SENZA CENSURA N.17
LUGLIO 2005
Rebel against America…
Imperialismi e lotte di classe nel Mediterraneo
Come abbiamo visto nell’articolo precedente, nonostante l’ampio dibattito
all’interno della Nato riguardo il rafforzamento della sua dimensione politica
globale, non si ferma il processo di espansione. Un processo che come in
passato coinvolge in prima persona quei paesi mediterranei con al loro interno
un forte sentimento antiamericano e antimperialista in generale.
Un processo che avanza in nome di “riforme democratiche ed economiche” che, al
di là dei proclami di libertà e giustizia, comporta un ulteriore spogliamento
delle ricchezze dei paesi coinvolti attraverso la loro appropriazione da parte
delle fazioni in campo della borghesia imperialista Usa ed Europea, siano
queste rappresentate dai progetti di “Grande Medio Oriente”, l’”Unione
Euromediterranea” o la “Istambul Cooperation Initiative” sotto l’egidia della
Nato.
Uno studio del Nato Defence College affronta i possibili scenari che
potrebbero andare a determinarsi nel Magreb nei prossimi decenni. E’
innegabile che la competizione tra Usa e Ue vedrà sicuramente momenti di alto
livello in particolare per il sovrapporsi di aree di interesse sia per Europa
sia per la Nato stessa, ma la maggiore preoccupazione è rivolta su quanto
all’interno dei paesi del Magreb potrebbe svilupparsi.
Il problema in esame è quanto sia possibile, per la presenza storica di gruppi
come l’islamismo politico radicale, gestire le riforme economiche, politiche e
sociali direttamente conseguenti dai processi di integrazione, con il timore
che possa rappresentare la guida della protesta derivante dalle conseguenze
dei processi di liberalizzazione economica e l’entrata massiccia di capitali
stranieri che vorranno vedere realizzati i propri interessi. Per la borghesia
imperialista si concretizza il bisogno di individuare quali possibili
strumenti potranno essere adottati per garantire il pieno controllo del
processo di riforma e di ristrutturazione. Le ipotesi oscillano tra una
dimensione della sicurezza del Magreb attraverso l’adeguamento delle strutture
di cooperazione già esistenti come l’Arab Magreb Union (Algeria, Libia
Mauritania, Marocco e Tunisia) o l’Africa Union (che raggruppa i paesi
africani oltre a Marocco Algeria, Tunisia e Mauritania). La seconda, quella di
una alleanza che vada dall’Africa al Magreb, sembra rappresentare il desiderio
comune, ritenendo che lo sviluppo del Marocco possa servire da stimolo per una
stabilizzazione, in senso imperialista, dell’area africana oltre che
rappresentare un opportunità di maggiore considerazione del suo ruolo di ponte
politico-economico-militare tra i paesi occidentali e quelli africani.
La borghesia imperialista nell’affrontare questa fase di penetrazione nel
mondo arabo cerca di individuare con chiarezza quali aspetti rappresentano i
possibili punti deboli, le contraddizioni che possono svilupparsi e quali i
soggetti possono rappresentare la nuova classe politica a cui affidare il
ruolo di garanti dei suoi interessi nell’area.
All’interno di una relazione del Center for Strategic and International
Studies (CSIS) sono affrontati i problemi relativi all’attuale percezione
delle politiche imperialiste da parte dei leader arabi di vari settori
economici e politici, oltre il dato che a noi, come militanti rivoluzionari e
internazionalisti, interessa maggiormente: la percezione delle popolazioni
arabe verso la politica imperialista nell’area.
I leader arabi hanno chiaramente avvertito gli Usa che solo una azione
visibile nei confronti della soluzione del conflitto arabo-palestinese può
fare in modo che il progetto di riforme nell’area non sembri solamente fumo
negli occhi per mettere in secondo piano l’inerzia nei confronti della
politica sionista contro il popolo palestinese.
Nonostante nel mese di marzo l’intervento diretto a Gaza da parte
dell’alleanza sia stato definito prematuro dalla stessa Rice, potrebbe essere
credibile che la Nato possa rappresentare lo strumento dove concertare, tra
Usa e Ue, l’azione politica verso una soluzione imperialista del conflitto.
Se dobbiamo fare delle previsioni sul tipo di intervento e a pro di chi,
bastano le dichiarazioni del ministro degli Esteri israeliano Silvan Shalom
che ha affermato: <<Israele ha consegnato alla Nato una proposta di programma
operativo nel campo diplomatico e militare. Non abbiamo dubbi che Israele
trarrà un immenso profitto da legami più stretti con la Nato, e riteniamo
anche che Israele ha molto da offrire in cambio>>.
La percezione generale, accentuata dalla campagna dei media americani, è che
gli Usa stiano dando la visione allo stesso mondo arabo di una guerra contro
di esso e contro l’islam, creando grande frustrazione nelle “Arab street”. Nel
creare questa visione, hanno contribuito i cambiamenti avvenuti all’interno
degli stessi Usa nei confronti dei numerosi giovani che studiano nel paese,
preoccupati del clima ostile nei loro confronti, richiedendo ai governi dei
propri paesi che avvenga un cambiamento per garantire maggiore consenso verso
la politica americana.
Molti leader arabi definiscono le relazioni con gli Usa un monologo più che un
dialogo, fatto di imposizioni in cui i governi locali vengono messi in secondo
piano rispetto alle decisioni, creando i presupposti per una protesta contro
l’imposizione del piano americano sull’area alla riunione dell’Unione Europea
di Barcellona, facendo leva sulle contraddizioni esistenti tra le due
borghesie.
Nella prospettiva sono tutti concordi che la preoccupazione maggiore è rivolta
verso la presenza interna ai singoli paesi di gruppi armati che stanno
nutrendo e trovando ulteriore sviluppo dalle stesse conseguenze delle
politiche americane, pur ribadendo che in tal senso già sono molte le
iniziative comuni prese con gli Usa.
Rifome, Ong e nuova classe dirigente
In particolare per aver messo al centro quella “società civile” che noi ben
conosciamo e all’ordine del giorno le “riforme democratiche”, molta importanza
è data alla “Agenda delle Riforme”, sottoscritta nel mese di dicembre da
numerosi governi arabi e Ong all’interno del “Forum for Future”, voluto e
finanziato dalla amministrazione americana,.
Veder abbracciare il desiderio di riforme da parte dell’amministrazione Bush
ha suscitato forti preoccupazioni da parte delle attuali leadership, che
temono il rafforzamento dell’opposizione interna e che possano svilupparsi
condizioni di pericolo pilotate dagli stessi agenti Usa o da loro finanziate;
che l’eccessiva accelerazione di questi processi possa dare forza al
radicalismo interno impedendo un cambiamento in senso liberale.
A sostegno di questo processo è ritenuto fondamentale un massiccio
investimento nel creare una nuova generazione araba che rappresenti in pieno
la nuova classe dirigente che non sia, come quella precedente, legata ad una
“vecchia” visione dei rapporti con gli Usa. In tal senso la creazione di una
classe politica americana che abbia credibilità nel mondo arabo, fortemente
supportata da mass media che rafforzino la sua immagine indipendente e di
esportatrice di un’opportunità di miglioramento, rappresenta un passaggio
obbligato. E’ vista con preoccupazione la diminuzione delle presenze di
studenti arabi nelle università americane per il possibile effetto negativo
nelle relazioni con i governi arabi futuri, dato che tra i leader politici che
hanno dato sostegno alla campagna aniterrorismo americana, oltre 50 di loro
avevano svolto i loro studi negli Usa.
Sia la possibilità di trovarsi realmente un nemico all’interno del paese, sia
di vedersi negato l’accesso ai mercati arabi dalla futura leadership politica,
rappresentano i rischi che potranno essere evitati solo con un aumento
sostanziale di giovani arabi negli Usa, non soltanto quelli appartenenti alle
elitè familiari ma anche a settori popolari. A tale scopo viene ipotizzata
l’idea di istituire un’apposita commissione che individui le linee guida per
creare un sistema di protezione dai rischi di “infiltrazioni terroristiche”,
ma nello stesso tempo incrementi gli scambi nell’“educazione”. Tale
commissione dovrà essere composta da membri accademici, esperti di affari, di
legislazione e sicurezza, da politici in grado di valutare gli effetti a breve
e lungo termine della “educazione americana” nei paesi che ne verranno
interessati. E’ fondamentale che le giovani generazioni assimilino la cultura,
l’ideologia e le aspirazioni che gli Usa promuovono. La proposta che il Center
for Strategic and International Studies mette sul tavolo al governo americano
è la creazione dell’Arab Partnership Fondation, allo scopo di sostenere le
nuove generazioni di leader arabi, correnti ideologiche e organizzazioni
liberali, per consentire loro di uscire vittoriose. Dovrà avere a disposizione
uffici nei paesi arabi e svolgere inizialmente il suo compito con estrema
cautela, perchè il programma possa rendersi esecutivo anche dove la diffidenza
attuale è presente.
La Arab Partnership Fondation dovrebbe supportare l’attività a vasto raggio di
ONG che promuovano riforme nel campo sociale, economico e politico, senza
escludere ONG locali che non promuovono direttamente gli interessi americani,
ma che potrebbero rappresentare un buon investimento politico nel lungo
termine.
La percezione popolare delle riforme
imperialiste tra la controrivoluzione
non governativa e la lotta
La percezione nel mondo arabo di quanto si nasconde dietro le parole
“democrazia e riforme” emerge chiaramente dal tono delle proteste che hanno
contraddistinto le giornate del Forum for Future di Rabat (vedi anche Senza
Censura 16) organizzate dalla Cellula Marocchina Contro il Forum per il
Futuro, composta da organizzazioni islamiche, di sinistra, nazionaliste.
Proteste che non solo sono state indirizzate verso gli Usa, ma anche contro i
governi arabi compiacenti verso la sua politica nella regione. Il sentimento
da parte della popolazione araba e marocchina in particolare verso quest’incontro
e dell’onda di rinnovamento che dovrebbe rappresentare, è di profondo sospetto
e visto come un’imposizione occidentale alla loro società. Da alcuni giornali
indipendenti è stato definito “La Terza Via alla Colonizzazione”. Dello stesso
tono il comunicato dalla Tunisia di Alternatives Citoyennes che, commentando
il tema delle riforme discusso all’interno della riunione della Lega Araba
sulla politica americana, denuncia l’attività incessante da parte di
organizzazioni americane come l’Institut Républicain Américain (IRI), la NED (National
Endowment for Democracy), CEIP (Carnegie Endowment for International Peace)
fino ad arrivare alla Fondazione Soros, nella formazione di una scuola
culturale formata da intellettuali, giornalisti e uomini politici fortemente
vicina al pensiero liberale americano.
Ma i progetti di espansione, con la conseguente ristrutturazione del sistema
economico e sociale del paese interessato, le conseguenze che queste hanno
portato nel livello di vita e garanzie ai settori popolari nei paesi del
Magreb, la privazione sistematica delle libertà politiche e sindacali, trovano
in ogni paese l’opposizione più o meno sviluppata di ampi settori proletari e
non solo.
L’Egitto registra un profondo processo di privatizzazione all’interno del
settore tessile, uno dei centrali del paese. Le proteste hanno visto dalla
metà di febbraio ai primi di maggio lo sciopero dei lavoratori del settore
indirizzate contro la stessa General Federation of Trade Unions (GFTU),
organizzazione sindacale pro-governativa che ha accettato la svendita della
Esco ai capitali privati, azienda di stato il cui numero di lavoratori
impiegati è passato dai 24.000 del 1980, ai poco più di 3.500 attuali, a cui
si devono aggiungere i 650.000 prepensionamenti adottati all’interno della
privatizzazione degli altri settori pubblici. In un articolo pubblicato sul
periodico Al-Ahram Weekly del 18 marzo è stato affermato che, in questi ultimi
mesi, è stata data una decisa accelerata al programma di riforme economiche
egiziane. “Il ministro degli Investimenti Mahmoud Mohieddin – scrive ancora
Abdel-Razek – ha recentemente confermato che le compagnie statali privatizzate
negli ultimi sei mesi sono 18, per un totale di un miliardo di lire egiziane.
Un risultato eccezionale, se confrontato con le 15 privatizzazioni attuate dal
2002 al 2003”.
L’opposizione egiziana sia islamica, sia di sinistra, critica fortemente
l’attacco americano verso l’economia del paese in particolare facendo
riferimento al continuo trasferimento da parte Usa di capitali e sostegno
verso compagnie che operano nel paese come ONG. Le critiche si sono inasprite
ulteriormente dopo la decisione da parte dell’ambasciata americana del Cairo
di finanziare 6 ONG con un milione di dollari per il monitoraggio delle
elezioni, definendo inaccettabile che il popolo egiziano accetti aiuti da chi
è responsabile di crimini in tutta la regione. Attraverso un accordo tra
Egitto e l’United States Agency for International Development (USAID) del
1998, gli Usa hanno destinato dai 38 ai 42 milioni di dollari al supporto per
le attività della “società civile” e ONG.
La situazione sopra descritta ha fatto sì, che nell’ultimo anno, prendesse
vita in Egitto un movimento d’opposizione che si è dato il nome Kefiya
(Basta). Kefiya riunisce al suo interno dall’organizzazione fuorilegge dei
Fratelli Mussulmani, a quelle della sinistra radicale egiziana. Il suo scopo
dichiarato è di mettere in crisi il potere di Mubarak e intraprendere un
percorso di cambiamento autonomo dalle influenze esterne. L’alleanza tra forze
islamiche, della sinistra e nasseriane è ritenuto fondamentale ma, nello
stesso tempo, è evidenziato un disaccordo sulle questioni strategiche.
Secondo alcuni membri della sinistra egiziana è bastato il lancio del
movimento per vedere rinascere nelle strade un attivismo che non si rilevava
da più di 25 anni, mettendo le basi per un indebolimento progressivo del
governo Mubarak e di conseguenza la possibilità di vedere realizzate le
politiche americane nel paese. Non si parla solo degli scioperi nelle
fabbriche, ma delle lotte dei contadini per l’assegnazione della terra, della
creazione di nuove organizzazioni della sinistra radicale che permettano di
uscire dalla clandestinità ideologica imposta da molti anni. La situazione
della sinistra radicale egiziana pone il problema che per i prossimi due anni
sarà molto improbabile che questa, in assenza di un partito comunista capace
di rappresentare la risposta alla domanda di emancipazione da parte delle
classi sfruttate, possa rappresentare la guida di questo movimento, anche se
questa fase può rappresentare il momento ideale per superare i conflitti al
suo interno e rilanciare una prospettiva per il popolo egiziano e non solo.
Secondo quanto riportato da una intervista durante la III Conferencia de El
Cairo Contra la Globalización, el Imperialismo y el Sionismo a due membri
della sinistra egizia, Seif al-Dawla femminista membro del movimento 20 de
Marzo e a Kamal Jalil portavoce dei Socialistas Revolucionarios egiziano e
direttore del Centro de Estudios Socialistas, la volontà di cambiamento si
scontra con una repressione che investe sia la sfera organizzativa, sia quella
della mobilitazione. Il Movimento 20 Marzo prende il nome dalla data d’inizio
dell’aggressione contro l’Iraq, occupandosi di denunciare gli oltre 2000 casi
di tortura contro i 20.000 prigionieri politici detenuti nelle carceri
egiziane.
Il potere in Egitto ritiene legali solo quelle organizzazioni che si accordano
precedentemente con lui. Gli intervistati, come appartenenti alla sinistra,
sono convinti che sia necessario continuare ad organizzarsi clandestinamente
senza dover scendere a nessun compromesso con il governo Mubarak. I lavoratori
dei nuovi distretti industriali, quelli frutto degli accordi sulle
Qualificated Industrial Zone (QIZ), non hanno possibilità di organizzarsi al
di fuori di quelle organizzazioni sindacali controllate dal governo che i due
intervistati definiscono i “comisarías de trabajadores”. Affrontando il
progetto del movimento Kefiya, ritengono pericoloso limitarsi alle richieste
di cambiamento democratico, in quanto nel progetto devono trovare risposta il
tema del lavoro per 6 milioni di disoccupati, l’unione delle rivendicazioni di
cambiamento politico con quelle di giustizia sociale, il percorso di unione
delle forze della sinistra, pur continuando a partecipare attivamente insieme
agli altri gruppi per un cambiamento politico nel paese.
La pesante repressione del governo Mubarak ha colpito in maniera sistematica,
in particolare in questa fase, i membri dell’organizzazione dei Fratelli
Mussulmani. A seguito degli attacchi contro i turisti al Cairo si è scatenata
una caccia all’uomo che ha portato a vere e proprie deportazioni ed al
rilancio, da parte governativa, dell’attualità della legislazione d’emergenza
promulgata nel 1981.
Alla fine di marzo le manifestazioni popolari organizzate da Kifaya erano
state bandite. Anzi, proprio gli arresti compiuti in occasione delle
precedenti manifestazioni (dove si sono registrati diversi scontri), hanno
rafforzato la propaganda a favore della legge di emergenza nazionale.
Il Marocco sta tentando di risolvere, attraverso la creazione di una
commissione che “risarcisca” le sue vittime e i loro familiari, una difficile
fase rappresentata dal tentativo di recuperare la frattura provocata da anni
di forte repressione dei movimenti politici e sociali. Tale passaggio si
inserisce in un progetto più generale, della monarchia del paese, per darsi un
volto nuovo verso la popolazione. Una popolazione che vede disoccupato un
terzo degli abitanti delle grandi città. Il moltiplicarsi di media e giornali
è in realtà un’abile manovra per dare voce a coloro che rappresentano gli
interessi della monarchia, gli unici che hanno realmente libertà di parola,
dimostrato dal continuo arresto di militanti islamici e dei diritti umani. La
mancata attuazione delle riforme, e la pressoché assenza dei miglioramenti
promessi, ha generato nelle masse un senso di frustrazione che, secondo alcuni
membri della sinistra socialista marocchina, non potrà che portare ad un
ulteriore scontro sociale per effettivi cambiamenti dato che “le mancate
riforme generano obbligatoriamente controriforme”. Al momento del rilascio un
sindacalista precedentemente arrestato ha dichiarato: “il nuovo potere in
Marocco ha ereditato in pieno le contraddizioni del vecchio; il perpetuarsi di
una politica dittatoriale impedisce di prendere la strada di riforme sociali e
politiche. Negli ultimi dieci anni le iniziative sono andate fortemente in due
direzioni: da una parte utilizzando le riforme come strumento per dare un
volto democratico al regime, dall’altra rafforzando il dispotismo e il nostro
arresto né è la prova”.
La scelta della sinistra marocchina, che presuppone una separazione tra la
lotta contro la monarchia da quella rivoluzione per una trasformazione
radicale delle relazioni sociali nel paese, trova alcune critiche all’interno
della stessa sinistra radicale.
Sul fronte dei lavoratori si registra un forte controllo del potere sui tre
sindacati principali rappresentati da UGTM, CDT e dalla CTM, che hanno, lo
scorso anno, firmato un patto sociale che garantisce sulla carta il pieno
riconoscimento del loro ruolo in cambio di una relativa pace sociale. Una
delle esperienze più interessanti è rappresentata dalla lotta dei giovani
disoccupati e della loro organizzazione l’Association Nationale Des Chômeurs
Diplomés (ANDCM). Il nuovo codice del lavoro del febbraio di quest’anno ha
ulteriormente rafforzato la flessibilità del lavoro, del salario e la
precarizzazione, aumentando le possibilità di licenziamento individuale,
abbassando i salari e previsto l’inserimento di agenzie di lavoro in affitto.
Dove non arriva il controllo dei sindacati di regime si fa largo la
repressione. In particolare risalta alla cronaca il processo contro i minatori
di Imini, protagonisti di una dura battaglia contro l’istituzione del lavoro
parziale nella loro miniera. Durante uno sciopero con blocco dei camion, la
direzione della miniera assoldava 130 esterni per consentire di togliere i
blocchi presenti. Durante gli scontri che ne seguirono perse la vita una donna
la cui responsabilità fu attribuita agli operai. In primo grado 6 operai sono
stati condannati a 10 anni di prigione, ma una vasta campagna di sostegno si è
sviluppata a livello internazionale ricevendo comunicati di solidarietà dalla
Francia, Spagna, Germania, Olanda, Belgio, Tunisia, e Palestina, con la
creazione di comitati locali di sostegno in alcune città di questi paesi. In
un comunicato di Voie Democratice (un fronte di alcune forze della sinistra
marxista marocchina) è attribuito al processo il significato di come “la
giustizia nel paese ritenga che non debbano essere tutelati i diritti
sindacali e sociali dei lavoratori, garantendo piena copertura alle strategie
repressive padronali”.
Dobbiamo salutare con piacere, davanti a questa lettura sebbene parziale di
quanto si sta verificando sia sul fronte imperialista, sia su quello di classe
nel nostro sempre più vicino Magreb, quanto sta avvenendo nel nostro paese nei
confronti della solidarietà che è andata svilupparsi attorno ai presunti
militanti di organizzazioni islamiche e della resistenza antimperialista
oggetto di attacchi repressivi da parte della magistratura italiana. Ma ancor
più importante è quello che si è generato nella lotta contro i lager per
immigrati che sta assumendo un’importanza strategica nella formazione dei
presupposti per una più completa integrazione nel quadro politico antagonista
dei soggetti protagonisti di questo ciclo di lotta che, per quanto descrivono
i compagni e le compagne che più direttamente vi hanno partecipato, hanno
dimostrato una maggiore chiarezza e capacità organizzativa di quanto chi da
fuori dava solidarietà avesse pensato. Una condizione che ci pone quindi sullo
stesso piano nel percorso di costruzione di un fronte interno ai paesi
imperialisti che, dal punto di vista potenziale, rappresenta la sintesi delle
contraddizioni sviluppate dalle politiche imperialiste sia sul fronte interno
sia su quello esterno.
Che il fuoco che cova sotto le ceneri abbia cominciato ad ardere e sia
arrivato il momento di gettare le basi solide per un progetto più ambizioso?
III Conferencia del Cairo
“Contro l’imperialismo,
la globalizzazione e il sionismo” |
I Processi ai Comunisti Egiziani 1951-1958, 1973-1989 |
Solidarietà ai sindacalisti
arrestati Vi invitiamo a prendere posizione, a moltiplicare i vostri attestati di solidarietà ed inviarli alle autorità marocchine e far pervenire una copia al comitato nazionale di sostegno ai sindacalisti incarcerati di Rabat : - Gouverneur de Ouarzazate: 00 212 44 88 25 68 - Ministre de la justice: 00 212 37 72 37 10 - Ministre de l’Intérieur: 00 212 37 76 74 04 - Ministre de l’énergie et des mines: 00 212 37 77 95 25 - Ministre du travail: 00 212 37 76 92 60 - Premier Ministre: 00 212 37 76 86 56 - Secrétariat du palais Royal: 00212 37 76 01 93 Comité national de soutien : - Abderrazak Drissi: Tél 0021263686797; abderrazzakdrissi@yahoo.fr - Khouya Mhamed: GSM 0021268963390; khouya_mhamed@yahoo.fr |