SENZA CENSURA N.20
luglio 2006
editoriale
Nelle nostre discussioni, in Redazione ma anche
in ogni occasione di confronto che ci capita al di fuori di essa, emerge
costantemente un disorientamento generalizzato sulla prospettiva del lavoro
politico che viene fatto e su come impegnare con profitto le poche energie a
disposizione, “quel per chi e per cosa” che sembra accompagnarci giorno per
giorno.
Eppure, ormai sembra talmente chiaro il quadro, sono tali e tante le
ingiustizie, le prevaricazioni, le violenze che vediamo tutti i giorni sia sul
piano locale che su quello nazionale ed internazionale, che trovarsi in
difficoltà sul che fare sembra un controsenso, sembra disorientarci ancora di
più.
E’ come se ci fosse un vuoto, un buco, tra la più semplice esigenza di
miglioramento presente nella coscienza di ognuno di noi, fatta di giustizia,
di solidarietà, di uguaglianza, di dignità, e la realtà dentro a cui viviamo e
che fatichiamo a smuovere, a contaminare, a trasformare.
Eppure non è una questione di numeri: sono tantissimi, siamo convinti di
questo, i compagni e le compagne impegnati/e ogni giorno in tantissime
attività, più o meno rilevanti, più o meno visibili, ma certamente
caratterizzate dalla stessa voglia di trasformazione, dalla stessa
insofferenza per l’oppressione soffocante di un sistema che lascia sempre meno
spazi fuori dal suo controllo. Compagni, militanti politici, proletari,
lavoratori, precari, disoccupati, studenti, madri, padri, immigrati,
prigionieri, sfruttati… quanti siamo? Tantissimi, ognuno che combatte la sua
battaglia di resistenza fin dove può, fin dove riesce, ogni giorno.
E solo ogni tanto, sembra quasi per incanto, tutte queste diversità si
incrociano, riconoscendosi in qualche grande momento di piazza su temi
unificanti, senza che nessuno riesca a rappresentarle e ad organizzarle, senza
riuscire a rappresentarsi ed organizzarsi, per poi tornare nuovamente a
sciogliersi in mille rivoli, lasciando di solito i più diversi ceti politici a
disputarsi qualcosa di ormai dissolto.
Oppure altre volte sono singole lotte, specifiche contraddizioni che sfuggono
al controllo di tutti, magari grazie al lavoro di pochi militanti e alla
grande incazzatura di molti, e richiamano a sé l’attenzione di tutti per la
forza, l’energia, l’originalità che sprigionano.
Indipendentemente dagli esiti e dal carattere resistenziale delle singole
esperienze, a nostro avviso rappresentano sempre salti in avanti che
definiscono delle soglie di autonomia importanti.
Questa è la caratteristica comune a tutte queste esperienze (e ce ne sono
state diverse in questi ultimi anni): avere rotto le soglie di compatibilità
stabilite e avere costretto la controparte all’inseguimento.
Le difficoltà descritte all’inizio non pensiamo nemmeno possano essere
semplicemente ridotte al fatto che la controparte è troppo forte. Certo, più
forte di noi lo è sicuramente, è ovvio. Ma non così forte da riuscire a
risolvere le proprie contraddizioni, né da riuscire a mascherarle. Non è solo
convinzione ideologica (sono tanti anni che il saggio di profitto cade,
tendenzialmente…): è la realtà che ci dimostra ogni giorno il fallimento
economico e sociale del sistema del profitto. La loro forza sono costretti ad
impegnarla tutta per far continuare a girare il sistema e, sempre di più, per
difenderlo. Ma ognuno di noi sa, capisce, vive sulla propria pelle questo loro
fallimento.
Un fallimento che non può meccanicamente generare il superamento stesso del
sistema attuale. La controrivoluzione ha determinato un pensiero comune nella
classe molto diverso da quello che ha contraddistinto il fervore e la grande
dinamicità dei cicli di lotta passati. Cicli di lotta sviluppatisi all’interno
di fasi di accumulazione, dove la prospettiva, il sentire comune, era
rappresentato da una visione di miglioramento possibile delle proprie
condizioni di vita. Ben diverso dall’oggi dove pare prevalere, forse anche
giustamente, una visione ben più pessimistica, rappresentata dal rischio di
peggiorare, di cadere ancora più in basso nella scala sociale, di perdere quel
poco che in passato è stato possibile raggiungere. E così l’arroccamento, la
incosciente ma inesorabile partecipazione alla difesa della fortezza con la
speranza che questa rappresenti la difesa stessa dei propri interessi.
Dal nostro punto di vista il grosso problema è un altro.
C’è un tumore, che cresce da molti anni, e che si propaga, si diffonde sempre
più vicino a noi, come una metastasi. Un tumore che toglie energia alla nostra
rabbia, che limita la nostra prospettiva e che diventa uno strumento sempre
più importante ed efficace nelle mani del nemico.
Questo tumore è il riformismo.
Anche in questo caso non ci riferiamo ad un concetto astratto, ideologico, ma
a qualcosa di ben presente ed identificabile.
Ci riferiamo ad un quadro politico, quello della sinistra istituzionale, di
tutta la sinistra istituzionale, che negli ultimi trent’anni ha suicidato la
più grande organizzazione popolare a livello europeo, il PCI, in cambio di uno
sdoganamento istituzionale che gli ha consentito di andare al governo e di
coprire le più alte cariche dello Stato.
Un quadro politico che ha smantellato scientificamente ogni forma di
organizzazione di classe, sterilizzandone ogni spinta propulsiva ed
annichilendola nella più becera burocrazia.
Un quadro politico che ha contribuito fattivamente, con il proprio progressivo
e complice arretramento, allo smantellamento di tante conquiste economiche e
politiche in ogni campo della vita sociale di questo paese.
Un quadro politico che, in questi anni di difficoltà e di arretramento, ha
imposto il proprio piano di prospettiva come l’unico possibile e ha trascinato
nella propria ambigua strategia di “opposizione”, migliaia di quadri politici
di base, togliendo loro progressivamente qualsiasi tensione all’autonomia e
trasformando ogni “sicuro riparo” dalle intemperie, in trappole letali.
Un quadro politico responsabile, tutto, di aver istituzionalizzato questo
ruolo di “opposizione” e di aver contribuito negli ultimi anni, anche
attraverso un becero ed estenuante dibattito sulla violenza e sulla legalità,
a collocarlo all’interno di un sistema, quello bipolare, che non lascia spazio
ad alcuna reale opposizione. Un bipolarismo che non può e non deve essere
visto unicamente come interno allo scontro borghese ma che agisce
inesorabilmente in chiave controrivoluzionaria su tutta la classe e la sua
soggettività.
Una situazione generale in cui le stesse esperienze più avanzate di lotta e il
loro agire nella ricerca di una prospettiva di superamento, rischiano di
andare a determinare il mantenimento del sistema stesso se non tendono verso
un chiaro ed inesorabile percorso di rottura nei confronti del riformismo,
limitando invece il proprio intervento a dove le precedenti risposte borghesi
alla crisi (e/o la gestione delle contraddizioni) dimostrano i propri limiti,
rischiando di “togliere loro le castagne dal fuoco”.
In una frase, la critica al sistema se ha come unica prospettiva il sistema
stesso, diventa sempre funzionale unicamente al suo mantenimento e alla sua
riproduzione.
Ma lo abbiamo già detto: nonostante loro è un sistema che cigola.
Non lo diciamo per convinzione fideistica, ma perché noi siamo certi che le
tante scintille di autonomia che abbiamo registrato in questi anni siano tutt’altro
che spente, e vengono invece alimentate ogni giorno dalla pesantezza delle
contraddizioni sociali ed economiche che questo sistema impone.
Noi dobbiamo soffiare sul fuoco.
Questo deve essere il nostro piano di prospettiva, in questa direzione va
investito il nostro lavoro politico, questo dev’essere il metro di misura con
il quale verifichiamo l’utilità del nostro intervento.
Ma anche in questo caso non possiamo affidarci a facili meccanicismi sperando
in una autodistruzione del sistema stesso o meglio non valutando la
possibilità che la sua degenerazione sia una scelta obbligata per il suo
stesso mantenimento, e quindi “governata” con decisione.
Ci troviamo quindi nella condizione di dover affrontare la responsabilità di
trovare la strada, di indicarla e provare a percorrerla, verificando,
definendo di volta in volta un bilancio serio e costruttivo per l’avanzamento.
E’ fondamentale in ogni esperienza, piccola o grande che sia, tentare di
forzare i limiti, le compatibilità, determinare delle rotture, dei salti in
avanti. Non tanto nella forma, ma nella sostanza! Invertire, insomma, questa
tendenza che oggi pare, al contrario, essere fatta di continui arretramenti,
di continue rinunce, di continui compromessi, di continue “legalità”…
Certo, questo lavoro va fatto con intelligenza, senza inutili “estremismi” o
scorciatoie: il criterio di base che deve muovere ogni militante è cercare di
salvaguardare sempre, nel rispetto delle diversità, l’unità e la solidarietà.
Combattere l’opportunismo è possibile, ma solo se nel contempo si ricostruisce
una pratica e una cultura di solidarietà e di complicità che ci sostenga negli
errori che inevitabilmente verranno commessi nel cammino e che ci preservi
dagli inesorabili attacchi che subiremo e che subirà, come stiamo vedendo
negli ultimi mesi, ogni esperienza che sceglie di muoversi fuori da queste
compatibilità blindate.
Pensiamo che l’attuale fase imponga un dibattito franco e serrato di bilancio
sulle esperienze di lotta che si sono sviluppate negli ultimi anni ed una
riflessione sui percorsi politici intrapresi dai compagni, con il fine di
mettere al centro del rilancio dell’iniziativa politica di orientamento
rivoluzionario la questione della prospettiva, del metodo e del contenuto
della pratica in un paese del centro imperialista come l’Italia.
Senza una discussione adeguata è impensabile fare dei passi in avanti che
affrontino l’annosa questione del perché tutti abbiamo il fiato corto in una
realtà che per quanto sembra gravida di contraddizioni esplosive, rischia di
essere sempre più manchevole di ossigeno.
Non ci sentiamo orfani di nessuna istanza politica organizzata precedente, né
naufraghi nell’isola salvifica della politica istituzionale su cui vige il
protettorato della Sinistra, ma il “navigare a vista in un mare in tempesta”
non ci ha ancora fatto gettare la bussola ai flutti.
Certamente non ci possiamo limitare a criticare gli errori altrui,
attribuendogli la responsabilità della nostra scarsa capacità incisiva e
costruttiva.
L’internità ai presenti e futuri movimenti politico-sociali, contribuendo allo
sviluppo di una visione complessiva dello scontro, di un metodo di lavoro che
non deleghi ad alcuna forza istituzionale o para-istituzionale la costruzione
della propria autonomia, di una sedimentazione di esperienze organizzative in
grado di perdere il carattere esclusivamente locale e transitorio (come quelle
che si danno naturalmente i proletari durante una lotta specifica) è di vitale
importanza per porre le fondamenta per uno sbocco realmente incisivo della
pratica rivoluzionaria.
I passi in avanti del movimento reale devono essere potenzialmente dei punti
di non ritorno, in cui il prodotto dello scontro serva a sedimentare e ad
accelerare delle dinamiche di polarizzazione politico-sociale, se non si vuole
avanzare rapidamente per ripiegare altrettanto velocemente lasciando al nemico
maggiore spazio di quello che si è riusciti a conquistare.
Il lavoro di costruzione di punti di riferimento per la classe, sempre più
cosmopolita e precaria anche nel nostro paese, non deve rimandare la questione
dell’organizzazione oltre la linea dell’orizzonte perscrutabile né d’altra
parte si deve illudere di formalizzare nell’immediato l’ “Organizzazione” dei
rivoluzionari.
“Attendismo” e “immediatismo” sono due soluzioni opposte e speculari che
cercano di risolvere un problema reale: ma né unicamente lo sviluppo delle
contraddizioni oggettive, né unicamente lo sviluppo della volontà soggettiva,
lo risolvono. Pensiamo che il processo rivoluzionario sia piuttosto una lotta
di lunga durata che fa proprie, nel suo superamento, il patrimonio di vittorie
e di sconfitte di coloro che hanno dato l’ “assalto al cielo”, così come il
peso reale della controrivoluzione preventiva all’oggi.
Ma nel lavoro di costruzione siamo ancora un gradino sotto; forse perché è
necessario ancora scandagliare i processi di formazione di coscienza del
proletariato oggi e la costruzione di una identità rivoluzionaria adeguata
alla complessità del reale, per potere chiarire il rapporto in divenire tra il
soggetto sociale di riferimento e i compagni che si muovono nella direzione
della trasformazione radicale degli attuali rapporti sociali.
Le contraddizioni diventano sempre più omogenee e la porzione multinazionale
della classe è sempre più il ponte di comunicazione tra i bisogni espressi dal
proletariato della periferia integrata e quello della metropoli.
La guerra al terrorismo a tutto campo condotta dall’imperialismo non dà tregua
in questo senso alla possibile saldatura tra i due fronti dal punto di vista
soggettivo, alimentando la barbarie delle guerra di tutti contro tutti nel
centro dell’Europa come nei paesi che occupa militarmente, anche se, è sempre
bene ricordarlo, c’è una differenza qualitativa importante tra la guerra
guerreggiata, la guerra a bassa intensità e le strategie di controllo sociale
nella metropoli: anche se sempre più si intrecciano e sono chiamati ad agirla
gli stessi soggetti.
E’ necessario superare l’euro-centrismo e lo sciovinismo metropolitano ad esso
connesso, “imparando ad imparare” dai movimenti del “primo mondo” così come
dalle lotte dei popoli del tricontinente, per riaffermare sempre, in ogni
momento di resistenza, la distanza, se possibile l’inimicizia, da questo
sistema e da tutti i suoi sostenitori.
Buon lavoro a tutti/e!