SENZA CENSURA N.19

marzo 2006

 

Il movimento contro la guerra ad un bivio: spunti di discussione

 

Una opposizione possibile e necessaria ai governi di guerra e ai differenti volti dell’imperialismo
Ad aprile scopriremo quale sarà il nuovo governo della guerra, e che avrà, almeno che non si sviluppi un movimento in grado di incidere realmente sulle scelte della classe politica dirigente, una sostanziale continuità con la politica bellicista di quello/i precedente/i.
La continuità o meno col corso politico attuale e la possibilità del movimento contro la guerra di determinare significative rotture, si misurerà prioritariamente con la presenza/ritiro dei contingenti italiani nei 3 principali teatri d’intervento: Iraq, Afghanistan, Balcani.
Ma le scelte politiche contingenti del governo, sono determinate da variabili strutturali dello stato italiano, aspetti su cui il movimento è chiamato a dar battaglia, così che i rapporti di forza tra proletariato metropolitano e borghesia imperialista in Italia determineranno anche il consolidamento/riconversione del complesso militare-industriale, l’ampliamento/evacuazione delle basi NATO, come degli altri apparati militari, sul territorio, nonché la militarizzazione/smilitarizzazione, o la cooptazione/sganciamento, di porzioni di classe lavoratrice ai fini di ordine pubblico, per non parlare dell’aumento/riduzione della quota di investimenti statali non destinati alle garanzie di riproduzione sociale.
Si tratta e si tratterà di una battaglia politica a tutto campo e di medio-lungo periodo, che si misurerà anche e non secondariamente sulla capacità dei istanze più avanzate di incidere positivamente all’interno dei movimenti sociali, tra cui appunto il movimento no-war, incrinare il monopolio di rappresentanza politica delle forze istituzionali moderate in seno alla classe, riuscendo a porre con forza la necessità di forme di lotta incisive e di un livello organizzativo che possa dialogare con le esperienze avanzate del proletariato a livello euro-mediterraneo e di fronteggiare l’azione repressiva dello stato.
Si tratta di dare uno sbocco ad una ipotesi di “rottura” che parta dall’attuale situazione di crisi del capitale, così come da quella del movimento rivoluzionario europeo, in grado di incidere sui processi di riorganizzazione complessiva dell’imperialismo sul territorio in cui ci troviamo, tenendo ben presente le proiezioni degli interessi italiani fuori dai confini e le mutazioni nella composizione di classe di un proletariato metropolitano sempre più precario e cosmopolita, nella situazione di vuoto “affollato” di sintesi politica delle lotte che esprime la classe.
Ci preme elaborare un programma non declamatorio e degli obbiettivi praticabili che facciano cooperare insieme compagni che si trovino d’accordo in primis sull’opposizione alla penetrazione imperialista nella periferia attraverso l’aggressione e l’occupazione militare - qualsiasi ombrello abbia - , la guerra a bassa intensità o l’ampia gamma di strumenti che vanno dalla più evidente guerra commerciale e/o l’embargo economico ai tentativi più sotterranei, ma non meno insidiosi, di penetrazione economica-politica nel tessuto sociale nella periferia in via di integrazione.
Pensiamo che tale “fronte” possa comprendere, al di là della collocazione soggettiva dei compagni, una porzione significativa della sinistra di classe.
In sostanza, si tratta di una lotta contro l’imperialismo, non solo contro il polo imperialista più forte, ma anche contro il polo imperialista europeo in formazione, e in particolare l’imperialismo “nostrano”, sia che sganci bombe, controlli i mari e invii eserciti di occupazione, sia che si ammanti dell’ipocrisia della “ricostruzione”, sia che agisca attraverso tutta la pletora di strumenti falsamente “pacifici” di cui dispone: dalle ONG, ai finanziamenti alle organizzazioni politiche, ai mass media, all’istruzione universitaria, agli enti di ricerca, ecc. ecc.

Obiettivi di fondo e scelte organizzative: alcune ipotesi
L’uscita dell’Italia dalla Nato, Il ritiro immediato delle truppe dagli scenari bellici, la smilitarizzazione del territorio e dei mari, la cessazione degli onerosi progetti di cooperazione a fini militari, devono essere obiettivi strategici a cui adattare le scelte tattiche contingenti e le priorità di intervento all’interno del movimento no-war, pena l’assumere il piano di compatibilità che la frazione di borghesia egemone all’interno del blocco sociale dominante stabilisce facendo apparire le proprie scelte politiche borghesi come “vittorie” del proletariato.
Capovolgere le sconfitte in vittorie e preparare una innocua opposizione preventiva in vitro, sono i compiti storici dell’opportunismo.
Da un lato ridurre la politica a mera elencazione di principi e al compiaciuto crogiuolo del proprio “minoritarismo” e della tautologica e auto-referenziale affermazione di sé, senza avere quella duttilità tattica necessaria per un reale capacità di incidere sul corso degli eventi porta sostanzialmente o all’isolamento o all’immobilismo, sia che si ci spenda in un generoso continuum di iniziative militanti che però non cercano interlocutori politici possibili, legami stabili con i soggetti sociali e una progettualità di ampio respiro, sia che si attenda avanzi compatto e in fitta schiera il proletariato tutto sfilando sotto le bandiere di un rinnovato internazionalismo.
Dall’altro l’ansia di collocazione “tatticista” si traduce in pratica in un accasamento in anossici involucri politico-sindacali che tolgono spesso la possibilità di dare un ampio respiro ad una ipotesi di azione che indirizzi le proprie energie e le proprie aspettative non verso una scelta che ottimisticamente può essere fatta al massimo tatticamente, cioè contingentemente e transitoriamente in un proprio contesto specifico, ma che perde di ogni significato se si stabilizza.
Ci sono compagni e situazioni che peccano della necessaria modestia per scorgere i pericoli delle proprie scelte verso una possibile cooptazione di percorsi funzionali all’ingrassamento dell’opportunismo, che credono di potere gestire un livello di contraddizioni superiori a quelle che non tanto loro, quanto ogni compagno, potrebbe gestire e rischiano di diventare sfortunatamente l’ultima articolazione della filiera di interessi clientelari delle forze politiche istituzionali in seno al movimento e alla classe. Spesso se “valorizzano” l’involucro in cui si sono andati a collocare e “glorificano” le scelte tattiche che hanno preso, accodandosi alle scelte di fondo delle abitazioni politiche che hanno eletto a loro domicilio, il loro equilibrismo politico si risolve in una rovinosa caduta nelle paludi del riformismo.
Intendiamo ribadire che la sinistra istituzionale ha sempre bisogno di un ricambio di ceto politico ai livelli medio e medio-bassi, cooptato da esperienze a lei aliene e spesso precedentemente ostili e che non solo permette di riprodurre l’apparato e oliare meglio l’ingranaggio, ma di vampirizzare ogni possibile risorsa d’avanzamento di una ipotesi altra rispetto alla trita e ritrita zuppa revisionista, non importa quale abito indossi.
Per noi controrivoluzione non significa solo “restaurazione reazionaria”, ma un compromesso sociale avanzato e duraturo, in cui il proletariato è gettato nella mischia della contesa inter-imperialista e infra-borghese e scende in campo sotto bandiere altrui, mentre le istanze più avanzate della classe in fin dei conti rischiano di fungere da stampella alle politiche opportuniste e costituiscono l’ultimo anello della catena del comando capitalista in seno alla plebe, candidandosi e condannandosi tutto al più come leali e corretti oppositori al sistema di dominio.
Questo tipo di scenario, può configurarsi non solo in un momento di relativa pace sociale e di riflusso dei movimenti, ma sullo sfondo di contraddizioni sociali, anche esplosive, che si esprimono e di movimenti in fase ascendente, magari proprio quando embrionalmente prende forma e forza una ipotesi di avanzamento reale della classe.

Chiaramente in un questo scenario il lavoro di costruzione di un soggetto politico in grado di stimolare la sedimentazione dei livelli di organizzazione e di coscienza acquisiti nello scontro di classe, contribuendo in un primo momento alla chiarificazione degli obiettivi e all’apertura della prospettiva di cambiamenti radicali e in un secondo momento alla capacità di orientamento dell’azione e di organizzazione del proletariato metropolitano è tutt’altro che secondaria.
Senza scorciatoie o fughe in avanti, bisogna lavorare affinché la necessaria cooperazione tra compagni – aldilà delle scelte tattiche praticate come tali - all’interno dello scontro di classe trovi sempre più momenti di confronto e di chiarificazione in grado di verificarne la capacità di tenuta, l’avanzamento e la proiettabilità in avanti, i possibili “salti di qualità” della natura di questa cooperazione sia in termini dello sforzo di maggiore sintesi degli orientamenti teorici condivisi, degli strumenti organizzativi acquisiti e prefigurabili, della battaglia politica e dell’azione pratica comune.
Riteniamo che l’internazionalismo e le lotte del proletariato metropolitano siano uno dei terreni centrali, da prediligere e praticare, uno dei piani di verifica necessari alla costruzione del soggetto politico rivoluzionario.
Non riteniamo interessante la creazione di soggetti politici che nascono dalla semplice addizione di esperienze pregresse senza riuscire a tradurre un cambiamento quantitativo in un reale mutamento qualitativo della soggettività rivoluzionaria, così come non abbiamo assolutamente bisogno che nessuno si proclami, si auto-rappresenti e si voglia imporre come il “vero” movimento contro la guerra, la “vera” struttura che solidarizza con le resistenze popolari nel mondo e via discorrendo.
Non vogliamo contribuire alla confusione tra ciò che è la cooperazione su un’articolazione di intervento specifico tra compagni e la costruzione di un soggetto rivoluzionario con una precisa prospettiva strategica complessiva: tali processi, se sono in parte intrecciati e sono entrambi interessanti, sono comunque due cose distinte.

Limiti e prospettive verso l’autonomia del movimento contro la guerra
Abbiamo ampiamente dibattuto sulla rivista sulla “fine” del movimento contro la guerra quando questa sembrava essere stata “vinta” dall’invasore anglo-americano e il suo successivo e in parte attuale empasse a “rinascere” proprio da quando la resistenza incominciava ad assestare i primi colpi decisivi all’occupante; la difficoltà a far divenire senso comune una banalità di base: la resistenza irachena e quella palestinese sono gemelle, entrambe parti di una resistenza del proletariato della periferia integrata del mondo arabo; la sostanziale denuncia degli interessi della borghesia imperialista, anche italiana, nel business della “ricostruzione”; le ragioni di un sodalizio ancora mancato tra le esperienze di lotta del proletariato metropolitano, ed i suoi bisogni, e quello della periferia integrata all’interno dei medesimi processi di resistenza alla “globalizzazione”.
Questi limiti vanno oltrepassati, e non si tratta di uno sterile sforzo volontaristico che non calcola la stretta connessione tra energie impiegate e risultati ottenuti, ma dell’unico orizzonte possibile e praticabile su cui lavorare, senza inseguire scadenze, passaggi e obiettivi altrui, lavorando per altri, ma dialettizandosi con ciò che si esprime sul terreno avendo chiari i propri obiettivi e creando uno spazio autonomo dagli allineamenti e equilibri da quelle forze politiche istituzionali o para-istituzionali che si dicono “pacifiste”.
Detto ciò non siamo indifferenti alle contraddizioni che si aprono nel campo della sinistra istituzionale o para-istituzionale, che se aprono degli spazi vanno praticati per consumare ulteriormente il distacco tra le dirigenze e i militanti di base, come tutto il popolo della sinistra sociale.
Pensiamo che i nostri compiti attuali, se mai lo sono stati, non sono più quelli di fare “l’anima critica” e la “sinistra” di un movimento contro la guerra dai contenuti genericamente pacifisti che si nutre solo di una ripulsione etica nei confronti della guerra, movimento che può funzionare da massa di manovra per il centro-sinistra in grado spesso di controllare e comunque di influenzare, con la proprie strutture, - anche solo mettendole a disposizione o togliendole – le mobilitazioni contro la guerra.
Scusate l’esemplificazione, ma una posizione non ambigua sulla resistenza va presa, sostenuta e propagandata, sono i resistenti stessi che ce lo chiedono quando dicono che non hanno bisogno né di uomini, né di armi, né di soldi, ma di una posizione politica chiara a sostegno degli insorti, pena essere l’ultima stampella degli opportunisti, condannarsi ad un perdente equilibrismo.
Dotarsi di spazi di confronto, strumenti e ambiti decisionali indipendenti dalle regie sinistre e occulte tendenti a incassare i proventi delle mobilitazioni costruite da altri, significa anche togliere quei margini di recupero possibili quando si scelgono modalità d’azione e contenuti spendibili da coloro che vampirizzano gli sforzi altrui per migliorare la propria rendita politica nel caldo cantuccio della politica istituzionale o nel ruolo più caustico e guascone di portavoce dei movimenti
In questa direzione mettere in moto una dialettica serrata e virtuosa tra iniziative politiche a livello locale, interregionale e nazionale coordinate ci sembra necessario, affinché il lavoro sui territori non abbia come sbocco la preparazioni di scadenze nazionali mobilitanti in grado di incidere solo sugli equilibri e allineamenti del centro-sinistra, e le iniziative locali siano sporadiche, scollegate e tra loro e non in grado di essere a loro volta riprodotte in altri luoghi.
L’azione rispetto alla presenza di basi militari, la logistica ad esse collegate e il complesso militare-industriale, così come gli interessi delle aziende, in particolare italiane, nella coinvolte “ricostruzione” di scenari bellici, e l’iniziativa rispetto alla ricaduta sul fronte interno dei tempi di guerra in cui viviamo connessa alle mobilitazioni dei soggetti che ne sono coinvolti sono del tutto centrali.
Importanti indicazioni ci sono venute in questi anni sui temi riportati sopra da interessanti iniziative che cercano di controbilanciare la mortifera capacità della borghesia imperialista e del suo comitato d’affari verso una guerra sempre più globale e un “fronte interno” che vorrebbero sempre più pacificato, con una classe lavoratrice sempre più intruppata nello scontro di civiltà, sia che si tratti di promuovere fattivamente un sistema di Apartheid etnico-sociale, sia che si tratti di sostenere materialmente le imprese belliche dei “nostri ragazzi” all around the world.

[Per approfondire sulle iniziative e il dibattito sul movimento no war in Italia si consigliano tra l’altro i siti di “Contro Piano per la Rete dei Comunisti”: http://www.contropiano.org/
Il sito della rivista “Guerra e Pace” http://www.mercatiesplosivi.com/guerrepace/; il sito di “Peacelink”: http://www.peacelink.it/; il sito della “Youth Action for Peace”: http://www.yap.it/]



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