SENZA CENSURA N.19
marzo 2006
Le basi del terrore
Le basi militari e la guerra al terrorismo
L’utilizzo di forme esterne al diritto penale
borghese, le carcerazioni o i provvedimenti amministrativi, l’utilizzo di
corti militari o speciali, di forze militari negli interventi interni
antiterrorismo, determinano nella sostanza un superamento netto della lotta al
terrorismo in «guerra al terrorismo».
Non diverso da quanto la storia ci ha insegnato e violentemente mostrato come
frutto della guerra a bassa intensità dei vari governi americani perpetrata in
America Latina, Asia e Indonesia. Non ultima l’Europa dove le basi hanno
svolto, anche nel nostro paese, la punta avanzata dei progetti
controrivoluzionari americani.
Non vogliamo però appiattirci sul piano etico e morale che tende ad essere
riassorbito all’interno delle compatibilità, ma anzi allargare e ricollocare,
quanto emerge alla luce dei fatti odierni, nello sviluppo stesso
dell’imperialismo e nelle conseguenze di questo.
La discriminante di fondo non vuol tanto essere elitaria, ma quanto rifiutare
in ogni modo l’esistenza della necessità di una lotta al terrorismo da
adottare con mezzi maggiormente democratici di quelli attuali, evitando così
di collocarsi all’interno delle diverse visioni delle forme di guerra presenti
al banchetto dove si abbuffano e litigano le fazioni imperialiste, ritenendo
ad oggi quanto mai necessario rendere chiara quella linea di demarcazione che
separa i settori dell’opportunismo dal «campo della rivoluzione».
Un processo che ad oggi non può non fare i conti con la necessità di prendere
in mano un dibattito che tende ad appiattirsi al massimo attorno al rispetto
dei diritti umani, peraltro ridefiniti e messi in discussione ogni qualvolta
la necessita’ di mantenimento e riproduzione del sistema lo richieda, o
altrimenti eccessivamente sottaciuto forse per timore di non cadere
nell’opportunismo stesso.
Ma il problema dell’uso delle basi in Europa per il trasferimento, gli
interrogatori e la detenzione di prigionieri di guerra apre parallelamente sui
nostri territori due fronti di intervento con la conseguente possibilità di
collocare le eventuali tensioni positive su un piano sicuramente meno
arretrato di quello attualmente proposto. Da una parte le basi rappresentano,
a questo punto, non solo una parte della struttura logistica del fronte
esterno, ma vanno a collocarsi prepotentemente nella dialettica che questo
sviluppa con il fronte interno; dall’altra si rafforza la possibilità di
smascherare la vera ragione della presenza delle basi straniere nelle varie
parti del mondo, rafforzando cosi le stesse coalizioni internazionali che si
stanno adoperando contro la presenza delle basi militari.
Se il fronte esterno viene oramai a trovarsi sovrapposto a quello interno
nelle forme e nei modi con cui l’imperialismo combatte il nemico nel suo
ventre, l’utilizzo delle basi, la tortura, non possono che rappresentare la
necessità di utilizzare tali metodi e strumenti, e di conseguenza pongono al
centro l’esigenza, per l’imperialismo, di una ridefinizione generale di quanto
consentito. Lasciare all’opportunismo o al silenzio quanto sta succedendo crea
un terreno favorevole a chi sta tentando di generalizzare una sovrastruttura
repressiva che recepisca in pieno, non tanto le forme, ma quanto i principi
stessi della guerra al terrorismo. La stessa intellighentia imperialista si
sta da tempo spendendo in convegni, seminari e studi attorno al tema di lotta
al terrorismo e rispetto dei diritti umani, in un teatrino dove la situazione
è messa in discussione più nella forma che nella sostanza, approccio che
ritroviamo in molta della sinistra nostrana non solo istituzionale.
In uno di questi materiali del International Policy Institute for
Counter-Terrorism si legge chiaramente questa tendenza e quanto si vada verso
il completamento di una totale integrazione della sovrastruttura repressiva
nella macchina da guerra. In maniera sufficientemente dettagliata è criticata
l’eventuale possibilità, a discrezione, di violare i «diritti umani»
(categoria di cui a noi ancora sfugge il significato e il valore), per
proporre in maniera altrettanto precisa la possibilità, attraverso apposite
leggi da formulare e che ne contengano i motivi, di sospendere alcune garanzie
«borghesi», ... ma sempre razionalmente connesso all’obiettivo.
Negli ultimi mesi abbiamo visto come le basi militari sono entrate a far parte
in maniera più evidente che in passato della logistica della macchina da
guerra al terrorismo, indipendentemente dal fronte di intervento. Non poteva
che essere così e tutto andava in questa direzione. L’allargamento delle basi
ad est e in Asia, la stabilizzazione della presenza militare come forza di
occupazione nelle ex zone di guerra, il nuovo ruolo della Nato, avevano già
chiaramente tracciato un quadro in cui la presenza militare era ed è parte di
una strategia più complessiva che tende a far superare agli interessi
nazionali i confini della nazione stessa, intesa in questo caso come entità
imperialista. I compiti non sarebbero stati solo militari ma avrebbero visto
un diretto coinvolgimento della borghesia imperialista nei processi di
stabilizzazione e «democratizzazione», e non ultimo, dare la caccia al
terrorista dovunque questo si trovi. E’ conseguente che, la presenza stessa
delle basi rappresenta la penetrazione e la ramificazione imperialista della
guerra al terrorismo e non può che rispondere a quanto necessario al suo
combattimento.
Colpisce lo stupore con il quale le istituzioni europee hanno ricevuto la
notizia dalla stampa americana prima ed europea dopo, quanto la necessità di
dover porre ai governi nazionali, attraverso i propri rappresentanti, una
serie di domande in merito alla eventuale conoscenza dei voli e dell’eventuale
presenza di prigionieri o trasferimenti.
Già dal mese di Luglio 2005 alcuni giornali avevano riportato notizia da fonti
ben informate che due Lockheed Martin C130 affittati dalla CIA tramite la
Tepper Aviation venivano utilizzati per trasportare prigionieri in Europa.
Praga nel 2004, Tenerife nel 2003, Francoforte sempre nell’agosto dello stesso
anno e nel dicembre del 2001, Glasgow nel marzo del 2003 e nel novembre 2004,
e sempre Francoforte due volte nel gennaio 2003 e nel novembre 2002. Il 21
Gennaio del 2003, un volo fu intercettato dai jet austriaci diretto a Baku in
Azebaijan.
Oltre 200 i voli transitati dalla Gran Bretagna. Solo la Germania, secondo Der
Spiegel è stata interessata da 437 voli Cia. Il caso è stato denunciato da
Khaled al-Masri prelevato in Macedonia nel 2003. In Spagna, Portogallo,
Irlanda, sono decine i voli segnalati con le relative destinazioni.
Altri voli transitati dalla Danimarca, compresa la Groenlandia, sono
sospettati di essere voli trasporto Cia per mezzo della Wells Fargo Bank,
Devon Holding and Leasing, Blackwater Aviation, Aviation Worldwide Services di
Melbourne sussidiaria della precedente, Kramer Investment Co, Jefferson
Financial Company, Aircraft Guaranty Corp Trustee, e molte altre.
Molti voli provenivano inoltre dalla Turchia, con i quali sono stati
trasferiti prigionieri consegnati alla CIA dalle forze di sicurezza turche.
Tra le destinazioni dei voli vengono indicate le basi di Taszar in Ungheria,
vicino Pecs; Lv’iv, Ucraina; Szczynto-Szymany, Polonia; Skopje, Macedonia;
Mihail Kogalniceanu in Romania; Tbilisi, Repubblica di Georgia; Shkoder,
Albania; Burgas, Bulgaria; e Markuleshti in Moldova.
Durante il sopralluogo nella base Mihail Kogalniceanu in Romania, da quanto
risulta da alcuni organi di stampa, la sensazione era di vuoto e nessuna
traccia del passaggio di prigionieri è stata trovata, e non ne dubitavamo, ma
nemmeno quella di soldati americani, forse un po’ più «sospettosa».
Secondo Al Jazeera, i prigionieri che erano presenti nelle basi dell’est
Europa sono stati prontamente trasferiti in alcuni paesi nordafricani. Tale
notizia è riportata anche da altre agenzie stampa che parlano della chiusura,
nel mese di novembre, delle prigioni nell’est europeo per essere trasferite in
Nord Africa insieme ai presunti undici prigionieri presenti in quel momento.
Il portavoce del governo marocchino ha prontamente negato di essere a
conoscenza di tali progetti mentre il silenzio ha contraddistinto la strategia
di Algeria e Tunisia. Ma da numerosi fonti viene affermato che i prigionieri
sono stati trasferiti nelle prigioni in Marocco fatte costruire da re Hassan
II per le torture e gli interrogatori degli oppositori.
Sull’esistenza dei «black sites» in Europa troviamo un fax inviato dal
Ministro egiziano agli affari europei all’ambasciata egiziana a Londra che
confermava l’esistenza di prigioni segrete in Romania, Bulgaria, Ucraina,
Kosovo e Macedonia
La lettura della relazione della Commissione d’inchiesta del consiglio europeo
pone più certezze che dubbi sulla eventuale conoscenza che i governi o parti
di essi avevano sui voli della CIA, ma a quanto pare l’unico problema è che
tutto ciò sia venuto a conoscenza della opinione pubblica.
Quello che emerge ancora una volta è la domanda se il modello da applicare
nella lotta al terrorismo debba rimettere in discussione l’utilizzo legittimo
o meno di alcune forme ritenute lesive per il prigioniero e ritenere i suoi
diritti subordinati all’interesse principale.
Non dovevano poi porsi molte domande ed andare molto lontano. Bastava tornare
indietro nel tempo alla scomparsa di Abu Omar in pieno giorno a Milano, o
altrimenti alle denunce di Mohamed Daki sulla presenza di personaggi della CIA
durante i suoi interrogatori alla Procura di Milano.
E’ necessario proprio soffermarsi su quanto successo all’interno di quei paesi
che ad oggi chiamano ad inchieste e urlano allo scandalo per smascherare che
non è poi necessario andare in Egitto per trovare le stesse tecniche: davanti
alla guerra globale, al “terrorismo”, si globalizzano anche le forme più
consone ad affrontare questa fase!
Forse non avevano ben capito quanto affermato dall’agente della Cia Mr Baer,
intervistato da un giornalista inglese e riportato nell’inchiesta della Ue, il
quale ha affermato: se voglio un buon interrogatorio il prigioniero lo
spedisco in Giordania, se lo voglio torturare lo spedisco in Siria. Al di là
del solito puzzo di merda hollywoodiana, non poteva che essere chiaro.
O ancor prima non erano a conoscenza delle affermazioni di George Tenet del
2002 quando dichiarò, davanti alla Commissione sull’11 /9, che la CIA aveva
assicurato alla giustizia almeno 70 «terroristi» arrestati in tutto il mondo.
Già Reagan nel 1986 aveva autorizzato a prelevare sospetti da altri stati, ed
esistono documenti ancora classificati con cui Bush allarga ulteriormente la
«giurisdizione» dell’agenzia di intelligence. In una conferenza stampa del
Marzo di quest’anno Peter Gros della CIA aveva dichiarato che i trasferimenti
avvenivano per consentire una maggiore sorveglianza.
Ma quella che viene definita «Extraordinary rendition», il trasferimento fuori
dalle procedure di estradizione, aveva già visto durante l’amministrazione
Clinton la sua applicazione. Uno degli artefici di tale «architettura» per la
«gestione» dei prigionieri ha ammesso nel mese di marzo che i prigionieri
venivano trasferiti e torturati in Egitto, trovando molto conveniente che
altri facessero il lavoro sporco.
A confermare ulteriormente quanto detto è intervenuto il capo del
controspionaggio della Cia, Vincent Cannistraro, rivelando che i prigionieri
che non sono disposti a «cooperare» sono trasferiti in Egitto, ed anche la
minaccia spesso è di grande impatto sull’interessato.
Alcuni casi riportati riguardano un cittadino canadese torturato in Siria e
obbligato a confessare di essere stato addestrato in Afghanistan. Nello stesso
è riportata una denuncia contro la Svezia del Maggio 2005 per il trasferimento
in Egitto di due cittadini di origine Araba nel Dicembre del 2001, e di un
cittadino australiano arrestato in Pakistan nel 2002 e trasferito sempre nello
stesso paese.
Il documento riporta inoltre che la Gran Bretagna utilizza informazioni
ottenute sotto tortura passate dalle autorità uzbeke, oltre le accuse alla
Germania di aver utilizzato o meglio «esternalizzato» alcuni interrogatori ai
servizi libanesi e siriani.
Nonostante la conferma o meno dell’esistenza dei black sites in Europa sia
rimandata ad ulteriori indagini, minori dubbi vengono espressi nei confronti
della possibile esistenza di un doppio uso della base di Camp Bondsteel in
Kossovo, ritenuta una succursale di Guantanamo, dove fin dal 2002 vengono
segnalati “prigionieri di guerra”.
Se da parte nostra non ci sono dubbi sull’esistenza di tali luoghi e che tutto
questo rientra nella legittimità bipartisan al principio cardine nella fase
attuale di “guerra al terrorismo” rappresentato dal «non saranno sicuri in
nessuna parte del mondo», pensiamo sia importante vedere l’attuale espansione
della presenza Usa e Nato, attraverso le basi militari, in quei paesi che oggi
sono indicati come quelli che sono serviti per la detenzione di prigionieri.
Le Basi, lo sviluppo Nato e della
borghesia imperialista Usa
La Polonia pare rappresentare la punta di diamante come luogo dove
detenere e interrogare prigionieri.
Nel mese di novembre è uscita la notizia che sono in corso trattative con il
governo americano per l’installazione sul suolo polacco, al confine con la
Biellorussia, di una stazione di difesa antimissile.
Secondo la Pravda, Bush riesce con estrema facilità “ad imparare i nomi dei
paesi dell’est Europa e del Nord Africa” tanto da prospettargli una
candidatura al Nobel per la geografia. Ma l’interesse verso la Polonia sembra
superare tutti gli altri. La base in questione sembra che riscontri
l’interesse degli Usa fin dal 2002.
La Romania è sotto gli occhi dei riflettori per il sospetto che nella base
Mihail Kogalniceanu si siano svolti interrogatori di presunti «terroristi».Chiaramente
il tutto negato sia dalle autorità rumene, sia da quelle statunitensi. Dalle
dichiarazioni dell’ex ministro degli esteri in carica dal 2001 al 2004, Ioan
Mircea Pascu, si chiarisce che parte della base è off limits per le autorità
rumene, e i servizi di intelligence non possono operarvi in quanto la base
nella parte americana è sotto giurisdizione Usa, a tutti gli effetti
territorio americano. Nella stessa dichiarazione ammette però che piani di
volo che riguardano aerei verso Guantanamo, da o per la Romania, sono anche da
lui conosciuti. Nello stesso tempo il Ministero della Difesa ha negato che sia
stata mai data autorizzazione per la detenzione di prigionieri all’interno
delle basi, come se questo avesse bisogno di qualsivoglia reale
autorizzazione, tacita nel momento in cui si accetta e garantisce la presenza
di basi militari straniere sul proprio territorio in una fase di «guerra al
terrorismo».
La subalternità agli interessi dell’imperialismo americano, trova un’ulteriore
conferma nell’accordo siglato tra gli Usa e la Romania per la creazione di una
base stabile con una presenza di 2300 militari americani a rotazione. Plaudita
dagli Usa e dal governo rumeno, è stata dall’opinione pubblica direttamente
collegata allo scandalo delle «prigioni segrete» (... di Pulcinella!), ma non
è mancata l’occasione, da parte americana, per attaccare l’immobilismo critico
dell’Europa e la sua incapacità di dare risposte concrete.
La nuova base americana dovrebbe essere collocata presso la base aerea di
Constanta nelle vicinanze del Mar Nero e sarà denominata Eastern European Task
Force (EETAF). Secondo molti questa rappresenta la risposta al bisogno
americano di una presenza maggiore nei pressi di quell’ “arco di instabilità”,
per la politica Usa, rappresentato dal «movimento rivoluzionario islamico», in
una zona dove Cina e India stanno da tempo operando e stringendo alleanze con
la Russia. Rappresenta inoltre un avamposto per la proiezione nel «cuore del
Grande Medio Oriente». L’accordo dovrebbe prevedere l’utilizzo di altre tre
basi Smardan, Babadag e Cincu.
La base di Taszar in Ungheria, ha visto la presenza di militari Usa fin dal
1995 ed è stata usata per numerose operazioni in Bosnia. E’ stata utilizzata
dai militari per le esercitazioni e per le operazioni in Iraq. Attualmente è
una base Nato.
Molte basi sono state messe a disposizione degli Usa fin dall’attacco
all’Afghanistan, non concluso ma ben dimenticato da troppi.
L’Uzbekistan fin dal Luglio di quest’anno sta rivalutando la presenza militare
americana.
Questo sicuramente trova la sua ragione di essere nelle posizioni americane
nei confronti della repressione interna, e per il mancato pagamento di quanto
dovuto finora per la loro presenza. La base di Khanabad ha visto la presenza
di 1500-1800 forze speciali.
Il Governo uzbeko ha chiesto la fine dell’utilizzo della base senza che ci
siano state rimostranze dagli Usa. Questo, secondo molti, deriva dalla sempre
maggiore importanza che sta rivestendo la base di Bagram a nord di Kabul alle
cui strutture lavorano ininterrottamente da tre anni.
Da alcune fonti sembra che ci siano tentativi da parte russa di sostituire la
presenza americana nel mese di maggio di quest’anno e che nel mese di novembre
sia stato stabilito un vero e proprio accordo per l’uso condiviso di alcune
basi.
Il governo uzbeko ha inoltre posto seri dubbi per il futuro sulla possibilità
di sorvolo ed utilizzo del proprio territorio per la missione ISAF in
Afghanistan, dettati principalmente dalla politica di embargo europeo sulle
armi e dalla richiesta del visto a 12 ufficiali uzbeki a causa della
repressione delle rivolte di Maggio. Non è da dimenticare che anche la
Germania utilizza una base militare in Uzbekistan.
Il Governo kirgyso ha annunciato, nel mese di novembre, di voler rinegoziare
l’accordo per l’utilizzo da parte americana della Ganci Air Base presso
l’aeroporto di Manas vicino alla capitale. La ragione principale è da
ricercare nel tentativo di vedersi riconosciuti compensi maggiori per la
“disponibilità”
L’accesso anche solo per il futuro immediato alla base in Kyrgistan, secondo
le dichiarazioni del Cato Institute, noto centro studi americano, svolgerà si
un ruolo importante nella caccia al terrorista, ma nello stesso tempo avrà un
ruolo fondamentale nel mandare un segnale chiaro a Russia e Cina. Nella base
sono attualmente presenti 3000 militari Usa.
Il Kirgystan viene individuato dagli Usa come il degno sostituto dell’Uzbekistan
Collegata alla ridislocazione e riequilibro strategico, visti cambiamenti
verso e dall’Uzbekistan, troviamo il susseguirsi di conferme e smentite
sull’utilizzo di una base da parte Usa in Azerbaijan, che secondo alcune fonti
dovrebbe garantire inoltre sicurezza alle linee petrolifere.
Università e ricerca per il complesso militar-industriale
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