Vi scrivo per segnalare ai
compagni e ai proletari che hanno a cuore i rivoluzionari prigionieri, le
volgari strumentalizzazioni a cui di recente è stata oggetto la compagna
Diana Blefari, e per respingerle energicamente. Esse, una volta di più,
sottolineano l’importanza dell’intervento solidale di classe anche in
riferimento a situazioni e problematiche obiettivamente delicate e
complesse, affinché non diventino materia di odiose speculazioni da parte
della borghesia.
Un intervento a cui vi chiedo di contribuire con la pubblicazione di queste
righe.
Nel corso di questo mese, sull’onda di una denuncia pubblica di un esponente
del Prc locale in merito alla situazione della sezione 41bis femminile del
carcere dell’Aquila, e in specifico delle condizioni della militante
rivoluzionaria Diana Blefari, gli organi televisivi e di stampa
prevalentemente abruzzesi, hanno dato vita a una breve ma intensa campagna i
cui contenuti degradanti, celati sotto il velo di motivazioni umanitarie,
hanno di fatto costituito un affronto per l’identità rivoluzionaria dei
militanti prigionieri e tanto più grave in quanto si è realizzata una
speculazione su una situazione delicata.
Tale campagna, potendo giovarsi della condizione di segregazione e di
relativo silenzio delle prigioniere in 41bis, ha preteso di trattarne alcune
alla stregua di oggetti inerti, dei quali poterne divulgare un’immagine che,
partendo dal disconoscimento di qualsiasi loro soggettività e proseguendo
avventurandosi in abusate quanto morbose diagnosi sul loro stato
d’equilibrio psichico, in sostanza disinnescasse la valenza politica della
figura del rivoluzionario prigioniero, rendendole passibili di pubblica
commiserazione, e costruisse una condizione politica per l’ammissibilità di
un “gesto umanitario” da parte di chi può decidere del regime di prigionia.
In pratica questa operazione mediatica oltre a perseguire i consueti scopi
denigratori, è servita a mistificare le responsabilità istituzionali
dell’aberrante condizione del carcere duro, e della segregazione che impone,
per chi, come la compagna Diana Blefari, già antecedentemente alla sua
applicazione, non usciva più di cella e rifiutava di incontrare chiunque.
Un comportamento di per sé indice della necessità di intervenire rapidamente
per evitare compromissioni dell’equilibrio psichico e, per chi ne ha il
potere, quantomeno revocando la misura per porre termine ai suoi effetti
strutturalmente patogeni. Uno stato delle cose scandaloso che si protrae da
molti mesi, del quale, in particolare con questa manovra politico-mediatica,
lo schieramento borghese che a vario titolo si ritrova a misurarsi con la
gestione delle scelte pregresse dell’esecutivo a riguardo, ne fronteggia le
implicazioni contraddittorie affinché non arrechino pregiudizio agli
indichiarabili ma permanenti obiettivi di annientamento dell’identità
politica dei prigionieri proprio ora che l’adozione del 41bis li formalizza
sul piano giuridico.
Contro queste manovre mi preme ribadire che il solo sostegno apprezzabile
per i prigionieri anche in questa circostanza delicata, resta sempre e
soltanto quello della solidarietà di classe, l’unica in grado di esprimere e
restituire quel senso di profonda dignità umana di cui è capace solo chi
deve combattere ogni giorno per farla valere e che, riconoscendo nelle
figure dei prigionieri rivoluzionari la rappresentazione delle proprie
istanze di liberazione dallo sfruttamento e dal dominio della borghesia,
resta sempre saldo nel rispetto e nella vicinanza a chi, sottoposto alla
prigionia e all’isolamento dai propri compagni di lotta e di vita, può anche
smarrirsi e aver bisogno di ritrovarsi, al riparo da possibili coartazioni e
da sconsiderate ingerenze. A questa solidarietà andrà sempre la più sentita
gratitudine di tutti i prigionieri rivoluzionari.
L’Aquila, 18/03/06
Nadia Lioce |