SENZA CENSURA N.20
luglio 2006
Contro la tortura democratica
Appello per il diritto alla vita di Diana Blefari
La Convenzione ONU approvata dall’Assemblea
generale il 10 dicembre 1984 e ratificata dall’Italia ai sensi della legge 3
novembre 1988, n. 498, all’articolo 1 definisce il crimine della tortura come
«qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona
dolore o sofferenze, fisiche o mentali, con l’intenzione di ottenere dalla
persona stessa o da un terzo una confessione o un’informazione, di punirla per
un atto che lei o un’altra persona ha commesso o è sospettata di aver commesso,
di intimorire o costringere la persona o un terzo, o per qualsiasi altro motivo
fondato su qualsiasi altra forma di discriminazione, qualora tale dolore o
sofferenza siano inflitte da un pubblico ufficiale o da ogni altra persona che
agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso
o tacito». All’articolo 4 si prevede che ogni Stato parte vigili affinché tutti
gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressioni nei confronti del
proprio diritto penale.
Diana Blefari sta per morire. Dopo due anni e mezzo di carcere, per la maggior
parte dei quali ha subìto una vera e propria tortura fisica e mentale, si sta
arrendendo, nell’unica forma che una persona con dignità attuerebbe a fronte
della somministrazione di una massa di violenza di dimensioni spropositate come
quella che gli è stata rovesciata contro. Qualche giorno fa i medici di Rebibbia
hanno chiesto ufficialmente, alla Corte che si occupa del suo appello, il suo
«indispensabile» ricovero «immediato» in una struttura sanitaria idonea. Non
mangia, infatti, da circa 30 giorni e continua ad essere detenuta in regime di
41 bis.
Non è una notizia inaspettata. Negli ultimi tre mesi, in seguito
all’interessamento di alcuni membri di Rifondazione comunista di L’Aquila (dove
ha sede il carcere che l’ha “ospitata” fino a poco tempo fa), la sua situazione
era stata ripetutamente denunciata con alcune lettere e articoli, pubblicati su
giornali nazionali e alcune manifestazioni di solidarietà erano state espresse
da ambiti della sinistra antagonista. Ma naturalmente non è servito a niente.
Come del resto finora a nulla è servito l’iter legale promosso dai suoi
difensori che, già precedentemente, era stato avviato per fare presente la
gravità della sua situazione e quindi sollecitare un intervento da parte degli
organi competenti.
A nulla, se non a dimostrare, qualora ce ne fosse ancora bisogno (ma giusto per
chi come al solito vuole far finta di non capire), la preterintenzionalitá della
volontà di uccidere attuata nei suoi confronti (naturalmente dopo averla
torturata per bene!). E’ infatti emersa una stridente contraddizione all’interno
delle istituzioni: strutture mediche del Dap (Dipartimento amministrazione
penitenziaria) che da mesi esprimono la necessità di toglierla dal 41bis, e
strutture burocratiche (evidentemente composte a loro volta da laureati in
medicina?!) che rispondono alle istanze degli avvocati affermando che la
situazione medica della detenuta è perfettamente sotto controllo!
La sua condizione è sicuramente figlia del 41 bis e più in generale del carcere
di annientamento, considerato che condizioni “particolari” di detenzione, basate
sull’uso massiccio dell’isolamento, sono comunque applicate con larga
discrezionalità in ogni carcere. E noto a chi e in seguito a quali episodi si
deve l’introduzione del 41bis nel nostro ordinamento; altrettanto noto è il
processo decisionale che ha portato alla sua stabilizzazione ed estensione a
persone con altri tipi di imputazioni rispetto alle originarie come appunto
Diana, attualmente in custodia cautelare per reati previsti dall’art. 270bis del
codice di procedura penale.
Secondo la ratio della norma il 41 bis dovrebbe servire ad impedire le
comunicazioni dei detenuti con eventuali complici all’esterno, quindi a scopo
preventivo. Ma poi la realtà del suo utilizzo è tutta un’altra.
Da questo punto di vista la condizione di Diana è emblematica della vera logica
che presiede all’applicazione di tale norma (anche se, pure in questo senso, il
suo caso non costituisce una novità assoluta, almeno per chi ebbe modo di
leggere un paio di anni fa il libro-inchiesta “Tortura democratica” di S. D’Elia
e M. Turco). La teoria della necessità di rompere i collegamenti tra i detenuti
ed eventuali associati in libertà si rivela una panzana vergognosa, visto che
Diana non comunica più, ormai da quasi un anno, con nessuno. La tortura
dell’isolamento ha provocato in lei l’unica risposta possibile per sottrarvisi:
il rifiuto di ogni dialogo e infine il lasciarsi piano piano morire.
Appare chiaro, dunque, che, più che ad impedire i suddetti rapporti con
l’esterno, con l’applicazione del 41bis si vuole distruggere quel minimo di
rapporti affettivi che il carcere “normale” non era ancora riuscito ad azzerare.
E lo si fa allo scopo preciso di ottenere “collaborazioni” e “pentimenti”.
Esistono numerose “confessioni” che svelano questa falsità: “Contro i capimafia
è necessario il massimo rigore, senza lasciar neppure intravedere la possibilità
di un ammorbidimento delle condizioni di detenzione, salvo che cambino idea e
non inizino una seria e fruttuosa collaborazione”, così l’allora presidente dei
deputati Ds Luciano Violante il 24 maggio 2002; ancora più esplicito è stato
Alberto Maritati, già membro Ds della Commissione parlamentare Antimafia (e oggi
neo-sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi! Proprio un bel segnale di
garantismo!), che il 16 luglio 2002 dichiarò: “Il punto centrale è la
stabilizzazione del 41bis. Non tanto per dare una risposta a Leoluca Bagarella.
Ma perché di fronte ad una situazione stabile si chiarisce che si esce dal
carcere duro solo con una precisa dissociazione o un pentimento”. Erano i tempi
in cui si discuteva appunto se rendere stabile la disciplina del 41bis,
inizialmente sottoposta a periodico rinnovo, e di estenderla ad altri tipi di
imputati detenuti (proprio così... basta essere imputati! E nelle carceri
italiane oltre il 60% di quelli che ci finiscono si rivelano alla fine
innocenti!). Come è noto la decisione fu presa in pieno spirito bipartisan.
L’attività repressiva dispiegata contro gli imputati per associazione eversiva o
mafiosa è già palesemente ispirata ad una logica di guerra, e non solo quando
vengono reclusi. Già in sede investigativa e poi in dibattimento le procure sono
impegnate a dimostrare la “verità” dei loro teoremi accusatori e non la verità
storica dei fatti accaduti. Ma tale piano potrebbe ancora rientrare nelle
prerogative dello Stato (se non fosse per il piccolo particolare dei numerosi
innocenti che ci vanno sempre di mezzo!), quando il nemico si pone anch’esso sul
piano della guerra.
Ma quello che è schifoso, il vero crimine, è che, con l’utilizzo del carcere di
annientamento, si pratica una logica da guerra “sporca”, quindi analoga a quella
vigente nelle varie Guantanamo e Abu Grahib disseminate nel mondo, verso le
quali le organizzazioni umanitarie sono solite indignarsi (strana vocazione
umanitaria quella di dedicarsi solo a detenuti stranieri e naturalmente
risiedenti il più lontano possibile dall’Italia e... ancora meglio se sono già
morti!).
Il 41 bis, essendo utilizzato per provocare la “collaborazione”, quindi per
determinare un comportamento non voluto dal soggetto che lo subisce, è
chiaramente una forma di tortura, nel senso previsto anche dalle convenzioni
internazionali. E’ concepito in maniera raffinata, per sottrarne la sua
applicazione al contraddittorio con la difesa davanti ad un giudice terzo.
Infatti è erogato con misura amministrativa e ministeriale e quindi non esiste
diritto di difesa per l’imputato, anche se le pezze d’appoggio per applicarlo
sono ricercate nelle note informative degli organi investigativi e negli atti
della pubblica accusa, quindi in “atti di parte”.
Secondo la logica di questa guerra “sporca” il “nemico” deve essere annientato
prima con la tortura, poi auspicabilmente con il marchio dell’infamità, e infine
può anche morire.
Se la logica fosse quella di una guerra “normale”, quindi, anche se pur sempre
deprecabile, propria di uno Stato di diritto, sarebbe molto più coerente
reintrodurre la pena di morte, ma naturalmente non lo si vuole fare... i nemici
non soffrirebbero abbastanza! E quest’ultimo “aspetto” per i professionisti
della gogna è davvero irrinunciabile.
Denunciamo la criminalità delle azioni e dei comportamenti che colpiscono Diana.
Denunciamo che i criminali peggiori sono quelli che promuovono, eseguono e
godono della tortura degli esseri umani.
Denunciamo il pericolo che possa essere disposto il trasferimento di Diana in un
OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario), in quanto tale soluzione sarebbe
l’ultimo e più bestiale livello della tortura. Verrebbe imbottita in maniera
forzata di farmaci allo scopo di tenerla in vita solo per farla ancora soffrire.
Disprezziamo, semplicemente disprezziamo, chi afferma che Diana sta fingendo.
Chiediamo a chi è interessato ad eliminare la pratica della tortura nel nostro
paese e ritiene altresì importante la difesa del principio del diritto alla
vita, di sottoscrivere questo
APPELLO
Per l’immediato ripristino del principio del diritto alla Vita per Diana, con
ricovero in struttura ospedaliera pubblica e quindi con revoca del 41bis o, in
dolorosa alternativa, il ripristino della pena di morte con provvedimento ad
personam nei suoi confronti. Anche quest’ultimo, considerati i tempi e i luoghi
in cui si vive, sarebbe un grande gesto di umanità.
maggio 2006
comitato contro la tortura democratica e per il diritto alla vita di Diana
Blefari
[per contatti e adesioni:
notorturademocratica@yahoo.it]