SENZA CENSURA N.20
luglio 2006
Afghanistan tra occupazione e resistenza
Le strategie degli occupanti e l’iniziativa dei resistenti
Sul numero 18 di SC del novembre 2005 erano già
apparsi due contributi sull’occupazione del paese asiatico in particolare sul
ruolo dell’Italia: “L’intervento militare italiano. Un quadro sintetico delle
missioni ENDURING FREEDOM e ISAF e il profilo del contributo italiano” e
“L’Italia in Afghanistan. L’evoluzione dell’intervento militare italiano in
Afghanistan”. In questo numero offriamo una breve sintesi dell’evoluzione delle
strategie degli occupanti e dei vari recenti passaggi decisionali in merito,
oltre ad una traduzione di un interessante documento sullo stato di salute della
resistenza afghana.
L’8 dicembre del 2005, il Consiglio Nord-Atlantico, massima istanza politica
della NATO, ha deciso di estendere ulteriormente l’area di responsabilità della
missione ISAF, la “forza di stabilizzazione” attraverso la quale l’Alleanza
Atlantica sostiene ormai da due anni e mezzo il processo di “ricostruzione”
dell’Afghanistan.
Inizialmente l’ISAF operava soltanto a kabul e nei dintorni della capitale, ma
dal 2004 è progressivamente entrata nelle regioni nord-orientali e
nord-occidentali del paese, stabilendo comandi regionali e, soprattutto, creando
o rilevando dagli USA Team di ricostruzione Provinciali (PRT).
Attualmente esistono nel nord-est cinque PRT della NATO, che sono stati attivati
durante la cosiddetta Fase 1 di espansione dell’ISAF, mentre nel nord-ovest ce
ne sono invece quattro, costituiti più recentemente nel corso della Fase 2.
L’Italia tra l’altro ha dato il suo contributo con la creazione ex nilo della
Foward support Base di Herat da cui dipendono logisticamente i quattro PRT
presenti nelle province nord-occidentali e di cui il Colonnello Maurizio
Cocciolone è il vice-comandante, mentre è proprio ad un generale Italiano,
Umberto rossi, che è stata affidata la responsabilità del Comando Regionale
Alleato del nord-ovest.
Tutto il sud dell’Afghanistan si è invece trovato nel raggio d’azione esclusivo
dell’Operazione ENDURING FREEDOM: una missione gestita direttamente dal Comando
Centrale Statunitense.
La linea di comando della missione atlantica ha il suo vertice strategico a
Shape di Mons in Belgio, mentre il Joint Force Command dell’Alleanza – di stanza
a Brussum, in Olanda – funge invece da Quartier Generale Operativo.
All’ISAF contribuiscono attualmente 37 Paesi tra i quali tutti i 26 membri della
NATO, che forniscono gli oltre 9.000 soldati rischierati dall’Alleanza in
Afghanistan.
Alla sua testa si è trovato dall’agosto dell’anno scorso al maggio di quest’anno
il generale Mauro Del Vecchio.
La scelta della NATO di muovere verso sud può essere fatta risalire all’inizio
dello scorso anno ed è scaturita da un “differente” posizionamento degli USA nei
confronti dell’Alleanza, dovuto al superamento del radicale unilateralismo
americano.
«L’impressione che si ricava da questa prima mossa afghana», scrive Germano
Dottori, in Il nuovo impegno della NATO in Afghanistan, apparso su “Rivista
Italiana Difesa” del marzo di quest’anno, «è infatti che Washington stia
pensando in questa fase di utilizzare la NATO essenzialmente per sostituire
ovunque possibile i militari americani impegnati nella Global War on Terror con
soldati europei sostenuti dalla logistica statunitense. […] In questo senso, non
è quindi da escludere che la crescita dello sforzo europeo in Afghanistan
attraverso la NATO segni il ritorno al modello prevalso in Kosovo dopo la
campagna del 1999: gli Stati uniti riaffermerebbero con modalità nuove e
diplomaticamente più accettabili per gli Europei la loro volontà di
specializzazione nell’hard security, lasciando all’Alleanza Atlantica l’onere di
gestire tutta una serie di nuovi “protettorati” di fatto.»
La Gran Bretagna ha assecondato per prima questa spinta statunitense, fornendo
parte cospicua delle truppe addizionali di cui la Nato avrà bisogno per la sua
spinta verso Sud-Ovest, e sarà la nazione leader, all’interno della cornice dei
Paesi del G8, per ciò che concerne la cosiddetta “lotta anit-droga”, mentre,
sempre nel quadro dei G8, è stato affidato al Giappone il disarmo delle fazioni,
alla Germania l’addestramento della polizia locale, agli USA la ricostruzione
delle forze armate di Kabul, all’Italia il compito di creare il sistema
giudiziario-carcerario, che sta procedendo sotto la guida dell'ambasciatrice
Jolanda Brunetti.
A sostegno del governo provvisorio messo su dagli imperialisti opererebbero al
momento 9.000 soldati NATO, 19.000 delle forze armate americane e i 35.000
appartenenti al nuovo Esercito Nazionale Afgano, più 400-600 contractors
assoldati da una decina di aziende militari private.
È a questi più di 60.000 uomini al soldo degli interessi imperialistici che si
confronta la resistenza in Afghanistan.
La breve analisi che qui pubblichiamo dà una quadro sintetico dell’attuale
situazione di difficoltà dell’occupazione multinazionale del paese asiatico e
della vivacità della resistenza.
AFGHANISTAN: LA CAMPAGNA DI PRIMAVERA
Sempre più fuori controllo la situazione nel paese occupato dalla coalizione
Di Txente Rekondo - Gabinetto Basco di Analisi Internazionale (GAIN)
Abituati come siamo a ricevere notizia riguardo a campagne od offensive che dal
comando militare statunitense e i suoi alleati si avviano in Iraq o Afghanistan,
in questi giorni stiamo assistendo a quello che si potrebbe denominare “la
campagna di primavera”, però i suoi promotori sono stati questa volta i
movimenti armati contrari alla presenza militare straniera sul suolo afghano.
Sono già alcuni mesi che si stava prevedendo questa escalation militare da parte
dei talebani e a ciò ha contribuito tutta una serie di fattori convergenti con
la strategia disegnata da quella che viene definita la direzione nazionale di
questo movimento. In queste settimane abbiamo assistito nel paese asiatico a
ogni tipo di attacchi contro accampamenti militari, polizia e esercito afghani,
funzionari dell’intelligence, religiosi contrari alla politica taliban. Tutto
questo contribuisce a presentarci una fotografia dell’Afghanistan lontano dalla
normalità che ci vogliono presentare, una supposta normalità sociale e politica
(come l’avvio del nuovo parlamento) che oltrepassa appena i limiti della zona
della capitale controllata dalle forze straniere.
Decine di attacchi giornalieri, autobombe, attentati suicidi, sequestri,
imboscate, sono da tempo la consuetudine nella maggior parte del paese; e
assieme a questo anche la constatazione del cosiddetto “effetto Iraq”, vale a
dire l’uso di tecniche e materiali molto simili a quelli che utilizza la
resistenza in Iraq.
Fattori
L’offensiva di primavera è stata lanciata in forma di strategia
unificata, attaccando sotto un unico comando differenti province e distretti del
paese.
Gruppi di cento o duecento talebani hanno attaccato simultaneamente più di
dodici obiettivi. In questa congiuntura si osserva anche un cambio importante
nella strategia. Se prima si lanciavano attacchi dalle basi in Pakistan, per poi
tornare a ripiegare dopo gli stessi, adesso le forze della resistenza afghana
cercano di consolidare basi dentro il paese al posto della precedente tattica di
“colpire e ritirarsi”.
In questo modo hanno ottenuto l’appoggio della popolazione locale, il che unito
alla capitalizzazione di questioni congiunturali (prese in giro al Corano, rogo
pubblico di talibani da parte di soldati USA, o le vignette su Maometto) gli
permette di continuare con il piano tracciato, che secondo alcune fonti locali
non sarebbe altro che il prendere il controllo della maggior parte delle zone
rurali dell’Afghanistan entro quest’inverno.
Un altro fattore che può complicare seriamente la politica del governo afghano e
dei suoi alleati stranieri, e pertanto favorire la campagna di resistenza, è
l’annuncio del potente Gulbuddin Hekmatyar (antico alleato di Washington ed ex
ministro dell’interno afghano) che ha chiamato a unirsi alla lotta della
resistenza, contro gli Stati Uniti. Con questo movimento il leader afghano fa
causa comune con i talebani, ma senza integrarsi con i medesimi.
Bisogna anche sottolineare le nuove alleanze militari che si sono consolidate
recentemente. Così, qualche settimana fa ha avuto luogo una riunione a Barawal
Bandey, alla frontiera pakistana, dove si è costituito un “consiglio di guerra”
con l’obiettivo di formare un’alleanza e attaccare principalmente le truppe
britanniche nella provincia di Helmand, così come di cercare la cooperazione di
vari gruppi per aumentare gli attacchi in differenti parti dell’Afghanistan.
Gli accordi con alcuni “signori della guerra” hanno permesso anche che i
talebani raggiungano importanti vantaggi. Quei signori della guerra che
all’inizio combattevano i talebani hanno cambiato postura, e in questo modo la
“situazione di calma” dopo l’accordo gli permette di continuare il loro
commercio e produzione di oppio, mentre i secondi consolidano le loro basi.
Per concludere è opportuno sottolineare anche altri due fattori chiave per
capire l’offensiva. Da un lato la nomina di Jalaluddin Haqqani come massimo
responsabile militare dei talebani. La figura di Haqqani gode di un importante
rispetto tanto fra i signori della guerra quanto tra la popolazione afghana, che
lo ricordano ancora come uno degli eroi della guerra contro i sovietici.
Dall’altro lato troviamo la capacita della resistenza afghana nell’unificare
tribù pakistane, che storicamente sono state in lotta, sotto una stessa
bandiera. Attualmente i Wazirs e i Mehsuds lottano dalla stessa parte dei Dawar.
Questa situazione ha una grande importanza strategica poiché permette ai
talebani di continuare a consolidare il cosiddetto “stato islamico di Waziristan”
in territorio pakistano, da dove possono lanciare le loro offensive ed
espandersi alle provincie afghane. Inoltre con un’amministrazione propria, con
un sistema giudiziario, poliziesco e di raccolta delle imposte, questo modello
cerca di essere ampliato per tutto l’Afghanistan.
Relazione
Da qualche giorno è stata pubblicata una relazione in cui si segnala che le
imprese statunitensi si stanno arricchendo “per fare un pessimo lavoro”, con la
qual cosa si starebbe ripetendo l’esperienza dell’Iraq, dove il fenomeno di
“enronizzazione” è la migliore definizione della situazione.
Mentre le compagnie costruttrici si riempiono i propri portafogli il popolo
afghano “si mostra ogni volta più frustrato e adirato con questo tipo di
attuazioni”.. Mentre le imprese guadagnano migliaia di dollari al giorno, gli
afghani che lavorano per queste ricevono solo cinque dollari.
Il disastro che avvolge questa politica di costruzione straniera è rappresentato
con chiarezza da alcuni degli esempi segnalati dalla relazione: un’autostrada
che si è sgretolata prima di essere terminata, una scuola nuova alla quale è
crollato il tetto, una clinica senza materiali, fattorie cooperative che non
possono essere utilizzate dagli agricoltori. E a questo dovremmo aggiungere la
privatizzazione di servizi come l’insegnamento, in questo caso dell’università
privata inaugurata a Kabul, la quale probabilmente non può essere frequentata
dalla maggior parte degli afgani.
Il panorama è abbastanza chiarificante, “ci troviamo davanti alla caduta libera
dell’Afghanistan” anzitutto, e inoltre è evidente che “la maggioranza del popolo
afghano crede ogni volta meno nella cosiddetta comunità internazionale”.
Il governo afghano e i suoi alleati sono stati incapaci di soddisfare le
richieste del popolo, non sono neanche riusciti a conquistarsi la popolazione
civile, e in più la loro politica di dipendenza assoluta nei confronti “della
presenza militare straniera”, non fa che aumentare il rifiuto popolare verso di
loro. Al contrario, in buona parte del paese, si continua a chiamare
“Amir-ul-Mumenin” (il leader di musulmani) il Mullah Omar.
I gruppi talebani hanno raggiunto il controllo di alcune aree con grande valore
strategico, e anche di differenti distretti afghani. Alcune fonti locali
segnalano che la provincia di Helmand sarebbe per la maggior parte sotto il
controllo talebano, mentre anche in altre parti essi si sono convertiti in un
“potere di fatto”, approfittando dell’assenza dello stato centrale e
dell’incapacità di questo nel ricuperare la situazione. Le province di Paktia,
Khost e Zabul si trovano anch’esse in una situazione similare.
Se i talebani raggiungono i loro obiettivi, non è difficile predire un futuro complicato per il regime di Kabul e parallelamente per le truppe straniere che lo sostengono. La storia afghana mostra con chiarezza che questo popolo non ha mai accettato nessuna tutela straniera, per cui se la storia si ripete, i militari di Bush e i loro alleati sarebbero alle porte di un duro inverno, probabilmente dopo un'estate molto dura anch’essa.
24.05.06
Txente Rekondo
Gabinetto Basco di Analisi Internazionale (GAIN)
[Tratto da: La Haine, www.lahaine.org]
Afghanistan, la conferenza di Londra e il dopo-ottimismo I rappresentanti di 51
nazioni, 12 organizzazioni internazionali e 17 osservatori hanno trattato i
problemi dell’Afghanistan nella conferenza di Londra conclusa il 1° febbraio
scorso. Presiedevano il segretario generale dell’Onu Kofi Annan, il
presidente afgano Hamid Karzai e il premier britannico Blair. Per gli Usa ha
partecipato il segretario di Stato Condoleeza Rice e per l’Italia il
sottosegretario agli Esteri Margherita Boniver. I risultati, in buona parte
già noti alla vigilia, si sono concretizzati soprattutto negli aiuti
finanziari concessi dai vari Paesi. […] [tratto da: www.paginedidifesa.it, a firma di Franco Apicella] |