In concomitanza con il convegno sui
Balcani (di cui sotto riportiamo un ampio resoconto) il 21 gennaio è stata
organizzata a Forlì una giornata di mobilitazione contro la Nato e le sue
politiche guerrafondaie. Numerose le strutture locali che hanno promosso
in mattinata un presidio nel centro città e nel pomeriggio un
controconvegno. Per ulteriori informazioni:
red-ghost@libero.it
La conferenza internazionale tenutasi a
Forlì il 20-21 gennaio è organizzata da soggetti di emanazione
universitaria (Università degli studi di Bologna che a Forlì vede
decentrata tra le altre, il corso di studi in Scienze politiche
internazionali e l’americana Johns Hopkins University che ha una sua sede
a Bologna), sostenuta dalle istituzioni locali e supportata dalla
divisione “Public Diplomacy” della NATO, dal Ministero degli Affari Esteri
italiano, dalla Regione Emilia Romagna.
Scopo dichiarato della conferenza era quello di analizzare la situazione
attuale nei Balcani e proporre raccomandazioni alle istituzioni politiche
al fine di permettere una più stabile gestione degli aspetti
istituzionali, economici e politici nell’area in oggetto.
La conferenza viene organizza nel primo giorno con 4 tavole rotonde
relative a 4 temi:
1) la dimensione politica - l’integrazione Europea ad un bivio: congelare
l’allargamento o rafforzare la strategia “tessalonica”
2) la dimensione costituzionale - costituzione e buon governo: quali le
sfide delle relazioni Centro-periferia
3) la dimensione economica - quali sono le opportunità per la cooperazione
economica nella regione e nell’area adriatica
4) la dimensione sicurezza - cosa significa sicurezza nell’area sud-est
europea? Quale il ruolo della NATO e della forza di interposizione europea
nella regione
Il secondo giorno, in riunione plenaria, vengono esposte le considerazioni
raggiunte durante le tavole rotonde.
Quanto emerge dalla riunione plenaria è un’oggettiva difficoltà a gestire
una situazione che non è stabilizzata pressoché in nessun punto preso in
considerazione.
La strategia di allargamento dell’Unione Europea verso l’area balcanica
nel suo complesso, non viene messa in discussione ma ritengono necessario
considerare tempi più lunghi di quanto previsto in virtù di una scarsa
fidelizzazione delle élite politiche, soprattutto locali, e della
popolazione nel suo complesso. Il suggerimento che la conferenza ritiene
di proporre è quella di un’azione mirata a gruppi target da identificare
soprattutto nelle istituzioni universitarie e nelle amministrazioni
locali, al fine di sensibilizzarle e fidelizzarle all’idea di Unione
Europe. Il compito di questi gruppi target è poi quella, di portare la
popolazione, tramite le funzioni che sono loro proprie e quindi
l’insegnamento e l’eventuale disponibilità di danaro, a considerare
l’Unione Europea cosa desiderabile.
In sostanza il tentativo è quello di creare una testa d’ariete che nel
medio-lungo periodo, sia in grado di trasmettere alle nuove generazioni le
idee, i metodi e il pensiero dell’”Europa che sta di qua”, e di incassare
il consenso delle élite politiche locali e della popolazione in generale,
tramite operazioni che vedono fondi elargiti dai paesi membri UE investiti
in opere molto probabilmente utili ma donati con smaccato intento
propagandistico.
La seconda tavola rotonda ha dovuto affrontare aspetti sicuramente più
complessi e per i quali non sono riusciti ad essere propositivi. L’aspetto
istituzionale/costituzionale è più difficilmente controllabile ma non è
sicuramente impossibile “fornire suggerimenti” per creare un assetto di
stabilità “amica”. Se non fosse che la costituzione multietnica
dell’intera area del sud est europeo, mette l’UE di fronte a questioni che
pare non avere i mezzi culturali per risolvere. Il ricco crogiuolo di
etnie aveva sepolto le asce di guerra della seconda guerra mondiale grazie
all’azione di Tito e alla lunga mano dell’URSS, ma è tornata, con la morte
del primo e la dissoluzione della seconda, a dissotterrare quelle stesse
asce in occasione degli ultimi eventi bellici e pare non volerle mettere
da parte.
In questo contesto l’idea della conferenza è quella di tentare di creare
quella che hanno definito una “coscienza civile e costituzionale” senza
però essere in grado di sviluppare il concetto. Le categorie che hanno in
mente appartengono probabilmente all’Europa degli Stati nazionali con
minoranze esigue, a volte riconosciute e tutelate, perché non pericolose
per l’integrità dello Stato, a volte perseguitate, quando l’integrità
dello Stato viene messa in discussione. Si rendono pertanto conto che
l’operazione non può essere di pura ingegneria costituzionale ma anche
culturale. Ma qui alzano impotenti le mani.
Dove non alzano le mani è su tutti gli aspetti economici che riguardano
l’area. Il rapporto dettagliato della situazione mostra a chiare lettere
un mercato semivergine che pur presentando oggettive difficoltà offre a
chi fosse lungimirante, opportunità difficilmente reperibili così vicine a
casa.
I bassi salari a fronte di una forza lavoro altamente specializzata, la
futura privatizzazione di tantissime ex aziende e servizi di stato, la
futura liberalizzazione dei mercati nella regione, la creazione di zone di
libero scambio oltre alla massiccia presenza italiana all’interno degli
istituti di credito balcani, vale sicuramente le difficoltà di investire
in un mercato ancora poco sviluppato, in un economia con un deficit per
ora altissimo ed in un contesto istituzionale instabile.
Cosa serve quindi a un quadro così dipinto? Fiducia.
Gli investitori “occidentali” stentano ancora a fidarsi della situazione
perché ritenuta appunto instabile dal punto di vista istituzionale e della
sicurezza. Viene quindi chiamata in causa la quarta tavola rotonda: quale
il ruolo militare nell’area: fornire sicurezza o meglio senso di sicurezza
in modo diretto, e quindi con la loro presenza in aree economicamente
strategiche, e in modo indiretto attraverso l’addestramento delle forze
dell’ordine locali. Resta comunque necessaria la forza di interposizione,
almeno fino a quando non saranno riusciti a sotterrare le asce del
conflitto interetnico di cui sopra.
Sanno, lo hanno detto, che avere appoggiato le élite nazionaliste è stato
molto utile in tempo di guerra sia dal punto di vista delle strategie
militari ma soprattutto per quelle mediatiche, e sanno altresì che ora
forse è meglio cambiare cavallo e cercare/creare una classe dirigente più
moderata, che smetta di dar fuoco alle polveri del nazionalismo e che
accetti “le opportunità che l’Unione Europea offre loro”.
Si tratta quindi di nascondere un po’ ma non troppo le armi, quelle che
sparano, per cominciare una guerra silenziosa che nessun media riporta, e
che quindi non esiste, ma che forse è più distruttiva di quella fatta con
le bombe. Si tratta di distruggere un’identità, una cultura forse anche
una storia per sostituirla con un’altra, decisa dai paesi che quella terra
sono andati a prendersela con le armi. |