SENZA CENSURA N.16
FEBBRAIO 2005
Gatto selvaggio alla Opel di Bochum
Testimonianze dirette delle giornate di lotta contro il piano di ristrutturazione della GM in Germania
Il 14 ottobre 2004, lo strategico stabilimento di Bochum con 9600 operai ha
scioperato a “gatto selvaggio” bloccando la filiera in tutta Europa contro il
piano della GM di tagliare 12000 posti di lavoro su 60000 in tutto il
continente. Parallelamente si moltiplicano le proteste contro le riforme
programmate dalla coalizione rosso-verde: a Dortmund, Magdeburgo, Bochum,
Gelsenkirchen, così come nelle regioni dell’est operai licenziati, disoccupati
di lungo periodo ma anche studenti, lavoratori, militanti sindacali di base
hanno riempito le strade e le piazze per manifestare contro il cosiddetto “Hartz
4”, il quarto dei piani di riforma del mercato del lavoro (v. SC n.11 e 15). Qui
di seguito pubblichiamo alcuni materiali tratti dalla rivista Junge Welt: il
resoconto dell’assemblea che ha decretato la fine dello sciopero, e una serie di
interviste effettuate tra gli operai di Bochum.
L’ASSEMBLEA DECISIVA ALLA OPEL DI BOCHUM
Nella fabbrica Opel di Bochum l’assemblea, truccata, decide per la ripresa del
lavoro. Gli attivisti operai indignati dagli stratagemmi della commissione
interna affermano: “Questa è una presa per il sedere” - (21 ottobre 2004)
Con queste parole il delegato sindacale Uli Schreyer, ha sintetizzato a Junge
Welt l’assemblea dei lavoratori Opel di Bochum svoltasi nel pomeriggio di
mercoledì 20 ottobre e, allo stesso tempo, ha così espresso l’umore di tanti
suoi colleghi. Nell’assemblea, 4 647 dei 6 404 lavoratori presenti si erano
espressi, per votazione scritta, in favore della ripresa del lavoro. Il guaio
era la formulazione. Nella scheda di voto c’era da mettere una croce su un sì o
su un no alla domanda: “La commissione interna deve proseguire le trattative e
il lavoro deve riprendere?” “In tal modo la commissione interna ha collegato la
prosecuzione delle trattative, per altro caldeggiata da tutti i lavoratori, alla
contestata ripresa del lavoro”, critica Andreas Felder rappresentante del
direttore delle persone di fiducia del sindacato Ig Metall in due reparti della
fabbrica. “Lavoratori e persone di fiducia si sono adagiati sulla commissione
interna, ma sono stati fuorviati”, sostiene Felder. Lui invita Dietmar Hahn a
dimettersi da presidente della commissione interna. Questa, sin dall’inizio ha
mirato solo a riportarci al lavoro”, considera Walter Kwiatskoski, anche lui
delegato sindacale. “Con questo vertice alla commissione interna si buttano via
il ranno (l’acqua bollente e la cenere adoperate un tempo nei bucati,ndt) e il
sapone”, conclude un altro operaio. Secondo Kwiatskoski, poco prima
dell’assemblea di voto, quasi tutti erano per la prosecuzione dello sciopero. La
commissione interna, dopo una massiccia pressione della base, ha immediatamente
convocato un’assemblea generale.
Nell’assemblea però, poterono prendere parola soltanto Hahn, capo della
commissione interna e il suo vice, Rainer Einekel, come pure il delegato locale
di Ig Metall, Ludger Hinse. Ai critici non è stata data la possibilità di
esprimersi. “Ci aspettavamo che prima della votazione avesse luogo una
discussione aperta fra colleghi, ma non c’era il microfono”, informa Schreyer.
Einekel, che dirigeva i lavori dell’assemblea, nella conferenza stampa
successiva dichiara: ”per le discussioni ci sono state a disposizione ogni
giorno, a partire da giovedì della scorsa settimana (inizio della lotta, ndt),
24 ore”. Hinse invece ripeteva: “della formulazione così o cosà si può discutere
a lungo”, ma quel che conta è il risultato, e questo dice che il lavoro
riprenderà. Hahn da parte sua, con prudenza, ha affermato che la scheda era
stata preparata dalla commissione interna e non dalla direzione dell’impresa. I
negoziati proseguiranno domani, ha concluso.
“La lotta non è finita”, dice con fermezza Steffen Reichelt a Junge Welt. “Negli
ultimi giorni abbiamo imparato tantissimo, General Motors ( proprietaria anche
di Opel, ndt) con noi avrà ancora problemi considerevoli”, conclude Reichelt.
LA COMMISSIONE INTERNA ZOPPICAVA DIETRO DI NOI…
Dopo la fine dello sciopero fra i lavoratori Opel di Bochum c’è ancora tanto
bisogno di discussione. Una conversazione con Juergen Rosenthal, operaio in
quella fabbrica, che, durante lo sciopero dei cinque giorni, è stato uno dei
portavoce degli operai in lotta - (23 ottobre 2004)
Com’è la determinazione in fabbrica dopo la fine temporanea della lotta
operaia?
Qualche tensione si manifesta, ma non in modo aggressivo. Esistono, ben
distinti, due fronti: gli uni si sono espressi per la ripresa del lavoro, e gli
altri –circa 2 000 colleghi- erano per la prosecuzione della lotta. Fra i
lavoratori il bisogno di discussione è diventato molto forte.
Lei condivide la critica all’assemblea di fabbrica riguardo alla decisione di
interrompere la lotta?
Prima si decideva sempre e soltanto turno dopo turno, poi ci siamo accordati
con la commissione interna di riunire assieme tutti i turni. C’era accordo sul
mettere ai voti la questione del proseguimento o meno dello sciopero. In
un’assemblea ordinata, normalmente, ogni lavoratore presente, ha diritto di
parola. Noi volevamo questa assemblea per conoscere, una volta per tutte, quel
che in generale pensavano gli operai. Ma è andata in un modo completamente
diverso da quanto concordato: la formulazione sulla scheda di voto era ambigua,
le domande riguardanti la ripresa del lavoro e la prosecuzione delle trattative
erano state collegate invece di essere ben distinte. E non c’era un microfono
–hanno parlato solo il presidente della commissione interna, il suo
rappresentante e il membro autorizzato da Ig Metall.
In base a che cosa tanti colleghi hanno votato per la ripresa del lavoro?
Paura di fondo. Nella fabbrica di Bochum a 400-600 operai sono già stati
pignorati i salari a causa di debiti. Tanti hanno acquistato la casa. La paura
di perdere tutto questo, alla fine, è prevalsa su quel che si desiderava
raggiungere. Molti erano semplicemente in panico. Se noi avessimo proseguito la
lotta la loro esistenza sarebbe stata minacciata.
La commissione interna generale sin dall’inizio ha sostenuto a fatica i
colleghi in lotta. Come giudica lei questo ruolo?
Su questo mi esprimo così: la commissione interna, in una corsa di 100 mt.
ha notato che lo sparo d’avvio era partito quando gli altri corridori avevano
già raggiunto i 60 mt. I membri della commissione interna senz’altro vengono
sostituiti di frequente ma, in generale, pubblicamente proprio non li vedi.
Addirittura non avevano tenuto in conto che i lavoratori sarebbero entrati in
sciopero. Al quarto giorno di lotta hanno cercato di manipolare l’informazione,
ma l’operazione non è andata in porto tanto risultava esterna ai lavoratori. La
commissione interna zoppicava semplicemente dietro e non è mai stata padrona
della situazione.
In generale che bilancio trae dallo sciopero?
Noi abbiamo sempre detto che non si tratta solo di Bochum, che noi non lottiamo
soltanto per il nostro posto di lavoro. Piuttosto, in gioco ci sono 12 000 posti
in Europa. Altre questioni, quali la decurtazione del salario, ci hanno
interessato solo di sfuggita. Il proposito era: noi dobbiamo mostrare loro che
così non va. Purtroppo abbiamo ricevuto poca solidarietà dalle altre fabbriche
Opel nella Rft. Secondo la stampa, la solidarietà si è espressa meglio in
Inghilterra e Svezia.
Da parte del vertice dell’impresa dopo tutto non è giunta nessuna
concessione. L’azione, in generale, ha portato qualcosa?
In ogni caso ha portato a qualcosa. Abbiamo creato un’enorme pubblicità a
favore della nostra situazione. Ci sono colleghi di tutti i rami industriali che
hanno espresso la loro solidarietà a Bochum. Tutti hanno notato che noi non
siamo disposti a sopportare più tutto. Se fossimo partiti una settimana prima, i
colleghi di Karstadt si sarebbero uniti a noi, e avremmo potuto conquistare
molto di più.
Che accadrà adesso?
I colleghi seguiranno con molto interesse il proseguimento delle trattative.
Nonostante la grossa pubblicità, non abbiamo ancora ottenuto che qualcuna delle
pretese di General Motors venisse realmente ritirata. Se però si arriverà ai
licenziamenti o al punto che l’impresa venga spezzettata sicuramente i
lavoratori di Bochum non staranno a guardare inerti. Allora i colleghi sapranno
già il da farsi. E’ necessario far girare la giostra dell’informazione per fare
il punto.
“LO RIFAREI”
Una conversazione con Juergen Rosenthal, che lavora a Bochum e qui è stato uno
dei principali attivisti della lotta - (14 dicembre 2004)
Come giudica la recente “soluzione parziale” trovata alla Opel?
In fondo non è stato offerto nulla di nuovo. I licenziamenti annunciati non
sono rientrati. La “società-contenitore” significa nient’altro che ci saranno
licenziamenti a rate, e che i colleghi, dopo un anno, saranno disoccupati. Da
quando eravamo sulle porte sette settimane fa nulla è cambiato.
Il vice presidente di Ig Metall, Berthold Huber, e il presidente della
commissione interna generale della Opel, Klaus Franz, invece, come i politici e
i media, parlano di un grande successo.
Se è così, allora dobbiamo chiederci che cosa accadrà entro un anno ai
colleghi che passano nella società inventata ad arte (contenitore, ndt). A che
serve la riqualificazione se Opel non è più il maggiore datore di lavoro nella
regione? La gran parte dei colleghi, entro un anno, sicuramente sarà
definitivamente disoccupata.
La lotta operaia dell’ottobre è stata dunque vana?
No, in nessun caso. Sicuramente abbiamo capito che noi lavoratori Opel di
Bochum non potevamo raggiungere ciò per cui abbiamo lottato. Tuttavia abbiamo
finalmente risvegliato tantissimi colleghi in tutto il paese. La gente ha notato
che in genere si può lottare, perché chi non ha lottato ha già perso. Lo
sciopero di ottobre in nessun caso è stato un errore. In ogni caso lo rifarei,
Probabilmente altri ci prenderanno ad esempio. Forse anche a Bochum non è ancora
detta l’ultima.
Che cosa è mancato allo sciopero perché si verificasse un successo immediato?
Anche gli altri lavoratori Opel e General Motors di Ruesselheim,
Kaiserslautern, Eisenach, Antwerpen ecc., avrebbero dovuto scioperare. Se così
fosse andata avremmo dimostrato alla direzione: noi siamo tutti solidali, se
attaccate uno di noi ci attaccate tutti . Questo è mancato. Abbiamo corso da
soli. Allora i colleghi a poco a poco, hanno temuto per la propria esistenza.
Per ogni giorno di sciopero perdevano 100 euro netti. E taluni sono proprio
padri di famiglia, hanno parecchi bambini o hanno comperato casa. Non ne
potevano più. Sulla base di questa paura l’impresa ha ricondotto i colleghi al
lavoro.
Come giudica lei il ruolo del vertice della commissione interna e del
sindacato in questa lotta?
Quelli durante lo sciopero ci hanno piantati completamente in asso. Dai
giorni della lotta sono trascorse sette settimane, nelle quali loro hanno avuto
la possibilità di cavare qualcosa di ragionevole dalla trattativa. Hanno
promesso che non ci sarebbero stati licenziamenti. Invece, eccoli, come se tutto
fosse già stato scritto. Durante queste settimane la commissione interna non ci
ha mai informati sull’andamento delle trattative. Lungo tutto questo tempo ci
hanno tenuti nell’ignoranza e ricattato: quando vi comunichiamo il risultato non
dovete ritornare in strada. Per me sono tutti co-managers dell’Opel. Per questo
anche loro vogliono che non usciamo più dalla fabbrica.
Quali conclusioni trae dal ruolo svolto dai vertici sindacali? Quanto ampi
sono stati l’autorganizzazione e il collegamento alla base?
L’attività e il collegamento dei colleghi di base in ottobre è stato molto
grande. Ma adesso tutto questo si sta sbriciolando. Le persone di fiducia che
nello sciopero hanno giocato un ruolo attivo e combattivo, non sono state
rielette. La direzione e la commissione interna hanno aggiustato il tiro su
alcuni, su di me per esempio. Ma posso dar per certo che proseguiremo anche se
noi in questa lotta, una prima volta, abbiamo perso. Nostro obiettivo è
collegarci agli altri lavoratori e costruirci così una base più grande per le
lotte future.
“DA FRANZ NESSUNA SOLIDARIETA’ ”
Il capo della commissione interna Opel favorevole al trasferimento di Bochum a
Rueselheim. Una conversazione con Norbert Spittka. Norbert Spittka è il
dirigente regionale del Gruppo di lavoro dei lavoratori indipendenti alla Opel
di Bochum - (21 dicembre 2004)
Il presidente della commissione interna generale Opel, Klaus Franz, in un
comunicato stampa ha chiesto che la produzione del modello successivo all’Astra
non venga più realizzata a Bochum, ma che sia trasferita a Ruesselheim. Che ne
pensa lei?
Vedo questo come un preannuncio della chiusura della fabbrica di Bochum. E’
vero, già sapevamo che la chiusura definitiva di Bochum, presumibilmente,
dovesse avvenire entro il 2009, ma Klaus Franz adesso si è posizionato
decisamente in questo senso.
Come presidente della commissione interna generale, a dire il vero, Klaus
Franz dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori Opel.
Si, sicuramente lui è presidente della commissione interna generale, ma ha
sempre posto maggiore interesse sulle altre fabbriche Opel
Questo nonostante lui abbia sempre ripetuto che i lavoratori Opel non faranno
il gioco di General Motors mettendosi gli uni contro gli altri e restino
piuttosto reciprocamente solidali?
Per Klaus Franz non esiste nessuna solidarietà. La solidarietà, in fondo,
esiste soltanto all’interno della fabbrica di Bochum. Qui i lavoratori , da
soli, hanno sempre lottato anche per gli interessi delle altre fabbriche,
proprio come nell’ottobre scorso. Purtroppo alla lotta non si sono unite le
fabbriche di Ruesselheim, Eisenach e Kaiserslautern.
Quali possibilità hanno ancora ì lavoratori di Bochum per opporsi?
Nulla ancora è perso, in particolare alcuni colleghi negli ultimi giorni
hanno fatto esperienza inseguendo la promessa diffusa da Klaus Franz, secondo
cui, a chi se ne va verrebbero versati 200 000 euro di liquidazione. I colleghi
sono rimasti scioccati dai calcoli della direzione del personale, in cui la
liquidazione è fissata in 40 000 mila euro lordi, massimo 60 000. Con una simile
liquidazione non possono né vivere né morire. E del resto a loro non rimane
altro che restare in Opel.
Con la produzione degli assi, importante per il ciclo produttivo delle altre
fabbriche, i lavoratori di Bochum hanno ancora in pugno una carta decisiva.
Forse Klaus Franz all’inizio dell’anno, proprio come i politici e i media,
parlerà di un grande successo.
Come considera il piano del vertice dell’impresa di esternare parte della
produzione in altre imprese?
Questo non può essere buono per i lavoratori Opel. Parti intere della
produzione di Bochum dovranno senz’altro essere vendute. Il reparto più
redditizio - componenti, annessi e logistica - dovrebbe acquistarlo l’impresa
Usa Caterpillar, anche la produzione delle marmitte potrebbe essere venduta. Per
quel che riguarda la produzione degli assi è in corso una trattativa con
l’impresa Benteler. La produzione di questo meccanismo in futuro potrebbe essere
venduta alla Fiat. Di conseguenza a Bochum verrebbero chiuse le fabbriche 2 e 3.
Inoltre, va ricordato che sulla produzione delle presse sta per nascere un’
unione con Thyssen-Krupp. Nella sfera impiegatizia potrebbe essere introdotta
una società a responsabilità limitata (srl). Alla fine a Bochum proseguirà
soltanto la produzione di linea in qualità di Opel srl.
Già nel 2000 i lavoratori di Bochum avevano impedito l’attuazione di simili
misure estreme attestandosi sulla parola d’ordine “Noi siamo il personale”.
Anche adesso potrebbe divampare una nuova resistenza di fronte alla questione
dello smantellamento?
Come ho detto, all’inizio dell’anno la protesta potrebbe ripartire, ma se
Bochum dovesse scioperare, da sola non ce la farà. Soltanto se tutti i
lavoratori agiranno solidalmente potrà essere un successo. E questo dovrebbe
accadere il più rapidamente possibile, perché se General Motors Opel viene
spezzettata - e General Motors ci proverà, e prestissimo - la solidarietà fra i
lavoratori lì non esisterà più. Poi ognuno penserà solo a se stesso. Allora sarà
finita.
E IO MOBILITO L’INTERO TERRITORIO DEL MENO E DEL
RENO…
Una conversazione fra operai Opel ascoltata e raccolta da Mag Wompel, redattrice
di LabourNet e giornalista per Junge Welt - (11 dicembre 2004)
La conversazione si svolge fra Erwin, 49enne, Peter, suo fratello più
giovane, il loro amico Paul, tutti e tre operai Opel, e la compagna di Erwin,
Magda.
La redattrice di questo pezzo conosce Erwin avendo già raccolto da lui,
nell’autunno 2000, la descrizione sullo sviluppo delle condizioni di lavoro
seguite all’introduzione della produzione snella (Lean Production). In quell’anno
ad Erwin venne riscontrato un malanno ed infine si trovò licenziato; ancora oggi
è sostanzialmente disoccupato.
Anche il padre dei due fratelli è stato operaio in Opel, ma alla sua epoca
funzionava ancora il detto “una volta Opel, Opel per sempre”, cosa che da alcuni
anni non vale più.
Oggi è giovedì, incontro Erwin e la sua compagna in casa loro. Qui vengono a
rendere loro visita Peter, che lavora, come un tempo il fratello e il padre,
alla Opel di Bochum, il loro amico Paul , che invece lavora alla Opel di
Ruesselsheim. Ed Opel è il tema della conversazione fra queste quattro persone.
Ascoltiamole.
“In ottobre, in occasione dello sciopero a Bochum, ti ho visto in tv. Donne e
bambini assieme agli operai davanti alle porte della fabbrica, proprio bello.
Ero quasi invidiosa, perché non avevo mai visto una cosa del genere”, dice
Magda, mentre porge un caffè alle persone presenti.
“Ricordo”, dice Erwin. “ I primi accordi rinunciatari risalgono al 1993. Alcuni
pensionati che oggi si danno arie combattive, a quel tempo imposero quegli
accordi.”
“Credo di sapere a chi ti riferisci”, si introduce sorridendo Paul, “il
presidente della nostra commissione interna purtroppo è troppo giovane per
andare in pensione. “Ma io volevo tanto ringraziarti per il vostro sciopero a
Bochum. Ho sempre la cattiva coscienza che noi a Ruesselsheim siamo tutti
intorpiditi e lasciamo che ce ne combinino di tutti i colori e per questo voi ci
avete piantati in asso. Senza il vostro sciopero non avremmo il risultato delle
trattative che oggi ci viene messo davanti.”
“Lo trovi buono?” Peter appare sorpreso. “Noi però volevamo che dalla trattativa
fossero completamente esclusi i licenziamenti, la riduzione del personale, la
chiusura di fabbriche ed anche la chiusura di singoli reparti.
In definitiva, chiedevamo il rispetto integrale dell’accordo-quadro europeo:
nessun spezzettamento delle tre fabbriche Opel in Bochum, nessun licenziamento
in Opel. Di tutto questo non abbiamo avuto nulla. Nessun presentimento di quello
che in questo periodo è stato realmente trattato. 10 000 devono essere
licenziati e prima o poi alcune fabbriche –innanzitutto a Bochum- dovranno
essere chiuse. Quelle che restano aperte verranno comunque ridimensionate.”
“Sì, ma questo significa che non esiste alcuna chiusura e che la riduzione del
personale è socialmente tollerabile”, afferma Erwin. “Socialmente tollerabile è
la battuta dell’anno”, dice infervorata la sua compagna. “Ricorderai la
conclusione cui era giunta l’Alleanza Sociale secondo la quale qualcosa è
sopportabile solo in riferimento all’impresa, soprattutto quando si disfa delle
persone.
“Ad ogni modo non capisco”, obietta titubante Paul. “Le liquidazioni offerte mi
fanno riflettere. Se non sono sufficienti i volontari, l’impresa licenzierà 10
000 persone e senza liquidazioni, senza società intermediarie per
un’occupazione.”
“Andiamo con ordine”, ribatte Erwin reintroducendosi nella discussione, “se tu
non ricevi un posto di lavoro, la liquidazione non viene calcolata sul tuo
sussidio di disoccupazione, di conseguenza tu non riceverai nulla. E questa mia
carriera costretta attorno alle agenzie del lavoro, nell’ultimo anno è stata un
fiasco. E’ stato come essere incorporati in una società appositamente inventata
per dare un’occupazione immediata: scarsa qualificazione e nessuna
intermediazione sociale, dunque nessun sussidio.”
Peter è frustrato. “Tu, Paul, ancora te la cavi perché sei da tanto tempo in
Opel e dunque hai una liquidazione più alta. Anche in una società inventata sul
momento, tu, qui nella regione di Francoforte, hai maggiori chances. Da noi,
nella Ruhr, tutte le varianti conducono immediatamente alla disoccupazione (in
questa regione la situazione è aggravata dalla chiusura delle miniere, ndt).
Anche in una società messa in piedi per accogliere i licenziati non troverei un
posto, perderei comunque anche la pensione. Ancora 10 anni non possono tenermi.”
“Povero Peter”, Magda gli accarezza il braccio. “La società per l’occupazione
per voi di Ruesselsheim dovrebbe essere gestita, così ho sentito, da Ig Metall.
Ci saranno dei vantaggi rispetto alla nostra qui a Bochum.”
“Sì”, ribatte Paul. “Mypegasus appartiene al consulente del sindacato e ad un
altro ex metalmeccanico. Questa società è già ben insediata nell’est del paese.”
“Esatto.” Peter è furente. “Allora, nel caso non si faccia avanti un numero
sufficiente di volontari, la maggioranza della commissione interna generale
stenderà la lista dei nomi delle vittime. La direzione Opel deve aver posto,
come condizione al proseguimento delle trattative, la rinuncia alle condizioni
di lavoro e ai livelli salariali raggiunti nei decenni passati.”
“Sì”, dice Magda, “voi senz’altro dovrete scioperare ancora per molto tempo e
insieme a tutte le altre situazioni e imprese presenti nella Ruhr.”
“Vedremo”, sospira Peter. “Il futuro non è ancora scritto. O ci divideranno, o
tutto esplode di nuovo. La lotta dell’ottobre scorso ha dimostrato che non ci
lasceremo mettere sotto senza combattere. E allora si deve unire a noi anche
Paul.”
“E io mobilito l’intero territorio del Reno e del Meno”, promette Magda.
Lavoratori in concorrenza - “Workers and
Competition”di Wolfgang Schaumberg
trad. a cura di Sergio De Simone
Circa 25 anni fa, i dirigenti della fabbrica della Opel/General Motors in cui
lavoravo, cominciarono a sorprenderci con un nuovo genere di informazioni. Alla
catena di montaggio e in tutti i dipartimenti della fabbrica c’erano tabelloni
in cui potevano leggere, per esempio: “il vostro salario qui può essere visto
come il 100%. Per lo stesso lavoro la Opel paga il 75% in Inghilterra. Il 50% in
Portogallo”. E alla fine: “In Messico, la General Motors paga il 12%”.
Cos’era successo? A quel tempo le multinazionali avevano cominciato ad
organizzare la produzione in un nuovo modo. Con l’aiuto dell’elettronica e delle
nuove tecnologie, il management era diventato capace di comparare i costi a
livello globale in pochi secondi. E cominciarono a ricattarci sempre di più: “se
non la smettete di chiedere, se non venite a patti, affideremo la produzione di
questa o quella parte del prossimo modello ad un altro impianto”. Per esempio,
l’auto che si costruisce nella mia città, Bochum, si chiama Zafira e la General
Motors ha un altro impianto nel mondo in cui si produce lo stesso modello, e
quest’impianto si trova in Tailandia. Noi lavoratori cominciammo a discutere:
cosa potevamo fare contro questo nuovo genere di ricatto, e questa maniera di
metterci gli uni contro gli altri?. Così cominciammo, con l’aiuto di
organizzazioni come la TIE (Transnationals Information Exchange) a costruire una
rete all’interno della General Motors. Tenevamo conferenze internazionali di
lavoratori Gm in Olanda, in Inghilterra, una conferenza di lavoratori dell’auto
a San Paolo, in Brasile. Organizzammo visite mutue a colleghi in Spagna, in
Belgio, negli Usa, in Canada, nelle Filippine e così via. E cercammo di
pubblicare un quotidiano internazionale dei lavoratori Gm in 3 lingue. Il cambio
della produzione capitalista ci costrinse ad osservare la situazione negli altri
paesi. Per difendere i nostri interessi dovemmo apprendere molto della
condizione dei lavoratori in tutto il mondo, e della loro lotta.
I dirigenti non poterono evitare che cercassimo di tenerci in contatto, di
unirci in un nuovo contesto globale. Una parte sostanziale delle nostre attività
internazionali fu informare e coinvolgere i colleghi della fabbrica, e di
sfidare il sindacato ad unirsi o appoggiare le nostre attività. Ma il nostro
sindacato, la Igm, sindacato metalmeccanico, non voleva proprio far avvicinare
dal basso lavoratori di differenti paesi. Per riuscire a farsi un’idea della
politica sindacale, si deve sapere che in Germania esiste una lunga tradizione
di burocrazia convinta che i sindacati ed il governo, soprattutto se guidato dal
partito socialdemocratico, devono cooperare strettamente con i datori di lavoro.
Un’idea tipica che è sempre ripetuta dai leaders dei nostri sindacati è che, per
esempio, le imprese tedesche devono continuare ad essere campionesse mondiali
dell’export. Se l’obiettivo primario del sindacato è preservare il ruolo
dell’economia tedesca nel mercato mondiale, come potrebbe essere mai interessato
ad organizzare una lotta dei lavoratori a livello internazionale?
Per questo eravamo costretti a costruire una rete internazionale senza il nostro
sindacato. Che cosa riuscimmo ad ottenere? Potevamo usare i nostri collegamenti
per far sapere in una fabbrica delle lotte che si conducevano in altre, e far
inviare risoluzioni di solidarietà. A volte ottenevamo informazioni utili per i
negoziati con la dirigenza. Di rado riuscivamo ad organizzare azioni o scioperi
comuni a più paesi allo stesso tempo. La nostra rete non è molto vivace, né
efficace, oggi. Solo pochi collegamenti sono ancora utilizzati. Perché?
Prima di tutto, il problema che avevamo con il nostro sindacato esiste anche in
altri paesi, soprattutto in quelli maggiormente industrializzati come gli Stati
Uniti. Molti rappresentanti dei lavoratori a livello di stabilimento si pensano
o si definiscono come “co-managers” e cercano di aiutare l’azienda nella guerra
di concorrenza.
Secondo, anche la maggior parte dei lavoratori è legata ideologicamente alla
stessa idea di identità aziendale. Vogliono lottare per i loro interessi,
sperando che lo stabilimento in cui lavorano possa sopravvivere.
Terzo, i miei colleghi chiedono: qual è l’alternativa? Come possiamo andare
avanti senza considerare la situazione di profitto dell’azienda?
Perciò il mio ultimo argomento, che vale anche da conclusione, è che costruire
una rete di lavoratori europei, asiatici e di altri paesi è necessario. Ma non
dobbiamo discutere solo della difesa di ciò che abbiamo già ottenuto, non
dobbiamo chiedere soltanto salari più alti o maggiori diritti.
Dobbiamo discutere e trovare colleghi di altri paesi che vogliono discutere
delle vere ragioni alla base di questa dannata guerra di competizione a livello
globale e di come muoverci verso un mondo diverso.
Di cosa vogliamo venga prodotto, di come lo produciamo, di come si distribuisca.
Di come possiamo aiutarci a vicenda, superando i confini nazionali, in maniera
tale che tutte le persone possano produrre e consumare a livello superiore. Alla
fine, ciò significa lottare per un altro lavoro, non capitalistico.
Dovremmo prendere in considerazione il fatto che i capitalisti ci offrono molti
stimoli per avvicinarci a questa visione. Per esempio, i capitalisti ci uniscono
nella globalizzazione. Secondo, internet ci permette di discutere delle nostre
esperienze ed opinioni meglio che mai. Terzo, abbiamo imparato come si fa a
produrre. Sappiamo usare le tecnologie moderne.
Nelle grandi fabbriche abbiamo imparato ad organizzare il lavoro in gruppi.
Tramite l’outsourcing siamo diventati parte di una nuova divisione del lavoro.
Sappiamo che stiamo lavorando assieme mano nella mano, al livello nazionale e
anche nelle filiere produttive a livello internazionale, ma non con dignità
umana. Perché non dovremmo essere in grado di lavorare e vivere, un giorno,
senza il ruolo fastidioso dei proprietari delle fabbriche che i lavoratori hanno
costruito?
Wolfgang Schaumberg ha lavorato per trenta anni a Bochum, nella fabbrica
automobilistica Opel più grande d’Europa. È stato membro del suo consiglio di
fabbrica e rappresentante sindacale a livello locale per molti anni. Ora è in
pensione, ma è ancora attivo nel Coordinamento dell’industria automobilistica
tedesca (una rete sindacale), in labournet e con il Transnational Information
exchange (TIE). Le seguenti dichiarazioni sono state rilasciate al workshop
“Costruire la solidarietà e la cooperazione interregionale tra i lavoratori” al
Forum dei popoli Asem 5 di Hanoi, nel settembre 2004. Trascrizione dell’Asian
Regional Exchange for New Alternatives.