delegati a sostegno della vertenza.
L’approvazione finale è avvenuta tramite un referendum generale a cui hanno partecipato più di 450.000 lavoratori consegnando al si una percentuale superiore all’80%.
Con questo contratto si consolidano quindi le tesi contenute nell’accordo del 1993.
Queste in estrema sintesi le parti importanti definite nell’accordo:
- Riconoscimento della funzione contrattuale in azienda delle Rsu insieme alle strutture sindacali territoriali;
- Definizione del sistema contrattuale su due livelli: nazionale (rinnovo ogni 4 anni per la parte normativa, ogni 2 anni per la parte economica; finalizzato principalmente al mantenimento del potere d’acquisto); aziendale (redistribuzione della produttività secondo criteri stabiliti d’accordo tra le parti a livello aziendale, attraverso il nuovo Premio di Risultato);
- Protocollo di impegno a realizzare la previdenza integrativa;
- Orario: consolidamento delle 39 ore settimanali, flessibilità contrattata;
- Aumento salariale medio di 135.000 lire in tre tranches: 70.000 dal 1° gennaio 1995, 35.000 dal 1° settembre 1995; 30.000 dal 1° gennaio 1996. Una tantum di 450.000 lire in due rate nel 1994.

In questa breve sintesi sopra riportata, emerge come questa intesa ricalchi le parti normative dell’accordo del 1993:
- Viene riconosciuta la funzionalità contrattuale delle RSU (non più Consigli di Fabbrica), elette con un nuovo regolamento tra lavoratori, ma alla partecipazione delle RSU concorrono unicamente le organizzazioni ufficiali nazionali e quindi firmatarie dei contratti nazionali. Emerge quindi da subito la crisi di rappresentanza sindacale e le forme di partecipazione tra i lavoratori che si vedono siglare accordi da organizzazioni sindacali non presenti sui proprio luoghi di lavoro.
- Si delineano i due livelli di contrattazione nazionale (normativa ed economica) e territoriale, dove presenti le RSU. Mentre le richieste economiche di carattere nazionale hanno come riferimento la riduzione del debito dello stato e la stabilità economica all’interno di parametri di carattere nazionale ed europeo, le richieste economiche di livello locale non possono uscire al di fuori di riferimenti economici quali l’andamento complessivo dei prodotti aziendali sul mercato, la loro qualità, le percentuali di difettosità, ecc…sembra quasi che si voglia invitare i lavoratori a partecipare in maniera consociativa alle dinamiche amministrative e di strategia complessiva di mercato delle aziende dove prestano lavoro. I risultati anche in questo casi si sono dimostrati altamente deludenti, con una discesa verso il basso dei salari.
- Si determinano i percorsi che porteranno in seguito alla costituzione delle pensioni integrative e di categoria, tutte le successive proposte di riforma pensionistica, sia quelle avanzate dal sindacato o dalle forze padronali, dalla sinistra come dalla destra, partiranno dal concetto che da ora in poi si avrà a disposizione una parte sostanziale di liquidazione che servirà per armonizzare il prelievo sulle successive pensioni pubbliche erogate dall’Inps. Cometa sarà il nome che prenderà il fondo privato di categoria dei metalmeccanici. Parte così uno dei più grandi business per la gestione di soldi freschi accantonati dai lavoratori noto come TFR, a partecipare a tale euforia saranno in molti, dalle assicurazioni strettamente private a quelle”sociali” come la Unipol, alle banche, finanziarie ecc…
- Viene consolidata la settimana di 39 ore lavorative, infatti si aveva ancora come riferimento una settimana di 48 ore, ma al tempo stesso tempo si inserisce il principio della flessibilità contrattata.
- Nei fatti si vedrà come la settimana lavorata non sia mai stata di 40 ore, e il settore dei metalmeccanici ha da sempre avuto una media di ore lavorative intorno alle 48 ore. Ma ora tutto è lecito e contrattato. Si allunga cosi l’orario di lavoro rientrando comunque nei margini della legalità.

Questo è il periodo in cui anche le organizzazioni sindacali che da sempre si erano distinte, sventolando la bandiera della riduzione dell’orario di lavoro, estremizzando la richiesta a 35 ore, hanno iniziato a dileguarsi facendo sparire tale richiesta dai propri percorsi di rivendicazione.
Ecco come un contratto che ai lavoratori è arrivato quasi senza accorgersene, ha nella realtà sancito linee guida importanti per tracciare il nuovo percorso consociativo e partecipativo.
Solo col tempo ci si accorgerà di quanto danno questi passaggi “indolori” hanno causato a tutti i lavoratori metalmeccanici.

 

Contratto 1997
economico biennale
Apertura della trattativa: 2 maggio 1996
Chiusura della trattativa: 4 febbraio 1997
Il clima è di nuovo conflittuale e ci vorrà quasi un anno dalla presentazione della piattaforma per giungere alla firma. Tra gli scogli, il tentativo di Federmeccanica di far saltare la contrattazione aziendale.
Sono anni di lacrime e sangue, dove si prepara l’entrata del nostro paese nel gruppo di testa della moneta unica europea. Anni governati da Prodi e dal centrosinistra, con Bassolino come ministro del lavoro che ha svolto un ruolo di mediazione nella stretta finale.
Come spesso accade, viene utilizzato il contratto dei metalmeccanici per ottenere misure di politica economica favorevoli (fiscalizzazione al Sud, decontribuzione della contrattazione aziendale, riduzione degli oneri sociali, sostegno a determinati settori come l’auto).
Con il contratto del 1997 ci si accorge di come la tanto paventata formula partecipativa e consociativa scritta e sbandierata in più accordi, sono solo bei propositi, che si scontrano poi con la realtà dei fatti, e con l’arroganza padronale capeggiata in quegli anni da Albertini, successivamente sindaco-sceriffo di Milano, a capo di Federmeccanica.
Numerose le ore di sciopero effettuate dalla categoria, tra cui due scioperi generali con manifestazione a Roma. Viene ricordato come il contratto della nuova generazione, la flessibilità ed i diritti dei lavoratori nel definire i tempi di lavoro e riposo, diventano le principali ragioni di conflitto.
Queste in estrema sintesi la parti importanti definite nell’accordo:
- Aumento salariale medio di 200.000 lire in tre tranches: 100.000 dal 1°gennaio 1997, 80.000 dal 1°marzo 1998, 20.000 dal 1°ottobre 1998. Una tantum di 512.000 lire in due rate nel 1997;
- Conferma dell’assetto contrattuale su due livelli, nazionale e aziendale, sancito dall’accordo di luglio 1993 e dal contratto 1994;
- Istituzione del fondo di previdenza complementare per i lavoratori dell’industria metalmeccanica privata denominato “Cometa”.

Le parole d’ordine usate durante le assemblee dai sindacati per coinvolgere i lavoratori ad esprimere un parere positivo sono state:
- la conferma dei due livelli di contrattazione, nazionale e aziendale, come sancito sia dall’accordo del luglio 1993 che dal contratto metalmeccanici del 1994 (quindi no all’assorbimento della contrattazione aziendale);
- rifiuto di una differenziazione nei trattamenti economici per i lavoratori del Mezzogiorno;
- introduzione di un sistema di previdenza complementare a livello nazionale e di settore finanziato dalle imprese e dai lavoratori.

Le organizzazioni sindacali sottopongono a referendum l’ipotesi di accordo, coinvolgendo circa 500.000 lavoratori e raccogliendo la piena approvazione superiore al 70%.

I fondi pensionistici integrativi
Con questo accordo si gettano le fondamenta per riformare il sistema pensionistico nel suo complesso, il futuro per milioni di lavoratori italiani; da questo momento in poi verrà segnato dall’andamento delle borse e dalle speculazioni finanziarie, e non più da un sistema pubblico generale e solidale.
Destra e Sinistra/sindacati si dividono non tanto se sia utile o meno conservare il vecchio istituto pensionistico pubblico; la divisione nasce unicamente se le pensioni integrative debbano essere affidati a fondi di categoria, oppure lasciate al libero mercato.
I funzionari sindacali si sono trasformati in veri e propri agenti assicurativi, organizzando centinaia di assemblee affinché si riuscisse a convincere quanti più lavoratori ad aderire ai fondi privati di categoria.
Col tempo si è visto quanto ci sia di più incerto che affidare i risparmi di ciascun lavoratore ai fondi privati, siano essi pur di categoria, ma pur sempre investiti nelle sacche di parassitismo economico.
Lo sanno bene gli insegnati della regione dell’Alaska che investendo tutti i propri risparmi nelle azioni Parmalat, si sono visti liquidare i soldi accantonati. Altro caso indicativo è quello della Enron, multinazionale americana fallita rovinosamente. I lavoratori quasi 100.000, hanno perso il posto di lavoro e la pensione per aver investito il loro fondo pensioni nelle azioni Enron.
Oggi il fondo Cometa è tra i più numerosi fondi a livello europeo, in ITALIA SONO CIRCA 640.000 e suddivisi tra operai al 57% e impiegati al 27% , nella sola Lombardia sono 100.000 gli iscritti. Tutti gli aderenti al fondo con assunzione antecedente al 1993 versano inoltre per intero il TFR al fondo integrativo.
Negli anni, avendo come riferimento l’andamento dei fondi chiusi e confrontandoli con l’andamento dei rendimenti del TFR, emerge chiaramente come le cose non siano andate poi così come tutti prospettavano.
I fondi pensione italiani chiusi nel quadriennio 2000-2003, hanno avuto un rendimento medio intorno al 5,25% contro un 13,44% offerto dal TFR così come lo conosciamo:

 

Periodo

Rendimento

dei fondi chiusi

Rendimento

del TFR

2000

+ 3,55

+ 3,54

2001

- 0,50

+ 3,20

2002

- 2,80

+ 3,50

2003

+ 5,00

+ 3,20

TOTALE

+ 5,25

+ 13,44

 

Praticamente, se avessimo investito il nostro TFR nei fondi pensione di categoria, avremmo avuto un rendimento inferiore dell’8,19% senza contare i costi di gestione che si aggirano sull’1- 1,5% all’anno. Ancora più disastrosa negli stessi anni la situazione per quanto riguarda i fondi aperti, che in genere hanno anche costi di gestione più alti. (Da fonte SinCobas)

In conclusione, con questo accordo si sancisce definitivamente la creazione di steccati tra lavoratori giovani e anziani, stabili e precari .
Viene minata la base fondante del sistema pensionistico abolendo il principio di universalità del sistema pensionistico, promettendolo di riformarlo, ma consegnandolo di fatto al mondo delle assicurazioni gestite dai sindacati stessi.
I lavoratori con questi passaggi nella realtà hanno unicamente una cosa certa, il prolungamento dell’età lavorativa, per molti anche più di dieci anni, un prolungamento dei tempi di lavoro, e una decurtazione dei pochi risparmi che a fatica si erano nel tempo accantonati.

Contratto 1999
normativo quadriennale
Apertura della trattativa: 21 ottobre 1998
Chisura della trattativa: 8 giugno 1999
Uno Sciopero Generale Nazionale e otto mesi di lunghe trattative; il “contratto delle nuove generazioni”, così è ricordato l’accordo del 1999, è il primo contratto che non si occupa della redistribuzione del reddito ma di questioni normative che riguardano le regole e i diritti personali dei lavoratori, la flessibilità e l’attenzione ai diritti dei lavoratori nel definire i propri temi di lavoro e riposo, le ragioni principali del conflitto.
“Abbiamo ottenuto risultati interessanti su diversi punti, tradizionalmente considerati minori: part-time, aspettative per ragioni familiari o per impegni di volontariato o di studio, lavoro interinale, tempo determinato, diritto allo studio; trattamenti di malattia. “
E’ su queste tesi che le organizzazioni sindacali hanno svolto le assemblee nelle aziende, cercando di ottenere un vero e proprio plebiscito tra i lavoratori.
L’approvazione finale del contratto avviene tramite referendum a cui partecipano circa 500.000 lavoratori votanti, confermando il si all’accordo con una percentuale superiore al 70%.
Queste in estrema sintesi la parti importanti definite nell’accordo:
- Aggiornamento ed estensione del campo di applicazione del contratto in relazione alle trasformazioni nel sistema produttivo;
- Ampliamento della fruizione effettiva delle riduzioni di orario per i lavoratori turnisti;
- Piena utilizzazione delle 104 ore di riduzione già acquisite o derivanti dalle festività soppresse;
- Istituzione della banca delle ore (diritto di ciascun lavoratore a trasformare in riposo parte dello straordinario prestato);
- Introduzione dell’orario plurisettimanale;
- Diritto al controllo effettivo degli orari di fatto attraverso la contrattazione delle flessibilità da parte delle Rsu;
- Miglioramenti dei diritti di aspettativa per attività di volontariato, lavori di cura e studio;
- Recupero della 13a nel calcolo del Tfr;
- Aumento salariale medio di 85.000 lire in due tranches: 43.000 dal 1° luglio 1999; 42.000 dal 1° aprile 2000. Una tantum di 120.000 lire;
- Istituzione della banca delle ore (diritto di ciascun lavoratore a trasformare in riposo parte dello straordinario prestato). Introduzione dell’orario plurisettimanale. Stagionalità…del prodotto…;
- Diritto al controllo effettivo degli orari di fatto attraverso la contrattazione delle flessibilità da parte delle Rsu;

Emerge da subito che la volontà di entrare nella discussione vera dell’organizzazione del lavoro si prospetta in realtà un’arma a doppio taglio per le forze sindacali.
Se, da un lato si riconosce il ruolo delle RSU al controllo delle ore effettive di lavoro, dall’altro, si apre il canale preferenziale per le organizzazioni padronali all’orario plurisettimanale; una settimana lavorativa che può oscillare in rapporto alle punte produttive con tetti minimi e massimi (ricordiamo inoltre che in questo periodo il settore metalmeccanico risultava come un settore in piena espansione di orari di lavoro e con monte straordinari ben al di sopra delle medie concordate e il tutto avveniva in una situazione di piena crisi occupazionale).
Nel contratto del 1999 è stato in oltre aumentato il monte ore straordinario che, insieme all’orario plurisettimanale, offrirono agli industriali tutti gli strumenti di flessibilità dei tempi di lavoro.
La banca delle ore doveva nei fatti riequilibrare e, anzi, esser volano per creare nuova occupazione: nei fatti nulla è avvenuto. L’asse portante della banca delle ore doveva essere la ricompensazione di giornate di riposo di lavoratori fissi, con inserimento di occupazione giovanile a tempo determinato. In realtà, essendo facoltativa la scelta per il lavoratore e, attraversando un periodo di restrizione salariale, ben pochi lavoratori sceglievano l’utilizzo del riposo compensativo. Tutt’ora sono ben pochi i lavoratori che sono a conoscenza del funzionamento complessivo della banca delle ore, e molti meno ne fanno uso.
Ma il contratto del 1999 fa emergere una discussione che troverà ampio spazio tra le organizzazioni sindacali; la contrattazione di secondo livello interessa una fascia di lavoratori ben al di sotto dell’intera categoria e i contratti territoriali possono esser la giusta risposta a questa mancanza di redistribuzione delle ricchezze.
Nella realtà, e lo si vedrà successivamente con le proposte contenute nel libro bianco, si vorrebbe trasformare il secondo livello di contrattazione in una sorta di una tantum territoriale dove, se da un lato si distribuisce le “ricchezze” ai lavoratori senza contrattazione aziendale, dall’altra si rende nulla la presenza delle RSU nelle fabbriche.
Così facendo, le organizzazioni sindacali territoriali si ritagliano un ruolo che snatura il significato storico per cui sono nate, diventano così organi di regolamentazione del mercato del lavoro, ne gestiscono la formazione, partecipano attivamente alla ricollocazione tramite le proprie società e ne definiscono i contratti in ogni sua parte.
Il sindacato inizia a cambiar pelle in maniera irreversibile gestisce fondi pensione e fondi salute, diventa soggetto attivo in termini di proposte per snaturare il valore dello sciopero, si spinge sempre più ad esser sindacato degli iscritti con forma corporativa, riducendo il ruolo partecipativo dei lavoratori tutti.



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