SENZA CENSURA N.20
luglio 2006
NO all'isolamento carcerario
La necessità di non tacere davanti alla tortura psicologica e all'annientamento dei/delle prigionieri/e
Come rompere il muro della controrivoluzione
nei confronti della mobilitazione contro le condizioni dei prigionieri/e
rivoluzionari/e salvaguardando e rivendicando la loro identità rivoluzionaria,
la loro piena appartenenza al movimento rivoluzionario all’esterno?
Una domanda alla quale, in particolare dopo l’applicazione del regime di 41 bis
ai compagni/e imputati nell ultime inchieste sulle Br Pcc e ad alcune
segnalazioni di aggravamento delle condizioni di salute di una di queste,
vorremmo trovare una risposta.
Abbiamo sempre rispettato in pieno l’approccio e la posizione dei prigionieri/e
verso il carcere, condividendo che non rappresenta la contraddizione su cui
centrare l’iniziativa, ritenendo che il piano generale rappresenta il logico
terreno sui cui misurarsi.
Ma dall’altra non possiamo pensare che l’accettazione dello scontro e delle sue
conseguenze possa in qualche modo impedire di denunciare e lottare come in
passato contro l’isolamento e la tortura, contro l’annientamento e la
dispersione.
Una battaglia che da sempre abbiamo portato avanti con i compagni baschi,
francesi, tedeschi e turchi, senza per questo vendere l’anima al diavolo e
spostare il nostro piano di azione all’interno delle maglie della rete
dell’opportunismo.
Lo abbiamo fatto perché elemento e prodotto dello scontro del quale ci sentiamo
parte con tutte le nostre difficoltà e contraddizioni, di chi deve misurarsi con
una fase in cui la controrivoluzione ha affilato tutte le sue armi, e non solo
all’esterno.
Con questo spirito abbiamo sostenuto e partecipato alla Campagna «Un libro in
più di Castelli» promossa dagli «Amici e Familiari dei Prigionieri» e pensiamo
che l’approccio, il metodo con la quale è stata costruita, la capacità di
interazione interno/esterno possa rappresentare un valido punto di partenza per
analizzare come alcune scelte tattiche possono coinvolgere spezzoni di classe
nella mobilitazione e nell’innalzamento della coscienza e comprensione
dell’attuale livello di scontro.
Niente di diverso dal metodo con il quale ci misuriamo nei luoghi di lavoro, sul
territorio, ecc…
Con questo spirito vogliamo contribuire al massimo alla lotta contro l’art 41bis
e la sua applicazione, contro le condizioni di dispersione e di annientamento a
cui i compagni/e sono sottoposti anche in Italia, perché tutto ciò non solo
riguarda chi attualmente si trova in carcere, ma diventa amara prospettiva per
coloro che dovranno farci i conti in futuro. Aspetti che riguardano sia chi si
trova a viverseli attualmente, rispettandone quindi le posizioni, ma con tutto
il diritto per chi è fuori di lottare contro le politiche di annientamento e
tortura a cui con molta probabilità si troverà sottoposto nel caso di
carcerazione.
In questo contesto si inserisce l’intervista che abbiamo voluto realizzare con
uno degli avvocati che assistono alcuni compagni/e sottoposti al 41 bis.
Facciamo un quadro sul numero e la situazione attuale dei prigionieri/e
sottoposti al regime di 41 bis e ripercorriamo il percorso giudiziario e
carcerario che ha portato alla sua applicazione nei loro confronti
Parliamo di prigionieri politici perché gli altri, ossia i detenuti per
reati di «criminalità organizzata» a cui da anni viene applicato questo
trattamento vessatorio ed inumano saranno circa 600. I prigionieri/e politici a
cui è stato applicato, dal 30 settembre 2005, il regime del 41 bis sono cinque.
Le motivazioni dei decreti applicativi sono in pratica stereotipate tra loro, in
perfetta analogia alla logica che il ministero utilizza da anni per
l’applicazione di tale regime ai detenuti per reati di mafia e camorra: il primo
presupposto é la pericolosità del singolo soggetto che, secondo la norma,
dovrebbe essere dedotta da elementi concreti e soprattutto attuali, ma che di
fatto viene affermata, sempre e comunque, esclusivamente sulla base dei reati
contestati. Si legge infatti in questi provvedimenti che gli stessi sono formati
«attingendo alle informazioni ed ai pareri forniti dalle autorità giudiziarie e
dagli organi investigativi». Inoltre si fa riferimento alle ordinanze di
custodia cautelare e alle richieste di rinvio a giudizio formulate dalle
procure, quindi ad atti di parte, senza tenere conto che a volte questi non
hanno superato neanche il vaglio del dibattimento, come nel caso di Broccatelli
(assolto dall’omicidio D’Antona), che appare in questo senso particolarmente
clamoroso.
L’ulteriore e imprescindibile presupposto per l’applicazione dell’indicato
regime speciale è la prova positiva circa l’esistenza in vita
dell’organizzazione di riferimento all’esterno. Nel caso dei prigionieri
politici il 41 bis è stato applicato a prescindere dalla dimostrazione sul piano
fattuale e concreto dell’esistenza dell’organizzazione BR-PCC all’esterno. Su
questo aspetto la contraddizione che emerge dagli apparati statali, sia in
affermazioni mediatiche sia processuali, è evidente: da un lato la magistratura,
le forze di polizia e addirittura esponenti del governo, tra i quali lo stesso
Pisanu, hanno affermato di aver sconfitto definitivamente questa organizzazione,
quindi di aver assicurato alla «giustizia» tutti i partecipanti, dall’altra il
ministero della giustizia, su richiesta del ministero dell’interno, afferma che
è necessario applicare il 41 bis per evitare i contatti tra i prigionieri ed i
militanti dell’organizzazione all’esterno.
Per dimostrare che ci sono altri/e in libertà sarebbe necessario, sempre sul
piano formale, indicare elementi concreti, ad esempio fare il nome di qualche
latitante, mentre il decreto impositivo del regime speciale fa dei riferimenti
assolutamente generici ai molti esuli del vecchio ciclo di lotte rifugiatisi a
Parigi o altrove, definendoli «soggetti che hanno svolto un ruolo di primo piano
nel partito combattente», quindi senza addurre alcun elemento concreto
sull’eventualità che tale ruolo lo ricoprano anche nel presente, e addirittura a
quei prigionieri attualmente ammessi ai regimi alternativi come la semilibertà.
È chiaro che si tratta di una motivazione apparente perché, per quanto riguarda
questi ultimi, l’avvenuto accesso ai benefici di legge fa ragionevolmente
presupporre che gli stessi non abbiano più niente a che vedere con la lotta
armata e tantomeno con le Brigate Rosse.
Appare tutta da provare anche l’ipotesi di qualsiasi contatto con quelli che
sono gli esuli, persone che vivono fuori dall’Italia da oltre 20 anni e che
certamente hanno fatto scelte di vita che sono completamente diverse da quelle
delle BR PCC.
Si tratta dunque di motivazioni deboli per poter affermare l’attuale esistenza
dell’organizzazione. Inoltre, a prescindere anche da questo aspetto, mi pare che
proprio l’esperienza storico-politica dei prigionieri di questo nuovo ciclo
dimostri l’assoluta non esistenza di rapporti organizzati tra il carcere e
l’esterno. Nel materiale rinvenuto nelle perquisizioni sono presenti una serie
di documenti, citati peraltro nei provvedimenti che applicano il 41bis, dove
sono gli stessi appartenenti ad ammettere che si sono «attivati e costruiti a
cielo aperto», in continuità oggettiva dunque e non soggettiva, quindi sulla
base di un rapporto politico costruito attraverso la lettura di tutta la
documentazione che poteva anche uscire dal carcere, documentazione legata ai
vari processi uscita pubblicamente nelle varie riviste di movimento, ma appunto
senza aver mai avuto rapporti organizzativi con chi stava all’interno. Tutto
questo è stato dimostrato da intercettazioni ambientali, addirittura effettuate
in carcere, in cui i «vecchi» prigionieri si chiedevano addirittura chi fossero
quelli «nuovi». E’ quindi escluso che siano mai esistiti contatti diretti.
Ulteriore conferma al riguardo è citata negli stessi provvedimenti quando si
dice che «l’assunzione della denominazione storica… è stata accettata e
sostenuta nelle dichiarazioni rese dai detenuti già appartenenti alle BR» nel
corso di alcuni processi, quindi successivamente alle azioni portate a termine
dai nuovi. Si dice nel provvedimento, se ben ricordo, che questi rapporti
sarebbero dimostrati anche dal ritrovamento nel covo di via Montecuccoli di
documenti riportanti il timbro di censura di Trani, ma si tratta sempre di
documenti non di carattere organizzativo, ma di analisi generale e, tra l’altro
molto datati nel tempo.
La prova definitiva, circa l’assenza di contatti organizzativi «interno-esterno»
è quella che discende dalla recente sentenza della I Corte d’Assise d’appello di
Roma che, in riferimento ai quattro prigionieri storici, non solo ha rigettato
l’istanza della procura di richiesta di rinvio degli atti alla medesima per
farla indagare sull’ipotizzato concorso morale degli stessi nella morte di
Massimo D’Antona, ma addirittura li ha assolti anche dalla condanna comminatagli
in primo grado per associazione eversiva. Direi che è stata definitivamente
sancita l’inesistenza di contatti di tipo organizzativo tra i «vecchi» e i
«nuovi» militanti BR, cioè di quei contatti che il 41 bis dovrebbe impedire.
Io credo che le ragioni che hanno portato all’applicazione del 41 bis nei
confronti di questi prigionieri, non abbiano nessun rapporto con quella che è la
normativa esistente. Ma da questo punto di vista già il pregresso periodo di
applicazione che ha riguardato solo i detenuti per mafia è stato improntato ad
una logica dello stesso tipo. Si direbbe che lo stato, di fronte ad alcune
tipologie di reato, assume in pratica una logica che esula dai principi dello
stato di diritto, anche se non può evidentemente ammetterlo in maniera
trasparente. Non può farlo perché non siamo in una situazione come quella degli
anni ’70 o, in riferimento alle associazioni mafiose, come quella dei primi anni
’90, quando magari esisteva un qualcuno o un qualcosa da sconfiggere. Mi sembra
più una logica preventiva, in analogia potremmo dire con le guerre preventive
che porta avanti l’occidente su scala internazionale.
Apparendo dunque più come una caccia ai fantasmi, alla fine l’applicazione di
tale regime si palesa davvero unicamente come vessatoria perché l’unico
risultato che si può ottenere attraverso la sua applicazione, o che comunque lo
stato sembra prefiggersi è quello dell’annientamento. In pratica il ministero si
è posto in un rapporto diretto di scontro, ma uno scontro che è finalizzato non
già a sconfiggere un qualcosa all’esterno, che non sono riusciti a dimostrare,
ma che si prefigge invece direttamente l’annientamento di questi prigionieri.
A conferma di ciò basta pensare prima di tutto al trattamento penitenziario che
è stato loro riservato già dal momento dell’arresto. Gli arresti sono avvenuti
per la maggior parte nell’ottobre 2003 e fino all’applicazione del 41 bis
avvenuta quasi due anni dopo, questi prigionieri/e sono stati tenuti in carceri
diverse (uno per carcere) con divieti di incontro con qualsiasi altro
prigioniero politico e spesso anche in regime di isolamento rispetto ad altri
prigionieri comuni.
Paolo Broccatelli ad esempio è stato in isolamento, in modo illegittimo, sin dal
2003 ed attualmente, sembra paradossale, le sue condizioni in 41 bis sono
migliori di quelle che gli sono state riservate dal 2003 al 2005, perché in quei
due anni mai gli è stato consentito di effettuare l’aria con altri, se non per
un brevissimo periodo; invece sotto 41 bis sono stati rispettati quei minimi
criteri per la socialita’ che l’articolo prevede.
Già prima dell’applicazione del 41bis c’è stata dunque una scelta ben precisa:
quella di isolarli, di non metterli mai insieme, e questo è stato il trattamento
adottato per tutti/e. Tutti/e hanno fatto un periodo minimo di isolamento totale
di almeno 4-5 mesi e poi sono stati trasferiti in carceri cosiddetti comuni dove
non sono mai stati in contatto con altri prigionieri del ciclo di lotte degli
anni 70-80.
Quale condizione si vive sotto 41bis e quali le ripercussioni, senza voler
cadere in nessun modo in un facile pietismo ma anzi con la volontà di far capire
come questo tipo di carcerazione sia parte integrante della strategia di
annientamento e tortura?
Ritengo che la restrizione principale del 41 bis sia la limitazione dei
colloqui, dei contatti con la famiglia. E’ previsto un solo colloquio di un’ora
al mese con il vetro divisorio. L’assenza di qualsiasi contatto fisico è la cosa
peggiore, ossia quella che viene sentita di più ovviamente da tutti i
prigionieri. Mi riferisco in questo caso anche all’esperienza di prigionieri per
reati comuni, molti dei quali sono in 41 bis da oltre quindici anni, e quindi
quindici anni che non possono abbracciare padre, madre, moglie, figlio o figlia.
La giustificazione di questa misura è che i familiari possano portare ordini
all’esterno. Se questa motivazione ha un minimo di credibilità sul piano
giuridico per quanto riguarda l’attività di mafia, per le organizzazioni di tipo
politico appare totalmente inconsistente. Nessun prigioniero politico userebbe i
familiari per far arrivare qualcosa all’esterno.
Più in generale è provato da migliaia di atti processuali, che mai c’è stato un
collegamento interno-esterno se non alla fine degli anni settanta, l’epoca delle
cosiddette brigate di campo, quando molti familiari dei prigionieri politici
lottavano insieme a loro per migliorare le condizioni di detenzione.
Tornando alle condizioni in cui si vive in 41 bis, come già detto il problema
maggiore del 41 bis è in realtà la limitazione e l’assenza di contatti con i
familiari, per cui si viene a creare un logorio dei rapporti che porta
sofferenza non solo al prigioniero ma anche ai familiari stessi, quindi a
persone che non possono e non devono pagare per le scelte fatte dai loro cari.
Altro aspetto è che le sezioni del carcere 41 bis sono gestite da un gruppo
speciale chiamato GOM (Gruppo Operativo Mobile), un corpo speciale della polizia
penitenziaria addestrato a mantenere un rapporto di dominio totale sui
prigionieri, fino ad instaurare un clima asettico, privo di qualsiasi rapporto
umano.
In regime di 41 bis sono poi vietati anche gli scambi tra prigionieri: è vietato
ad esempio scambiarsi un piatto di pasta, come invece avviene abitualmente in
regime carcerario ordinario. Questo significa creare rapporti di
desolidarizzazione tra prigionieri, in qualche modo indurre alla depressione,
perché mangiare per tutti noi è un modo di socializzare. Si cucina per mangiare
insieme agli altri perché fa parte di un vivere comune, mentre se lo si fa solo
per sé stessi alla fine viene voglia di non farlo più; quindi mano mano ci si
abbandona anche nella cura di se stessi.
In sintesi, praticamente tutte le misure previste dal 41bis costituiscono
fattore di desocializzazione. E questo vale per tutti i prigionieri sottoposti a
regime di 41 bis. In aggiunta, la condizione dei cinque prigionieri/e politici è
ancora più grave perché di fatto non possono mai trovare degli elementi di
scambio con altri, anche all’interno dei minimi spazi concessi, proprio per via
della natura politica della loro detenzione.
In passato si è spesso teorizzato sui rapporti tra prigionieri politici e
prigionieri cosiddetti extra legali, ma nella concretezza della quotidianità è
estremamente difficile che si attuino rapporti di solidarietà, se si tiene
effettivamente conto della mancanza di interessi comuni tra prigionieri politici
e altri prigionieri. Questi ultimi hanno una loro struttura mentale che è
completamente diversa, perché è una struttura che li ha portati a fare scelte di
un certo tipo dove il dio denaro la fa da padrone (specie nel caso dei
prigionieri appartenenti ad associazioni mafiose) e quindi c’è un distacco sul
piano ideologico che è enorme, una vera voragine, e questo rende molto difficile
avere rapporti che vadano al di là delle cortesie formali tra prigionieri
politici e, in questo caso, prigionieri di mafia e di camorra.
Negli ultimi tempi si è molto parlato della situazione che finora è stata
vissuta da Nadia e Diana all’interno della sezione 41 Bis dell’Aquila, questo
senza voler assolutamente personalizzare o spostare il piano da una critica
generale ad una critica parziale al carcere, ma collocandola all’interno del
tentativo di annientamento attuato in Italia come nell’Europa tutta, verso i
prigionieri rivoluzionari e della resistenza antimperialista.
Intanto va aperto un capitolo sulla sezione che è stata aperta all’Aquila.
Un’area praticamente riservata a tre prigioniere, tre donne sottoposte al 41 bis
e già questa è una situazione abbastanza ai limiti della legalità. Nel regime 41
bis vi sono dei criteri formalmente invalicabili, ad esempio quello relativo al
numero minimo dei componenti il gruppo di socialità che non può essere inferiore
a tre. Naturalmente ciò non significa che si costituisce un carcere od una
sezione per tre detenuti: la regola è che si stia in sezioni costituite da 20/30
persone dove però la socialità avviene a turnazione per gruppi generalmente di
cinque persone, ma mai meno di tre.
Insomma quello «a tre» dovrebbe essere il gruppo di socialità minimo, ma non è
previsto che siano sempre le stesse tre persone a condividere la socialità, anzi
nella maggior parte delle carceri dove si hanno sezioni 41 bis, quindi anche
nelle carceri dove si trovano gli altri prigionieri come Broccatelli e Morandi,
i gruppi che possono andare all’aria si possono costituire «liberamente» di
volta in volta. In questa situazione uno ha la possibilità di avere scambi di
opinioni, discussioni di qualsiasi genere, con una varietà di persone e questo
sul piano umano, ma anche mentalmente, è importante. Si viene in pratica a
realizzare una situazione di gruppi che ruotano.
Nel caso delle tre prigioniere la realtà è stata diversa perchè erano solo tre e
questo determinava una situazione potenzialmente implosiva, sia perché c’era
Diana Blefari che cominciava ad avere problemi di salute e quindi a rifiutare
qualsiasi contatto con l’esterno e con le altre detenute, sia per la presenza di
Laura Proietti che, per sue scelte politiche, aveva pochissimi rapporti con le
altre.
Di fatto quindi veniva salvaguardata la forma, ossia rispettato il limite di
mettere insieme tre prigioniere, ma nella sostanza, per ragioni diverse e
comunque ben note al Ministero ed alla Direzione del carcere, le tre prigioniere
hanno vissuto totalmente isolate.
Quest’isolamento mascherato è andato avanti da ottobre 2005 fino ad aprile 2006.
Dall’aprile 2006, a seguito della condanna all’ergastolo per la prima
sentenza definitiva che la riguarda, la prigioniera politica Nadia Lioce è stata
sottoposta ad «isolamento diurno». Cosa ha significato questo?
La regola dell’isolamento diurno, che sarebbe una pena aggiuntiva per reati
commessi e puniti oltre l’ergastolo, afferma che il detenuto deve svolgere
quest’isolamento all’interno della sezione dove già si trova. In effetti nel
caso di Nadia questo criterio è stato formalmente rispettato, nel senso che la
stessa non è stata allontanata dalla sezione, ma la cosa più assurda è che
invece sono state trasferite le altre due e quindi il tipo di detenzione che si
è trovata ad affrontare è stato di totale isolamento.
Una prigionia del tutto particolare che vede il detenuto in totale balìa dei
suoi carcerieri e che può essere paragonata solo ad una carcerazione in una
caserma.
C’è un divieto assoluto in questo paese di mantenere i prigionieri nelle
caserme, anche a seguito del fatto che nei primi anni ‘80 nei vari commissariati
sono passati decine e decine di prigionieri che sono stati tenuti per 15-20
giorni e torturati. Questa pratica era resa possibile dal fatto che non c’era un
limite alla detenzione per fini investigativi, e questo permetteva di detenerli
legalmente nella caserma. Con il nuovo codice entrato in vigore nel 1990 tutto
questo non è più formalmente possibile. Immediatamente i prigionieri devono
essere portati in carcere. Questo è importante perchè all’interno del carcere la
presenza di altri detenuti, siano essi politici o comuni, viene a rappresentare
una sorta di controllo sociale sull’operato della custodia, quindi può essere in
gran parte escluso o limitato l’arbitrio dei comportamenti per la possibilità
che alcuni prigionieri sentano eventuali vessazioni subite da altri. È chiaro
invece che nessun controllo può instaurarsi quando non c’è nessun altro detenuto
che possa dire di aver sentito ad esempio l’entrata anomala di qualcuno nella
cella.
Non a caso sul caso dell’isolamento diurno applicato con queste modalità alla
Lioce sono apparsi articoli su alcuni giornali come il Manifesto con le denunce
fatte da alcuni esponenti di Rifondazione. Si è parlato di una detenzione alla
Ocalan o alla Guzman, perché sono forse gli unici casi che vengono in mente
proprio come esempi estremi di detenzione che vanno al di là dei limiti
stabiliti dalla legge.
Attualmente la condizione di Nadia Lioce si è in parte modificata. L’isolamento
diurno gli è stato revocato perché dichiarato fungibile con l’isolamento che la
stessa aveva subito «senza titolo» nei primi sei mesi di carcerazione e tuttavia
continua a rimanere nell’area riservata di L’Aquila con una sola detenuta per
reati comuni trasferita appositamente da Rebibbia.
Adesso sono in due a vivere una condizione di isolamento in cui non si rispetta
neanche il numero minimo di tre.
Non denunciare queste situazioni significa permettere che ci siano spazi che
sfuggono a qualsiasi controllo, dove i prigionieri/e possono essere tenuti
isolati da qualsiasi altro contesto, in aree che possiamo definire «extra lege».
Credo che rispetto all’isolamento sia necessario aprire una battaglia di ampio
respiro, ricordando che l’isolamento è una forma di tortura condannata da tutte
le convenzioni internazionali.
Nell’appello giunto da alcuni compagni/e di Roma viene posta l’attenzione
sulle conseguenze delle attuali condizioni carcerarie in particolare per quanto
riguarda Diana. Non c’è bisogno di sottolineare la solidarietà di classe come
centrale nel rapporto con i prigionieri/e, ma questo non ci deve impedire di
salvaguardare la loro salute in particolare quando questa dipende dalle
conseguenze della carcerazione a cui sono sottoposti i rivoluzionari/e, nel
rispetto e la difesa della loro identità.
Finora non è stata fatta una vera è propria diagnosi quindi io non sono in
grado di sapere quale è realmente lo stato di salute di Diana, anche se ormai
l’allarme sulle sue condizioni giunge anche dai presidi sanitari del carcere che
nell’ultimo periodo hanno parlato addirittura di grave pericolo di vita.
Certamente questa situazione è stata scatenata dal carcere, dall’isolamento a
cui è stata sottoposta fin dal momento dell’arresto che ha determinato una
condizione di forte stress, che alla lunga può portare a delle forme anche
patologiche. Diana ormai da quasi un anno rifiuta qualsiasi contatto con la
famiglia, con i propri compagni, con i difensori.
Nessuno è intervenuto per mesi, nonostante l’evidenza delle sue condizioni e le
denunce fatte sia dai legali che dalla famiglia. Anzi nonostante la gravità
della sua condizione il Ministero le ha applicato comunque il 41 bis.
Diana si è chiusa totalmente in se stessa come se volesse nascondere il suo
malessere; rifiuta anche i contatti con i suoi compagni, i quali hanno detto, e
hanno fatto capire, che forse c’era qualcosa che non andava, che bisognava
reagire. Naturalmente il fatto di avere una identità rivoluzionaria, da Diana
comunque preservata anche nel disagio, che la porta a rifiutare qualsiasi
contatto con l’istituzione, porta l’istituzione a dire che non c’è niente che
non va, ma che la stessa pone semplicemente in essere un comportamento da
irriducibile.
La spiegazione è illogica perchè se da una parte non vuole rapporti con
l’istituzione, non li vuole neppure con le altre figure, come i suoi compagni,
la famiglia, gli avvocati, e senza che ci sia motivo per giustificare il rifiuto
di questi rapporti.
A mio avviso questi rifiuti avvengono perché c’è un malessere, che rischia di
diventare grave e potrebbe portare ad una situazione non più risolvibile.
La situazione può presentare il rischio che una diagnosi medica possa consegnare
nelle mani dell’amministrazione penitenziaria la compagna, con il conseguente
possibile trasferimento in un OPG con tutto quello che ne deriva.
Bisogna intervenire e fare in modo che Diana possa riprendere la sua vita
diciamo “normale”. È chiaro che le sue condizioni non sarebbero state denunciate
se non fossero state così gravi da renderlo assolutamente necessario e non più
rinviabile. Di questo gli organi competenti non hanno tenuto in nessun modo
conto.
Tutte le istanze che sono state fatte, al ministero o presso le autorità
giudiziarie, per chiedere la revoca del 41 bis, il ricovero in un ospedale
civile o gli arresti domiciliari sono rimaste lettera morta. Solo ultimamente
c’è stata una risposta del DAP in cui si afferma che è un soggetto pericoloso e
che quindi non può essere ammessa al regime ordinario, ma deve rimanere in 41
bis.
Inoltre nella stessa nota del DAP si afferma che è comunque ben curata ed
assistita nel luogo di detenzione in cui si trova, cioè Rebibbia.
Tutto ciò mentre proprio la Direzione sanitaria di Rebibbia lancia un grido di
allarme, rimbalzato anche negli organi di stampa, circa la gravità delle sue
condizioni e l’impossibilità di intervenire sul piano terapeutico per
inadeguatezza della struttura...
Comunque che il 41 bis sia stato applicato a Diana
quando lei già rifiutava ogni tipo di comunicazione la dice lunga sulla finalità
di tale regime. Finalità che sembra proprio quella di indurre a qualcosa di
simile alla malattia i prigionieri, e questo rappresenta un motivo di più per
fare iniziative contro il 41 bis.
Probabilmente se lei fosse stata in un carcere insieme ad altre compagne la
situazione non sarebbe diventata così grave, forse sarebbe stato possibile
intervenire sin da subito in altro modo, ma le varie istanze presentate
nell’ultimo anno tese ad ottenere quantomeno un trasferimento a Latina o a
Rebibbia, dove sono presenti altre prigioniere politiche, sono state respinte.
Tutti gli uffici preposti a decidere sulla sua condizione si mascherano dietro
l’idea che la sua malattia potrebbe essere una simulazione, senza tenere conto
che non stiamo parlando di un detenuto comune che cerca una scorciatoia per non
fare il carcere facendosi passare per pazzo. Il prigioniero politico non simula,
è una persona che agisce a viso aperto e finché rivendica la propria identità
rivoluzionaria è capace di stare in carcere anche una vita. Se, e nel momento in
cui, rimette in discussione le sue scelte, la propria identità ecc. sceglie
chiaramente, per uscire dal carcere, altre forme storicamente note, ma certo non
simula una malattia.
Inoltre Diana non esibisce affatto la sua situazione, anzi la nasconde e a mio
parere è anche per non far vedere quanto stia male che rifiuta il contatto con
amici, compagni, legali, familiari.
Ritengo che chi vive una grave situazione per la propria salute, anche in via
temporanea, non deve restare in carcere. La salvaguardia del diritto alla salute
è garantita dalla costituzione e dalle norme di diritto internazionale ed in
questo caso siamo chiaramente al di fuori di queste norme e di questi principi
basilari posti a tutela della dignità umana.
Per questo motivo una battaglia per garantire cure adeguate a Diana (cure che
possono svolgersi solo fuori dal carcere in un ambiente familiare) deve
coinvolgere certamente tutto il movimento antagonista, ma anche associazioni che
si occupano di difesa dei diritti umani, parlamentari e più in generale ogni
sincero democratico che ritenga che il diritto alla salute debba essere
tutelato, sempre e comunque, come dicono appunto le norme di questo stato e le
convenzioni internazionali.
Insomma non si sta chiedendo nessun provvedimento «ad personam», ma solo
l’applicazione delle norme esistenti che nell’ipotesi di grave stato di salute
prevedono la sospensione della pena quando qualcuno è definitivo, o la
sospensione della custodia cautelare quando, come nel caso di Diana, si è ancora
in attesa di giudizio.
Intanto il processo a suo carico, che si stava svolgendo a Roma, è stato sospeso
perché ci sono dei dubbi addirittura sulla capacità processuale, dubbi che sono
stati sollevati dalla stessa istituzione penitenziaria.
A questo punto però l’istituzione penitenziaria, ha superato le richieste della
difesa, proponendo il ricovero in un OPG. Sappiamo bene che il ricovero in una
istituzione di questo tipo sarebbe un ulteriore aggravamento della situazione di
Diana e per questo motivo si deve intervenire.
All’esterno lo sviluppo di una iniziativa sufficientemente penetrante si
dimostra tanto difficoltosa quanto necessaria. Non solo le compagini
opportuniste e riformiste, ma anche la maggioranza delle componenti della
cosiddetta area di movimento si sono spesi ben poco nell’iniziativa contro la
deportazione ad opera dei servizi americani e italiani di presunti appartenenti
alla resistenza antimperialista nel nostro paese, contro la detenzione nelle
basi militari in Europa, o a sostegno delle lotte contro l’isolamento
carcerario. Un po’ di guerra al terrorismo che ha rapito le menti di molti/e. A
questo si aggiunga, che proprio il precedente governo di centrosinistra con il
ministro del PDCI Diliberto aveva «stabilizzato» il 41 bis e istituito
formalmente i GOM.
E’ evidente che il 41 bis, norma che prevede la sospensione di tutte le regole
penitenziarie, è stato fortemente voluto dalla sinistra e non diventerà mai un
tema di scontro fra le forze istituzionali. Sarà forse l’unico piano dove vi
sarà piena omogeneità, dove si dimostrerà che sia di fronte al «terrorismo» sia
di fronte alla criminalità organizzata non si cede.
Credo che il messaggio da veicolare, e attorno al quale è possibile sviluppare
iniziative ad ampio raggio, è quello che non dovrebbe essere sugli ostaggi che
si riversa la rabbia, la vendetta dello Stato. Uno Stato democratico dovrebbe
trovare altri mezzi per combattere il crimine che non quello di ridurre uomini e
donne a livello di animali. Invece il trattamento verso le persone che sono
prigioniere è chiaramente orientato all’annientamento psicofisico, perché sono
sottoposte all’eliminazione dei rapporti sociali e soprattutto dei rapporti con
i familiari, che possono avvenire solo attraverso un vetro.
Nella storia della repressione e del tentativo di annientamento delle
organizzazioni rivoluzionarie e dei loro prigionieri/e, anche in precedenza sono
state istituite forme di detenzione definiamole «ad hoc» come l’articolo 90. A
differenza di oggi sia nelle carceri, sia all’esterno molte erano le lotte e
forte la mobilitazione contro questi provvedimenti.
L’articolo 90 è stato istituito in un diverso contesto dello sviluppo della
lotta di classe, in Italia e a livello internazionale e quindi si collocava
all’interno di un attacco più generale che la borghesia portava avanti. In
Italia c’erano migliaia di prigionieri politici in carcere, ma c’erano anche
migliaia di persone fuori che si mobilitavano su una miriade di contraddizioni a
tutti i vari livelli. Quindi c’era oggettivamente una situazione generale della
soggettività molto diversa e in questo clima si collocava anche la lotta contro
l’articolo 90.
Tutto ciò contribuiva certamente a tenere viva una costante comunicazione tra il
movimento rivoluzionario ed antagonista ed i prigionieri.
Attualmente la situazione è molto diversa. Non c’è quel movimento di classe che
c’era all’epoca, i prigionieri/e stessi oggi sono in numero di gran lunga minore
rispetto a quelli che erano in passato.
Abbiamo parlato di movimenti, della differenza tra la situazione attuale e
quella passata sulla salute del movimento rivoluzionario e di classe. Pare ad
oggi invece che proprio quello che si sviluppa venga usato per raggiungere
l’obiettivo opposto come il processo di desolidarizzazione in atto verso i
militanti rivoluzionari e di classe in carcere. Come se la lotta al «terrorismo»
rappresentasse un qualcosa che è entrato all’interno della stessa linfa vitale
dei cosiddetti movimenti. Un nemico al pari dello Stato, sempre che questo venga
vissuto ancora come tale, invece che collocare la lotta armata e le
organizzazioni che se ne assumano la responsabilità nel portato reale delle
scontro tra le classi. E questo può essere, come già detto in precedenza,
certamente la ragione del non voler affrontare in maniera netta il problema
della tortura, dell’applicazione del 41 bis e quant’altro.
Oggi il livello della controrivoluzione si è innalzato in tutti gli ambiti, non
solo attraverso l’istituzione carcere con il trattamento speciale nei confronti
dei prigionieri/e. Lo stato si è attrezzato in tutta Europa e nel mondo nel
lanciare questa campagna di lotta al terrorismo internazionale come risposta
alla crisi generale. Si direbbe che è stata individuata una panacea attraverso
la quale le varie democrazie borghesi tendono a ricompattarsi, al loro interno e
tra di loro. Una lotta al terrorismo internazionale che va dai livelli più alti
di guerra fino ad arrivare a campagne permanenti di desolidarizzazione verso
chiunque si ribelli, a qualsiasi livello, allo stato di cose presenti.
In pratica finché le lotte vivono come scontro sociale, all’interno della
mediazione democratica di mantenimento dell’attuale ordine sociale, possono
essere lasciate esprimere. Quando la lotta invece diventa lotta di classe, o
potenzialmente può arrivare a caratterizzarsi come lotta rivoluzionaria, uscendo
fuori quindi dalla piccola contraddizione da cui è nata e collocandosi su un
livello di scontro generale verso lo stato borghese, la lotta dello stato
diventa lotta al terrorismo.
Inoltre bisogna riconoscere la capacità dello stato di penetrare all’interno di
ampi settori di classe e far passare il messaggio che qualsiasi lotta che rompa
con le regole della democrazia borghese sia classificabile come terrorismo, con
quanto ne consegue in termini di repressione per chi ne assume la pratica.
Questa strategia frena o almeno si pone l’obiettivo di frenare qualsiasi
iniziativa che si voglia prendere anche verso situazioni come quella carceraria
di cui stiamo discutendo, che dovrebbero vedere coinvolto anche chi ritiene di
voler difendere gli stessi principi cosiddetti democratici e di rispetto dei
diritti di uomini e donne.
In questa situazione vediamo compagni/e a cui viene applicata una carcerazione
come quella del 41 bis ai quali lo stato sembra dire «io stato con te che ti sei
permesso di attaccarmi procederò fino all’annientamento», e davanti a questo
nessuno riesce a ribellarsi, una ribellione anche solo morale se non politica.
La differenza di cui parlavamo sta proprio qua. Sia per le condizioni oggettive,
sia per la capacità che ha avuto lo stato di riuscire a far rientrare tutto ciò
che si muove contro di sè nella lotta al terrorismo internazionale.
La situazione che si determina attualmente per i prigionieri/e in Italia, è
molto simile a quella vissuta negli ultimi 20 o 30 anni dai compagni in Spagna,
in Francia e Germania, costretti a dover difendere la loro identità politica
continuamente e a lottare contro l’isolamento.
Questa situazione potrebbe profilarsi anche in Italia e per questo credo vada
mantenuta alta l’attenzione sulle condizioni di vita e di detenzione di questi
prigionieri costruendo livelli di comunicazione e di mobilitazione costante.
Su questo aspetto sarebbe necessario intraprendere una riflessione approfondita.
La situazione vissuta dai prigionieri/e attualmente è molto diversa rispetto al
passato. Prima nelle sezioni erano presenti 10, 15 o 20 prigionieri, quasi tutti
compagni e sempre hanno avuto la possibilità di stare assieme, di comunicare,
discutere. Questa possibilità oggi non c’è più, e questo determina una grossa
differenza tra l’articolo 90 e l’isolamento vissuto attualmente sotto 41 bis.
L’isolamento come tortura, già denunciato negli ultimi 20-30 anni dai
prigionieri nelle varie carceri europee, è la situazione in cui si trovano
questi compagni/e.
Una situazione nuova che va analizzata e denunciata come un ulteriore salto
dello Stato sul piano della repressione.