SENZA CENSURA N.19
marzo 2006
Iraqui freedom? Iraqui resistence!
L’occupazione dell’Iraq e la resistenza irachena...
La guerra e la resistenza sono state sempre al centro del dibattito del
collettivo politico redazionale che edita Senza Censura e ne cura il sito
omonimo, così come costituisce un terreno di intervento centrale nell’agenda
politica dei compagni che contribuiscono a questa esperienza il dare uno
sbocco incisivo alla pratica internazionalista nella metropoli imperialista.
Il lavoro redazionale sino ad ora svolto ha cercato di scandagliare molteplici
aspetti del binomio guerra/resistenza, fornendo vari contributi che fornissero
ai compagni approfondimenti utili alla comprensione della realtà da riversare
nel dibattito e nell’iniziativa, utilizzando liberamente e a piene mani la
pubblicistica del nemico, così come i contributi elaborati da compagni.
Ha sempre avuto un ruolo prioritario per noi l’inquadramento del profilo
strategico in cui collocare i singoli eventi, con particolare riferimento
all’evoluzione del bilancio di potenza tra i differenti poli imperialisti, le
politiche dei diversi stati che li compongono e le fazioni borghesi che li
guidano, soprattutto in ambito NATO. Abbiamo perciò collocato in questa
cornice il ruolo dello stato italiano nello scenario internazionale, così come
quello dei blocchi sociali e delle soggettività che con esso, con gradazioni
diverse, convergono o si scontrano.
Abbiamo cercato di iniziare a definire gli interessi economici del capitalismo
made in Italy connessi alle’imprese belliche, fossero quelli dell’apparato
militare-industriale italiano, come quelli delle aziende interessate al
business della ricostruzione, abbozzando quali sono i referenti politici e
comitati d’affari che si muovono in seno alle istituzioni.
Abbiamo tentato di iniziare ad indagare il rapporto tra ruolo affidato alle
forze armate italiane sul campo e loro ri-organizzazione interna, mettendo in
luce alcune specificità della funzione svolta da queste nei teatri bellici
come il ruolo guida delle MSU dei carabinieri nel controllo del territorio,
nell’addestramento delle forze di sicurezza in loco e nel processo formativo
delle polizie con un profilo militare, come della formazione del complesso
carcerario; la cooperazione civile-militare; il ruolo dell’aviazione e della
marina nel controllo dei cieli e dei mari, le forze speciali, ecc.
Ci è sembrato necessario dare la voce direttamente ai resistenti pubblicandone
la traduzione dei comunicati e dedicando una ampia parte della cronologia alle
azioni degli insorti, così come abbiamo offerto contributi di riflessione sul
movimento contro la guerra in occidente e nel mondo arabo, dando valutazioni
che contribuissero a superare gli scogli e a sciogliere gli attuali nodi posti
dagli attuali limiti dell’attività internazionalista.
Certamente un peso preponderante l’hanno avuto le vicende irachene, anche se è
stato significativo lo spazio dedicato all’Afghanistan, e recentemente, molto
ridotto, lo spazio riservato ai Balcani e appena all’inizio il tentativo di
analizzare i processi di intervento italiani nell'Africa sub-sahariana e nel
resto del continente, come la penetrazione in Asia attraverso l’Afghanistan.
Inoltre molto è ancora il lavoro da fare rispetto alla incessante processo di
scomposizione/ri-composizione di classe del proletariato universale nelle zone
interessate dai conflitti e alle indicazioni di lavoro concreto sulla
solidarietà internazionale dei proletari della periferia integrata,
soprattutto rispetto a quelle porzioni dell’area euro-mediterranea che i
flussi migratori portano nei ghetti delle cittadelle in cui viviamo.
Abbiamo cercato di valorizzare il contributo dato da altre esperienze che si
sono mosse sugli stessi filoni di analisi e con finalità convergenti a livello
militante, e lavoreremo affinché la messa in relazione tra queste sia sempre
più fruttuosa e incisiva, rinnoviamo l’invito a tutti compagni interessati ad
intensificare e ad estendere questa collaborazione con la volontà di ospitare
in seno alla rivista contribuiti che vadano in tale direzione e di offrire la
nostra disponibilità ad intervenire in ambiti di confronto comuni.
Non ci sembra inutile rimarcare che non ci concepiamo come un corpo separato
dalle realtà di classe che si muovono in questa direzione ed ai limiti e alle
prospettive espresse da tutto il campo rivoluzionario nella concretizzazione
dello sviluppo della pratica rivoluzionaria: se non pensiamo di essere esenti
da critiche, crediamo comunque che sia da valorizzare il nostro modesto
contributo di avanzamento sul piano analitico, sicuri di potere portare il
nostro apporto ad un adeguato e necessario sviluppo politico-organizzativo in
un paese imperialista in cui il proletariato metropolitano è sempre più
cosmopolita e precario.
«...Oggi stiamo scrivendo un nuovo capitolo nell’arte della guerriglia
urbana...»
da un comunicato della resistenza irachena
Elezioni farsa, squadroni della morte,
bombardamenti...
Le terze elezioni farsa dell’Iraq sono state rifiutate prima che i
risultati di queste divenissero pubblici, gli iracheni sono scesi in piazza da
subito contro l’ennesima truffa che si stava perpetrando nei loro confronti.
La loro opposizione andava contro l’ennesimo passaggio legittimante la
divisione del paese in patrie etnico confessionali egemonizzate dalle fazioni
alleate agli occupanti, che guarda caso componevano la commissione elettorale
e a cui è stata “attribuita” la maggioranza dei seggi.
Dahr Jamail e Arkan Hamed hanno scritto in dicembre da Baghdad che erano stati
denunciati 1.500 casi di brogli elettorali di cui una trentina estremamente
seri.
Manifestazioni si sono svolte a Baghdad, Tikrit e Mosul.
Il caso più eclatante è stato Mosul, dove la rabbia è scoppiata nel campus
universitario dopo che il cadavere di Qusay Salaheddin, presidente
dell’associazione degli studenti, che ha organizzato due dimostrazioni contro
le elezioni farsa, è stato identificato.
Era stato rapito il 22 dicembre con un suo amico, i due corpi sono stati
ritrovati due giorni più tardi, con le mani legate e il cranio perforato dai
proiettili, Salaheddin era riuscito a far sapere grazie al suo telefono
cellulare che era stato rapito dai Peshmerga.
Quest’ultimo non è che un esempio della politica di genocidio dell’intellighentia
irachena portata avanti dagli occupanti e dai loro collaboratori. Sono più di
100 i docenti iracheni uccisi dall’inizio dell’occupazione, gli ultimi casi
sono quelli di Kadhem Mashhoot Awad dell’università di Bassora e Nawfel Ahmed
dell’università di Baghdad.
Proprio le città di Mosul e a Tal Afar sono, come altre città dell’Iraq, al
centro di una operazione di pulizia etnica, di assassini sistematici degli
oppositori e di uccisioni e sequestri di giornalisti scomodi, condotte dai
miliziani Peshmerga kurdi e dalle brigate Al-Badr, parti integranti delle
nuove forze di sicurezza del “governo” iracheno, oltre che, nel caso di Tal
Afar di bombardamenti aerei e attacchi con armi di distruzioni di massa.
Il “Consiglio dei notabili, sheijs, e ulema della provincia di Ninive” ha
denunciato tutto questo, protestando: «per la assenza di informazioni e il
silenzio totale praticato dalle organizzazioni internazionali e dalle
organizzazioni dei diritti umani riguardo a ciò che sta accadendo a Tal Afar e
a Mosul.»
Le incarcerazioni segrete e gli assassini sistematici di oppositori da parte
delle milizie Al Badr sono emersi da tempo.
Questi fenomeni sono iniziati ad essere evidenti dal maggio dell’anno scorso,
soprattutto a Baghdad, ma non solo, dopo la conclusione della Operation
Lightning/Thunder in cui sono stati impiegati nella capitale 40.000 soldati
che hanno installato 675 check-points, con centinaia di arresti per “stanare
gli insorti”.
Questa politica è la conseguenza della scelta dell’ “Opzione Salvador”
discussa dall’amministrazione americana all’inizio dell’anno scorso, di cui la
nomina di Negroponte come ambasciatore degli USA in Iraq è stato un passaggio
necessario.
Si è trattato di usare le Special Forces per addestrare gruppi che facessero
il lavoro sporco incorporandoli nelle forze di sicurezza irachene alle
dipendenze del ministro degli interni, da allora si sono moltiplicati i casi
di sparizioni “sospette” e la presenza di uomini con indosso la divisa della
polizia, maneggianti costose pistole 9mm Glock, che parlano attraverso
sofisticati sistemi radio su Toyota Land Cruisers con il simbolo della
polizia.
Lo stesso sito web del pentagono, DefendAmerica, riporta il fatto che per i
Bush bad boys sia stato allestito un centro di commando, controllo e
comunicazione per gestire lo stato dell’arte di queste operazioni.
Vi è una lunga lista di casi storici in cui gli USA hanno operato in questo
modo, dalle operazioni che all’inizio degli anni ‘50 hanno destabilizzato
l’Iran preparando la strada per l’instaurazione del regime dello Shah, ai
massacri perpetrati in Indonesia nei confronti dei militanti comunisti nei
primi anni della dittatura di Suharto, alle circa 21.000 esecuzioni
“extra-giudiziarie” compiute durante l’operazione di contro-guerriglia
“Phoenix” durante la guerra del Vietnam, solo per fare alcuni esempi un po’
lontani nel tempo.
Certamente le esperienze della guerra fredda sono un patrimonio prezioso per
l’attuale “guerra al terrorismo”.
All’inizio dell’anno scorso un reporter di Knight Ridder, Yasser Salihee,
aveva trovato alcuni testimoni oculari disponibili a testimoniare il
coinvolgimento dei commandos addestrati dagli USA in 12 omicidi... Fu ucciso
qualche giorno dopo da un cecchino americano ad un check-point durante un
controllo di routine.
Naturalmente alle denunce effettuate il Ministro dell’Interno ha risposto che
si tratterebbe di gruppi della resistenza che sarebbero travestiti da
poliziotti per fomentare le divisioni etniche, i mass-media hanno sposato e
diffuso questa tesi, non interrogandosi sul peso effettivo di tale fenomeno,
sull’impunità di cui godono gli artefici di tali atti e soprattutto su chi li
dirige.
La disintegrazione dell’Iraq sembra un passaggio necessario per perseguire i
fini americani di controllo delle risorse petrolifere e avere una presenza
militare stabile in loco: la distruzione delle città irachene e
l’annientamento delle popolazioni civili, la pulizia etnica funzionale alla
divisione in patrie etnico-confessionali egemonizzate dai gruppi alleati agli
occupanti, l’azione delle squadre della morte che rapiscono, torturano e
uccidono esponenti dell’opposizione sono i mezzi più usati.
L’unica forza che si sta opponendo a questa barbarie non sono certo gli altri
governi arabi, né certo il movimento contro la guerra e l’opinione pubblica
dei paesi occidentali ma è la resistenza.
A proposito di Paesi Arabi.
L’incontro preparatorio a una conferenza di “riconciliazione” nazionale
irachena svoltosi nella seconda metà di novembre al Cairo, promosso dalla Lega
Araba e che ha visto l’Arabia Saudita come suo principale fautore e la
presenza qualificata di esponenti del governo fantoccio, non denuncia
assolutamente l’occupante, dice solamente che: « Il popolo iracheno non vede
l’ora che arrivi il giorno in cui le forze straniere lasceranno l’Iraq, in cui
verranno costruite le sue forze armate e di sicurezza, e in cui esso godrà
della sicurezza e della stabilità, liberato dal terrorismo che colpisce gli
iracheni e le infrastrutture dell’Iraq, e distrugge le ricchezze nazionali e
gli apparati dello stato».
Più sotto evidenzia quello che può essere il contributo della Lega Araba: una
forte presenza diplomatica, la formazione di nuovi quadri statali, la
ricostruzione...
Lo stesso ministro della difesa Italiano Antonio Martino, ha citato tale
conferenza, che dovrebbe svolgersi ad Amman in febbraio, come un esempio che
si inserisce «in un quadro di crescente sostegno internazionale all’Iraq» [1].
Come ha scritto in conclusione del suo articolo sull’Al-Quds al-Arabi, Abdel
Bari Atwan, chiedendosi tra l’altro come ci può essere riconciliazione tra gli
iracheni che resistono e gli altri che collaborano con l’occupazione: «L’unico
intervento necessario è quello di appoggiare la resistenza irachena[...]
Qualsiasi altra cosa sarebbe un peccato in più nella lunga lista di peccati
commessi dalla Lega Araba.»
Il valore intrinseco della resistenza
irachena
La resistenza ha un valore intrinseco: non solo si oppone efficacemente
all’occupazione dell’Iraq, ma impedisce una riorganizzazione complessiva della
regione ed è un vettore di ricomposizione per la popolazione del mondo arabo e
di crisi per gli alleati USA nell’area.
Da 15 anni circa, la soluzione definitiva della “questione irachena” è al
centro del progetto statunitense di creazione di un “Nuovo Ordine mondiale”,
di cui il “Grande Medio Oriente” è una tappa necessaria dell’imperialismo
americano, un tentativo obbligato di uscita dalla crisi che attraversa la
società capitalistica.
Gli ideologi della supremazia americana non potrebbero essere più chiari sul
secolare sogno stars and stripes quando affermano di essere entrati nella
«quarta guerra mondiale» e auspicano una durata di questa inferiore ai
quaranta anni.
«Probabilmente bisognerà prevedere più decenni» ci informa James Woolsey,
direttore della CIA dal ‘93 al ‘95, che continua: «é chiaro che la guerra
terrorista non scomparirà mai almeno fino a quando non cambieremo la faccia al
Medio Oriente, cioè quello che abbiamo precisamente iniziato a fare in Iraq».
Le parole dello spione americano sono state dette quando Baghdad era appena
stata “conquistata” e l’Iraq era “sotto controllo” delle truppe USA, chissà se
questo luminare dell’intelligence avrà rivisto le sue rosee previsioni: è
certo che hanno iniziato a fare gli iracheni cambierà la faccia del mondo non
solo arabo.
Infatti, ogni considerazione che prescinda dall’importanza oggettiva che ha la
realizzazione dei piani USA in loco per la sua strategia di dominio globale
fornisce un punto di vista fuorviante.
Se le parole pronunciate il primo maggio del 2003 sul ponte della portaerei
Lincoln dove campeggiava uno striscione con la scritta Mission Accomplished,
da Bush Jr che dichiarava ufficialmente finita vittoriosamente la guerra
contro l’Iraq non fossero così palesemente state smentite dai fatti, le
dinamiche di riallineamento della catena del comando imperialista, che
attestano l’incontrastato dominio USA sul mondo avrebbero senz’altro ridotto i
margini di resistenza non solo nella periferia integrata, ma nel centro
imperialista stesso.
Ci sembra doveroso affermare che grazie agli iracheni siamo tutti un po’ più
liberi e sicuri.
Occupazione, resistenza e terrorismo
La conoscenza della resistenza, per quanto possa essere superficiale
per un italiano che non parla l’arabo, non abbia vissuto per un periodo in un
paese arabo occupato, non abbia una conoscenza approfondita della storia di
quella regione e rapporti stabili con essa, ma abbia sufficiente onestà
intellettuale e volontà di soddisfare la propria curiosità, non può che
rifuggire il nefasto paradigma interpretativo della spirale guerra-terrorismo
e quindi l’equazione resistenza = terrorismo.
C’è da dire che la sotto-stima della resistenza è il Leit Motif della
propaganda bellica dell’occupante già dal periodo di poco successivo alla fine
ufficiale della guerra, a cui gran parte della sinistra, anche quella che si è
espressa un po’ più chiaramente contro la guerra, si è subordinata.
Buford Blount, generale responsabile dell’area di Baghdad, dichiarava a fine
maggio del 2003, dopo che un attacco della guerriglia a Falluja era costato la
vita a due militari, il ferimento di altri nove e l’abbattimento di un
elicottero Medevac, intervenuto in loro aiuto: «Ogni settimana subiamo qualche
attacco, sparano dalle auto o usano lanciagranate, ma si tratta di piccoli
gruppi, di attacchi isolati».
Gli attacchi isolati sono stati 34.131 nel 2005, il 29% in più rispetto
all’anno precedente, ci informa un recente dispaccio della United Press
International.
Alla sottostima pregiudiziale della sinistra occidentale si unisce il timor
panico di avviare un processo di conoscenza minimamente serio su ciò che sta
succedendo in Iraq.
Siamo d’accordo con Fouad Laroui, quando in un interessante analisi sulla tv
satellitare araba Al Jazeera, che prende spunto dall’intenzioni di G.W. Bush
di bombardare la sede del canale del Qatar, scrive sul mondo arabo: «che non è
opaco se non per coloro che non lo vogliono vedere».
E qui in Italia di non vedenti ve n’è assai...
Un interprete sufficientemente critico della realtà dovrebbe avere ormai
accumulato alcune certezze basilari su ciò che accade in Iraq, in particolar
modo se si tratta di un compagno: sono usciti diversi contributi sulla sua
ricchissima storia politico-sociale dalla sua creazione fino ad oggi, esistono
bollettini aggiornati sulla resistenza consultabili su internet, essa stessa
si è premurata di informarci su cosa considerare tale e su cosa invece
ritenere il frutto dell’ingerenza straniera o il prodotto dell’attività di
counter-insurgency degli stessi occupanti, e sul livello di collaborazione tra
le forze che la animano.
I Peshmerga kurdi che hanno supportato l’invasione e aiutano l’occupazione; le
Brigate Badr, addestrate in Iran, l’ala militare dello SCIRI, il Consiglio
Supremo della Rivoluzione Islamica in Irak guidato da Ibrahim Al-Jaaferi del
partito Da’wa; la milizia dell’INC di Ahmed Chalabi e la milizia dell’INA di
Lyad Allawi sono tutte forze collaborazioniste che lottano insieme agli
occupanti e alla “nuova” polizia e al “nuovo” esercito iracheno contro la
resistenza, i civili e le persone “scomode”.
L’attuale esercito conta 87.000 effettivi che dovrebbero aumentare fino a
131.000 nel corso del 2006, è costituito da 10 divisioni, una - la 9° -
meccanizzata, le altre nove tutte di fanteria. Complessivamente a fine
novembre la NATO aveva fornito al nuovo esercito iracheno 26.000 armi leggere,
200 lanciarazzi, 10.000 elmetti, e oltre nove milioni di munizioni.
Mentre si calcola che siano circa 30.000 gli elementi delle forze di sicurezza
locali in grado di operare con un certo grado di autonomia.
Lo scorso novembre sono state utilizzate massicciamente truppe irachene per la
prima volta.
Durante l’operazione “Steel Curtain” più di 1000 soldati iracheni hanno
affiancato 2.500 tra Marines e militari della US Army nelle operazioni di
guerra, durate 17 giorni, condotte nei confini con la Siria nelle città di
Hussaybah, Karabilah e Ubaydi.
Anche in questa operazione la strategia di annientamento americana attraverso
massicci bombardamenti aerei su civili è continuata e si intensificata,
infatti nel corso dell’ultimo anno, in Iraq, gli attacchi aerei sono passati
dai circa 25 nel mese di gennaio ai 120 del novembre, causando proprio in
novembre la morte proprio a Hussaybah di quasi 100 civili, e questo non è
stato denunciato da una misconosciuto media indipendente, ma dal Washington
Post.
Il profilo dell’intervento militare nelle città è sempre identico, prendiamo
l’esempio dell’attacco a Qaim, città di 150.000 persone dell’Iraq occidentale,
alla fine dell’estate scorsa.
I militari l’hanno circondata, hanno tolto l’elettricità, l’acqua e i
rifornimenti alimentari, poi hanno scatenato l’inferno con l’artiglieria e i
bombardamenti aerei al napalm e con bombe a frammentazione, dopo di ché i
militari sono entrati in città con la copertura aerea, vietando l’entrata agli
aiuti umanitari e all’assistenza medica, mentre l’informazione in Italia ci
aggiornava sui rientri degli Italiani dalle vacanze estive...
La resistenza ha redatto comunicati video che oltre a mostrare il tipo
d’azioni di guerriglia intraprese ha parlato a tutta l’umanità, distinguendo
tra le scelte guerrafondaie dei governi coinvolti nel conflitto e
l’orientamento contrario alla guerra della popolazione, invitando alla lotta
contro le scelte belliciste dei governanti e al boicottaggio dei prodotti
americani e inglesi, dicendo ai militari USA: «potete anche scegliere di
combattere la tirannia con noi. Posate a terra le vostre armi, e cercate
rifugio nelle nostre moschee, chiese e case. Vi proteggeremo. Vi porteremo
fuori dall’Iraq, così come abbiamo fatto con altri prima di voi. / Tornate
alle vostre case, dalle vostre famiglie, dai vostri cari. Questa non è la
vostra guerra. Non state combattendo per una vera causa in Iraq».
Cosa dire di più?
Non da ultimo vi sono correnti comuniste che partecipano alla resistenza e che
denunciano il ruolo dell’attuale leadership del Partito Comunista Iracheno,
partecipante al governo fantoccio messo su dagli occupanti. I veri comunisti
cercano di delegittimare tale dirigenza all’interno del movimento comunista
internazionale, facendola apparire per quello che è: traditrice,
collaborazionista, venduta a USA e soci.
Se l’alibi delle armi di distruzioni di massa è stato usato per legittimare
l’ennesima aggressione militare all’Iraq, lo sforzo successivo dei media è
stato quello di equiparare la resistenza al terrorismo sin dai primi attacchi
della guerriglia e di presentarci questa ultima come un corpo separato
rispetto alla popolazione.
Gli insorgenti usano la tattica della guerriglia per colpire gli eserciti
occupanti ed i mercenari privati assoldati da questi, le forze
collaborazioniste come la polizia e l’esercito “iracheno”, così come gli
uomini politici messi su dagli invasori, i convogli di viveri e altro
destinati agli eserciti, gli impianti e le infrastrutture petrolifere che
dissanguano l’Iraq da una sua ricchezza; i resistenti sono soliti filmare le
proprie azioni e ad usarle come strumento di propaganda, anche se come recita
un loro comunicato: «vorremmo solo avere più telecamere per mostrare al mondo
la loro reale sconfitta».
A metà gennaio il numero “ufficiale” di perdite di militari USA nel conflitto
ha superato quota 2.200, sono stati abbattuti due elicotteri a distanza
ravvicinata di tempo e una conduttura petrolifera a sud di Baghdad è stata
ripetutamente attaccata.
Il 2 gennaio la polizia irachena ha aperto il fuoco contro un gruppo di
dimostranti che a Kirkuk, nel nord del paese, stavano protestando contro la
penuria di carburante facendo almeno un morto e quattro feriti.
Gli agenti, secondo il capo della polizia Moanis Ishak, sono intervenuti
quando diverse centinaia di manifestanti hanno attaccato alcune stazioni di
servizio e alcuni uffici dell’ente petrolifero iracheno, oltre che le stesse
pattuglie. Il 18 dicembre il governo di Baghdad ha deciso di triplicare il
prezzo della benzina, fino ad allora venduta a prezzi fortemente scontati.
Particolarmente rilevante è l’utilizzazione e il perfezionamento degli IED,
improvised explosive devices, artefatti esplosivi di produzione per così dire
domestica, che sono la causa del maggior numero di morti e feriti tra gli
occupanti.
I numeri parlano chiaro: «secondo dati provenienti dal Pentagono» ci informa
Carlos Varea a fine ottobre del 2005, in un articolo dal nome eloquente: La
resistenza perfeziona i IED, la più caratteristica delle sue armi «e elaborati
dall’Iraq Coalition Casualities Count, 302 militari sono morti tra il primo di
gennaio del 2005 e il sette ottobre per l’esplosione di IED, mentre l’anno
precedente ne morirono nello stesso periodo circa la metà. Il Pentagono ha
destinato dall’inizio dell’occupazione in Iraq 2.530 milioni di dollari per la
costruzione di veicolo blindati multi-ruota del tipo dell’Humvee ( se ne
fabbricano ora 550 al mese in confronto ai 30 del maggio 2003) e altri 2.210
milioni per rinforzare la protezione degli altri veicolo di trasporto per le
truppe e il materiale utilizzato in Iraq.»
Mentre i media parlano quasi esclusivamente di attacchi “suicidi” e di azioni
contro la popolazione civile, sullo sfondo di una guerra civile dispiegata
che, guarda caso, solo le potenze occidentali, aiutando i fantocci che hanno
messo su come governanti, possono fermare; mentre attribuiscono all’ esclusiva
regia di un giordano e di un saudita e dei gruppi legati alla loro
organizzazioni “esogene”, la realtà ci parla di una resistenza popolare che
non dà tregua all’occupante, che lotta per salvare i propri figli e non per
fare si che si uccidano tra di loro e dove “i tagliatori di teste” e i
propugnatori di un guerra fratricida sono una infima minoranza
sovra-mediatizzata, combattuta dalla resistenza stessa e i cui fini sembrano
stranamente convergere con le linee guida della politica americano-sionista
nell’area [2].
Il settimanale egiziano Al-Alhram ha scritto che: «quando sono avvenute le più
importanti operazioni terroriste, gli USA ne erano a conoscenza o ne erano
coinvolti. Il Mossad, i servizi segreti israeliani, hanno pianificato le
maggiori operazioni terroristiche in Iraq, reclutando 2.000 mercenari prima
dell’inizio della guerra e inviandoli in varie città dell’Iraq per offrire
protezione e sostegno alle forze d’occupazione».
E se non ci si fida di ciò che in merito dice la resistenza, o illustri
commentatori arabi, almeno che si prenda sul serio le analisi degli occupanti
non prodotte dai giornalisti con l’elmetto che contribuiscono alla propaganda
bellica.
Secondo il recente rapporto redatto da Anthony Cordesman, esperto di politica
internazionale del del Centre of Strategic and International Studies (CSIC),
la percentuale di combattenti “stranieri” tra i gruppi della resistenza
irachena è «ben sotto il 10 per cento, e potrebbe essere vicino al 4 o al 6
per cento», e non si capisce perché nella rappresentazione occidentale del
conflitto questa percentuale di combattenti dovrebbe essere composta
interamente da membri di Al-Quaida. Sempre secondo il rapporto CSIC, le
operazioni condotte dalla resistenza durante il periodo che va dal settembre
del 2003 all’ottobre del 2004 contro le truppe USA e le altre forze di
occupazione costituiscono il 75 per cento di tutti gli attacchi, mentre quelle
condotte contro i civili iracheni costituiscono il 4,1 per cento.
DisInformazione strategica e
contro-informazione
Ancora una cosa su un aspetto importante della rappresentazione
mediatica del conflitto.
Non è causale che a distanza di tempo emergano le barbarie compiute dagli
occupanti nel mentre sono già state consumate, proprio quando le dinamiche
stesse dell’informazione globalizzata e “in tempo reale” non implicherebbero
di amplificare a distanza di così tanto tempo tali fatti, eventi che non
vengono comunque messi in relazione con una continuità di eventi – come logica
vorrebbe - che definirebbero quindi il profilo di un conflitto rispetto alle
tecniche utilizzate: massicci bombardamenti sui civili e disinvolta opera da
cecchino su tutto ciò che si muove, carcerizzazione massiccia e uso
sistematico della “tortura”, operazioni condotte da “squadre della morte”...
Se sui bombardamenti sui civili e sulle milizie abbiamo già riferito sopra,
vogliamo ricordare che dell’universo carcerario iracheno vengono a galla ogni
giorno nuovi particolari, tra i quali, l'ampliamento delle strutture stesse e
la costruzione di nuove: ad Abu Ghraib verranno detenuti 4.200 al posto dei
circa 3.600 attuali, a Camp Bucca, nel sud, 7.200 al posto dei circa 6.450
attuali, a Camp Cropper, nell’aereo-porto di Baghdad, che ora detiene 121
prigionieri “eccellenti”, compreso Saddam Hussein, verranno “ospitati” 2.000
prigionieri, mentre Fort Suse, verrà trasformato in una prigione in grado di
contenere 2.000 persone...
Se le barbarie mostrate – massacri di civili, torture, ecc. - hanno per USA e
soci un indubbio valore di dissuasione psicologica nei confronti dei propri
oppositori a cui è riservato un destino letteralmente annichilente, hanno
anche la funzione di “riqualificare” i media come fonte d’informazione, prima
che un reale assalto di una informazione totalmente altra e che scaturisca
dalla necessità di fare realmente luce su cosa accade in Iraq delegittimi
radicalmente la rappresentazione mediatica del conflitto, facendo si che della
situazioni parli direttamente la resistenza.
In fin dei conti ciò che si rimprovera alle TV satellitari arabe è proprio una
eccessiva professionalità: cercano di mostrare ciò che accade sul terreno e
mostrano le immagini della resistenza.
Facciamo un esempio un po’ paradossale, se l’informazione che danno i
mainstream media sull’Iraq verrebbe fornita per una partita di calcio sarebbe
scandaloso: nessuna immagine della partita, intervista ai dirigenti di una
sola società, nessuna informazione sul risultato.
Certamente alcune immagini mostrate hanno prodotto indignazione e fatto capire
parte della barbarie imperialista in Iraq, ma nel migliore dei casi hanno
momentaneamente contro-bilanciato quel continuum di immagini di civili uccisi
in attentati suicidi di una parte della popolazione contro l’altra e di
soldati che aiutano la popolazione civile e sfidano indomiti i terroristi.
Anche Hollywood, uno dei più grandiosi strumenti da guerra americani è in
crisi: quando la produzione di immaginario è in crisi, e l’informazione che
vieta di mostrare i soldati nei sacchi neri, le bare che tornano at home e
proibisce ai soldati tornati in patria di parlare della loro esperienza,
l’industria dei sogni ha difficoltà a sfornare icone positive ma produce
piuttosto spettri e zombies...
Comunque, quando continuano a compiersi episodi identici, i media non
riportano contemporaneamente un bel nulla, anzi riaccreditato le ipotesi degli
occupanti (la caccia ad Al-Zarqawi) come è il caso dell’assedio a Tall’Afar in
settembre, in cui i bombardamenti aeri massicci e l’attacco di 6.000 soldati
statunitensi coadiuvati da circa 4.000 tra Peshmerga curdi e brigate Al Badr
filo-iraniane hanno provocato una catastrofe umanitaria per i civili uccisi
nei bombardamenti e l’esodo di circa 300.000 profughi dalla città.
Ma Tall’Afar non è stata rappresentata, perciò non esiste, non pre-esisteva,
non esisterà, almeno che tra più di un anno l’Informazione non decida di farci
vedere questo crimine contro l’umanità.
Vorremmo potere affermare che chi non ha memoria, non ha futuro, riferendoci
ai Balcani. In quel caso c’è stata l’invenzione di una catastrofe umanitaria e
la sua associazione ai crimini nazisti per legittimare l’aggressione alla
Serbia, e la rimozione in tempo reale delle conseguenze dei bombardamenti, di
un attacco condotto con 600 missioni aeree al giorno, per non richiamare alla
mente Hiroshima...
Vorremmo, ma purtroppo, visto che la corretta percezione di ciò che stata la
guerra nei Balcani non è patrimonio dei più, non è memoria, possiamo solo dire
che fino a che “la disinformazione strategica” non verrà percepita come tale e
la necessità della contro-informazione come una sua naturale conseguenza,
difficilmente riusciremo non solo a non fare dei passi in avanti, ma almeno a
non arretrare visibilmente.
L’informazione è una arma di guerra, la contro-informazione combatte sempre un
conflitto “asimmetrico” ma necessario che oltre al coraggio intellettuale
abbisogna di una forte motivazione politica, oltre che etica, una rete che
crei una intelligenza collettiva in grado di sostenerla, attori disposti a
sovra-esporsi ed un contesto disposto ad accoglierla e a farla circuitare a
sua volta.
In sintesi il fatto che non ci sia stata una corretta informazione sulla
guerra e sulla resistenza è conseguenza del fatto che non c’è stato un reale
movimento contro la guerra in appoggio alla resistenza.
Democratizzazione, petrolio e resistenza
Attualmente non ci sono multinazionali dell’energia che operano in
Iraq, in quanto non ci sono quei margini di sicurezza necessari per potere
operare in quel teatro, solo 15 dei 70 piattaforme estrattive conosciute sono
adeguatamente sfruttate.
Non vi sono le condizioni per cui gli investimenti diretti nel risanamento
dell’industria petrolifera possano essere profittevoli, in quanto non possono
essere assicurati da una adeguata estrazione del greggio.
Il cosiddetto processo di “democratizzazione” – la nuova costituzione, le
elezioni, e la nuova legislazione - è strettamente legato all’apertura alle
multinazionali straniere, la ricostruzione irachena sarebbe ripagata con la
vendita del suo petrolio.
La trappola del debito contratto con le condizioni di restituzione del
prestito imposte dai donatori, permetterebbero alle multinazionali di mettere
le mani sui giacimenti del terzo paese con le riserve stimate più grandi al
mondo, pari a 115 miliardi di barili.
I Production Sharing Agreements (PSAs) – gli accordi di spartizione della
produzione, erano già stati proposti dall’amministrazione americana prima
dall’invasione e fatti poi propri dalla Coalition Provisonal Authority –
l’autorità provvisoria – , ora, l’attuale governo ha accelerato questo
processo. Sta già negoziando i contratti con le compagnie petrolifere in
parallelo con il processo costituzionale, le elezioni e il licenziamento della
legge sul petrolio.
Il Fondo Monetario Internazionale ha approvato il 24 Dicembre un prestito per
l’Iraq pari a 685 milioni di dollari: è una sorta di auto-aiuto delle
multinazionali, che vincoleranno l’Iraq alle condizioni dittatoriali che i
paesi che hanno subito il processo di globalizzazione già conoscono.
Ma i fautori della globalizzazione incontrano sulla propria strada la
Resistenza Irachena.
La Resistenza aveva ben chiaro quale era la posta in gioco in Iraq e quali
erano le carte che doveva giocare.
In un comunicato del 13 Maggio del 2004 il Partito Socialista Arabo – Baath,
proclamava: «Il Petrolio iracheno… Sarà un legittimo e permanente bersaglio
dei progetti della resistenza armata per liberare l’Iraq e sconfiggere gli
invasori… La resistenza armata userà ogni possibile mezzo tecnico e militare
per impedire all’occupante di rubare il petrolio iracheno e usare i suoi
proventi, in qualsiasi circostanza, a livello nazionale ed internazionale…
Con queste premesse, chiunque collabori con l’occupante, come addetto,
commerciante o intermediario, sia iracheno, arabo o non-arabo sarà monitorato
e diverrà un bersaglio senza alcuna esitazione.»
Come riportato da Al Jazeera, a gennaio il Ministero iracheno del Petrolio ha
dichiarato che la produzione ha raggiunto il suo livello più basso dalla fine
ufficiale della guerra e che «l’esportazione di greggio, che procedeva ad una
media di 1,6 milioni di barili al giorno dall’inizio della guerra, è calata a
1,2 in novembre e ad 1,1 in dicembre».
Il successo della resistenza è quantificabile in termini di riduzione delle
esportazioni petrolifere: nel 1990, l’Iraq esportava 3,5 milioni di barili al
giorno.
Tra il maggio del 2003 e la fine di ottobre del 2005, gli osservatori hanno
riferito di ben 282 attacchi contro le infrastrutture di trasporto
petrolifero.
Inoltre, Il FMI ha chiesto che il Ministero del petrolio eliminasse le misure
di calmierazione dei prezzi per il consumo domestico iracheno, misure che
hanno naturalmente provocato un ulteriore ostilità nei confronti della
corrente occupazione.
Queste misure di aggiustamento sono solo un parziale assaggio delle ricette
che il FMI ha previsto per l’Iraq, forte tra l’altro ora del prestito
concessogli a dicembre: al centro delle riforme strutturali dell’economia ci
sta il controllo diretto delle risorse petrolifere da parte delle
transnational corporations che decideranno i termini con cui queste risorse
verranno vendute.
Ma le capacità di sabotaggio delle condutture petrolifere si stanno sempre più
affinando e non rendono solo assolutamente dis-economico l’estrazione e il
trasporto del greggio, ma non permettono appunto di realizzare i sogni di Paul
Wolfowitz and Dick Cheney che l’Iraq pagasse la propria ri-costruzione, cioè
le multinazionali che in essa avrebbero investito, con i proventi del greggio.
Come si poteva leggere in un rapporto del mese di Dicembre della Berclay’s
Capital: «l’integrità complessiva delle infrastrutture petrolifere irachene ci
appare che sia arretrando invece che avanzare.»
«Mentre i proventi dei giacimenti già scoperti e sfruttati» scrive Gabriele
Colombini, in Iraq: all’ombra delle elezioni, su «Tecnologia e Difesa» del
Gennaio 2006 «prima dell’approvazione delle Costituzione saranno gestiti dal
governo centrale e ridistribuiti a tutto il paese, lo sfruttamento delle
risorse individuate successivamente al 25 ottobre saranno proprietà delle
regioni cui giacimenti appartengono e che, quindi, potranno trattenerne i
guadagni. Ciò interessa sia il Kurdistan che le regioni dell’estremo sud, al
confine con l’Iran. A Taq Taq, tra Erbil e Kirkuk, le riserve petrolifere già
vengono stimate in circa 130 milioni di barili, ma nonostante questo sembrano
irrisorie di fronte ad una miriade di giacimenti di piccole e grandi
dimensioni, mai esplorati, che potrebbero custodire miliardi di barili di
petrolio. Territori, questi, controllati dai peshmerga, i soldati kurdi
inseriti formalmente nel nuovo esercito irakeno ma fedelissimi ai propri capi
tribù, e che sorvegliano una regione potenzialmente ricchissima, attraversata
da un oleodotto che attraverso la Turchia raggiunge il Mediterraneo e i
mercati mondiali. A Dohuk si sta progettando un impianto di raffinazione
gigantesco: come non legarlo a queste prospettive e ai faraonici progetti di
sfruttamento, visto che il petrolio esistente nella regione è, per ora, solo
quello proveniente dal martoriato oleodotto di Kirkuk?».
Sembra che uno dei tre nuovi campi petroliferi che il governo autonomo curdo
ha cominciato a perforare sia proprio vicino a Dohuk e che Barzani abbia
sottoscritto un accordo con la compagnia norvegese “DNO” per tali opere al
confine con la Turchia, sancendo il primo accordo di tale tipo dall’inizio
dell’occupazione.
È chiaro che le fazioni che governano le milizie Peshmerga e le brigate
filo-iraniane Al Badr hanno delle solide ragioni per affermare la propria
egemonia all’interno del processo di disintegrazione dell’Iraq in patrie
etnico-confessionali, e ad affermare il proprio dominio incontrastato sulle
porzioni di territorio “conquistate” grazie agli occupanti.
Queste milizie contribuiscono al processo di “democratizzazione” affiancando
gli occupanti nelle loro operazioni militari sulle città, sono tra i
principali artefici della pulizia etnica e fungono da squadroni della morte
con i sequestri, le torture e le uccisioni degli oppositori.
[Questo contributo è stato scritto avvalendosi degli articoli riportati sui
seguenti siti:
- “Center for Research on globalization”:
www.globalresearch.ca, in
particolare, di quelli contenuti nella sezione “Iraq Report”, quelli di Ghali
Hassan, Chris Floyd, Michel Chossudovsky
- “Campaña Estatal Contra L’Ocupation y Por La Soberania de Iraq”:
www.iraqsolidaridad.org che
contiene tra l’altro anche numerose traduzioni in castigliano di vari
contributi anche in arabo, tra cui vogliamo segnalare gli articoli di Carlos
Varea
- “Comité de solidaridad con la causa arabe”:
www.nodo50.org/csca, che contiene tra
l’altro anche numerose traduzioni in castigliano di vari contributi anche in
arabo, tra cui vogliamo segnalare “diarios della resistenza iraquì” una
cronaca dettagliata e aggiornata della resistenza;
- Un bollettino della resistenza aggiornato quotidianamente in italiano si
trova sul sito di: http://www.albasrah.net,
specificatamente alla pagina:
http://www.albasrah.net/moqawama/iraqiresistancereport_italian.htm
- il sito di Michel Collon,
http://www.michelcollon.info/ che contiene molti inviti alla lettura
- Oltre alla consultazione delle riviste mensili : «Tecnologia e Difesa»,
«Rivista Italiana di Difesa» e «Panorama Difesa»]
Note
1 Il “Comunicato finale” della “Riunione
preparatoria alla conferenza di riconciliazione nazionale irachena” svoltosi
al Cairo, il 19-21 novembre 2005 si trova sul sito:
http://www.osservatorioiraq.e specificatamente alla pagina web:
http://www.osservatorioiraq.it/modules/wfsection/article.php?articleid=1784
2 Con questo non vogliamo assolutamente associare i cosiddetti attacchi
suicidi contro gli occupanti e i loro collaboratori alle forze al soldo di una
frazione della borghesia petrolifera arabo-islamica, perché sarebbe falso, né
tanto meno denigrare i martiri che hanno deciso di sacrificare la propria
esistenza in azioni contro il nemico, con euro-centriche spiegazioni
moralistiche sulle ragioni del martirio tanto distanti dalla realtà quanto
coloro che le formulano.
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