SENZA CENSURA N.16
FEBBRAIO 2005
Colombia: fascismo uribista e scambio di prigionieri
Come abbondantemente illustrato nel precedente articolo sul n. 14 di questa
rivista, non è improprio, anzi, è importante e quanto mai opportuno segnalare
come il regime narco-paramilitare di Uribe Vélez si caratterizzi per il suo
stampo fascista. Accentramento, anche formale ed istituzionalizzato, dei poteri
dello Stato, imposizione manu militari di misure e riforme di stampo
neo-corporativo (in materia di mercato del lavoro, pensioni, educazione, settore
energetico e delle telecomunicazioni), politica della “seguridad democratica” a
livello interno e salto qualitativo e quantitativo della repressione su più
livelli, sono i principali -anche se non gli unici- cardini di una dittatura
mascherata da democrazia presidenzialista. La proiezione internazionale della
Colombia, speculare e consustanziale alla gestione interna del processo di
fascistizzazione dello Stato, si è caratterizzata per l’atteggiamento arrogante
ed aggressivo nei confronti del Venezuela in particolare e della regione in
generale, in cui Uribe sta giocando sempre più il ruolo di “Sharon dell’America
Latina”, quale cane da guardia ed avamposto più “fedele” e ricattabile per
l’imperialismo statunitense.
Il vertiginoso peggioramento delle condizioni di vita di lavoratori, contadini,
studenti, sfollati e settori popolari in generale, causato anche e soprattutto
dal processo reale d’imposizione del Trattato di Libero Commercio con gli USA
(indiscutibilmente antecedente alla sua sottoscrizione ufficiale, non ancora
avvenuta ma imminente) ha contribuito in termini strutturali a tendere come la
corda di un arco le storiche e secolari contraddizioni in seno alla società
colombiana, e con esse le sempre più forti, radicali ed unificate mobilitazioni
e lotte popolari e di classe. Parallelamente, il cosiddetto Plan Patriota quale
ariete militare della strategia del South Com nel continente, organico al Plan
Colombia ed all’Iniziativa Regionale Andina e lanciato, ufficialmente, nei primi
mesi del 2004 per schiacciare la resistenza ed il controllo di vaste aree nel
sud colombiano da parte delle FARC-EP, sta fallendo clamorosamente. Basti
pensare che nei soli dipartimenti dell’oriente colombiano, in cui opera ed
esercita la propria influenza il Blocco Orientale dell’organizzazione
guerrigliera, durante l’anno scorso sono stati messi fuori combattimento (tra
morti e feriti) 4717 effettivi militari e paramilitari, in oltre 2400 scontri ed
azioni delle forze insorgenti che hanno anche abbattuto 4 elicotteri da guerra,
danneggiandone 38, e messo fuori combattimento 19 aerei nemici.
Nonostante la museruola applicata dall’uribismo ai media di regime, in margine
agli esiti e sviluppi reali del Plan Patriota, i suddetti risultati ne
dimostrano l’inconsistenza strategica, oltre che tattica, e chiariscono una
volta per tutte che l’altra appuntita spina nel fianco di Uribe, la questione
dei prigionieri di guerra detenuti dalla guerriglia, non può e non potrà essere
rimossa con la forza e con operativi militari. Nelle selve e montagne della
Colombia, infatti, le FARC hanno in loro potere 57 prigionieri di guerra, tra
ufficiali delle Forze Armate, 3 agenti della CIA e politici (come l’ex candidata
alla presidenza Ingrid Betancourt), alcuni dei quali detenuti da oltre sei anni,
che l’insorgenza è disposta a rilasciare nell’ambito di un accordo di scambio
che deve contemplare la liberazione di oltre 500 guerriglieri imprigionati nelle
carceri dello Stato. Un accordo di questa natura tra le parti, peraltro già
effettuato in passato con altri governi alla luce del secondo protocollo
aggiuntivo delle Convenzioni di Ginevra, implicherebbe il riconoscimento de iure
dello status di forza belligerante delle FARC, con tutte le conseguenze del
caso. Accordo che, quand’anche venisse presentato come “umanitario”, Uribe non
ha la benché minima volontà politica di siglare, nonostante le pressioni di
diversi ed importanti settori internazionali ed il parere maggioritariamente
favorevole del popolo colombiano. Tra i prigionieri di guerra rivoluzionari si
trova il dirigente della Commissione Internazionale delle FARC-EP Rodrigo Granda
(Comandante Ricardo Gónzales), sequestrato in Venezuela nel pieno centro di
Caracas il 13 dicembre scorso da agenti colombiani e venezuelani (prezzolati da
Bogotá), con la regia della CIA, che lo hanno poi consegnato a Cúcuta alla
polizia di quella città per mettere in scena una presunta cattura in territorio
colombiano. Inutile dire che il sequestro di Ricardo in territorio venezuelano
ha costituito una palese e criminale violazione della sovranità della Repubblica
Bolivariana del Venezuela, che ha risposto con veemenza e dignità richiamando a
tempo indefinito il proprio ambasciatore a Bogotá e rompendo tutte le relazioni
commerciali tra i due paesi.
Un altro prigioniero di guerra, Simón Trinidad, portavoce al Tavolo dei Dialoghi
durante il processo di pace con l’ex governo Pastrana, era stato sequestrato dai
servizi segreti colombiani e statunitensi a Quito, in Ecuador, il 2 gennaio del
2004, con la complicità ed il servigio del locale governo burattino di Lucio
Gutiérrez, a riprova del fatto che il fascismo uribista sta mettendo in pratica
metodi del tutto aderenti al famigerato Plan Condor, che negli anni ’70
consistette -tra le altre cose- in sequestri ed omicidi extraterritoriali di
militanti rivoluzionari e dissidenti politici oppostisi alle dittature dei paesi
del Cono Sud.
Come ulteriore schiaffo alla sovranità del popolo colombiano, Uribe Vélez ha
estradato negli USA Simón Trinidad il 31 dicembre scorso, mettendo un’ipoteca
negativa sulle possibilità di giungere ad uno scambio di prigionieri di guerra
di entrambe le parti. Simón “Dignidad”, come sempre più colombiani e persone di
tutto il mondo lo hanno ribattezzato, è stato intervistato a distanza
(fisicamente era impossibile) dal periodico comunista colombiano Voz, che gli ha
fatto pervenire domande e contro-risposte che fanno di questa intervista un
materiale inedito, che in Italia non è ancora stato diffuso e che abbiamo il
piacere di proporre ai lettori di Senza Censura, lanciando così una campagna per
sostenere lo scambio di prigionieri, denunciare il meccanismo perverso
dell’estradizione negli USA e sostenere i prigionieri combattenti e
rivoluzionari colombiani che resistono.
Associazione nazionale
Nuova Colombia
E-mail: nuovacolombia@yahoo.it
http://www.nuovacolombia.net
INTERVISTA A SIMÓN TRINIDAD
Qual è il tuo stato d’animo?
E’ eccellente, così come lo è stato durante tutto l’anno. Le convinzioni
filosofiche, ideologiche e politiche del rivoluzionario non si sminuiscono per
il fatto di aver perso la libertà fisica. Il carcere è una possibilità reale per
tutti quelli che si ribellano contro lo Stato, e non solo qui in Colombia o di
questi tempi; sempre i rivoluzionari del mondo e di tutte le epoche sono andati
in prigione. Se ciò si capisce con chiarezza, non c’è ragione per cui l’animo,
la volontà ed il morale del prigioniero di guerra o politico siano intaccati.
Come sono state le condizioni della prigionia in colombia?
Lo Stato, il Governo, l’INPEC (Istituto Nazionale Penitenziario colombiano,
N.d.T.) e in particolar modo l’ambasciata degli Stati Uniti si sono prefissi di
renderle più drastiche e difficili per me che per gli altri detenuti. Dal
momento della mia cattura sono stato mantenuto in totale isolamento. La prima
settimana in una cella nel bunker della Magistratura, e poi nel carcere di
massima sicurezza di Cómbita, in cui sono rimasto tutto l’anno in un braccio
speciale lontano dagli otto padiglioni e rinchiuso in una cella di tre metri per
due, almeno 22 ore al giorno, senza nessuno con cui parlare ad eccezione dei
miei carcerieri, senza il diritto di recarmi nella biblioteca, ai campi da
calcio e basket e senza la possibilità di giocare a scacchi. Mangio da solo in
cella, dove le guardie mi portano gli alimenti, a differenza degli altri
prigionieri di guerra e politici che condividono tutte queste attività dalle
05.00 alle 17.00.
Mia madre, un’anziana di 84 anni esiliata in Paraguay, è venuta in settembre con
l’idea di fermarsi nel Paese fino a dicembre per visitarmi ogni quindici giorni.
Lo ha potuto fare solo un sabato per due ore: il lunedì successivo l’hanno
chiamata per telefono e le hanno detto che sapevano chi fosse e dove fosse
alloggiata, e che l’avrebbero ammazzata. Per questo ha dovuto nuovamente
lasciare il Paese precipitosamente.
Qui comandano in tutto e per tutto i gringos dell’ambasciata. Le carceri vengono
costruite con i loro piani ed il regime interno per i prigionieri e le guardie è
copiato dal loro sistema penitenziario; vengono qua frequentemente a fare
ispezioni e propongono e dispongono quello che gli pare. Non esagero, quando
affermo che queste prigioni sono territorio statunitense. Anche qui la sovranità
è stata svenduta per via della disponibilità dell’oligarchia colombiana a
prostrarsi sempre all’impero.
Come trascorre una tua giornata in carcere?
Mi alzo alle 05.30, quando accendono la luce della cella, faccio il letto e
pulizia; poi faccio esercizi fisici e di riscaldamento per venti minuti, e per
altri venti vado a correre in un cortiletto di fianco alla cella prima di fare
sempre lì la doccia, con un’acqua deliziosamente fredda. Tornato in cella, sento
le notizie mentre faccio colazione, leggo la stampa ed a metà mattinata inizio a
studiare, dato che ho un piano che contempla diverse materie: politica, economia
e storia. Stacco con temi più leggeri come i romanzi, le biografie, la poesia ed
i racconti, che sono il genere letterario che preferisco. Nel pomeriggio
rispondo alla corrispondenza di molti prigionieri e prigioniere di guerra che mi
scrivono. Sento nuovamente le notizie e leggo fino a quando spengono la luce,
alle 20.00 o 20.30. Ascolto altri programmi radio, d’opinione o musicali. Mi
addormento sempre dopo le dieci di sera, e tutti i giorni leggo Bolívar e su
Bolívar. A volte mi fanno uscire in cortile a prendere sole ed a camminare,
un’ora di mattino ed una nel pomeriggio.
Cosa c’è di fondato nel piano di fuga “scoperto” pochi giorni fa dall’Esercito?
E’ tutta un’invenzione di un colonnello dal cognome Burgos, pagliaccio e
bugiardo, che pretendeva di avere dei meriti facendo credere al Paese che
qualcuno potrebbe scappare da questo carcere con l’appoggio di tre fucili da
caccia e due revolver. Neanche sua madre crede a questa balla. Hanno inventato
anche altre cose, che il Segretariato mi avrebbe abbandonato, che agenti gringos
avrebbero esercitato pressioni nei miei confronti affinché rivelassi il luogo in
cui sono detenuti i tre nordamericani o testimoniassi contro i miei superiori,
ed infine si sono inventati l’infamia secondo cui un cecchino mi avrebbe sparato
per zittirmi ed impedire che denunciassi i miei compagni alla Corte Federale.
Io sono un rivoluzionario integro e non un delatore. Quelle sono fallacie e
menzogne orchestrate dai media di regime.
Che cosa significa per un guerrigliero rivoluzionario essere in prigione in
un momento così importante del processo politico colombiano?
Le FARC non sono un’orda, e nemmeno un uomo o un caudillo. Le FARC sono
un’organizzazione con una struttura organica e gerarchica, e con piani politici
e militari che i differenti livelli di comando e responsabilità debbono
materializzare. Tutto quello che le FARC fanno o non fanno poggia su organi
collegiati. Abbiamo uno statuto, un regime disciplinare e delle norme di
comando, ed esistono doveri e diritti per tutti i militanti dell’organizzazione.
Siamo un partito politico con militanti organizzati in cellule molto attive, che
si riuniscono almeno due volte al mese. Siamo un’organizzazione che si avvale,
inoltre, di un numeroso gruppo di quadri capaci e sperimentati, che
intercambiano opinioni e discutono permanentemente della realtà nazionale e
mondiale. Nelle FARC si studia molto in merito a tutti i temi e tutte le
regioni, e a tal fine si realizzano scuole e corsi su vari livelli in cui si
preparano nuove generazioni di quadri, nelle competenze richieste da un esercito
e da un partito politico.
Esistono anche il Partito Clandestino ed il Movimento Bolivariano,
organizzazioni che formano allo stesso modo nuovi rivoluzionari e militanti, e
si portano avanti compiti di organizzazione, educazione, mobilitazione e lotta
nei settori operaio, contadino, indigeno, studentesco e popolare, dai quali
sorgono nuovi leaders con nuove esperienze. In più esistono altre organizzazioni
rivoluzionarie, popolari e democratiche, e migliaia, milioni di colombiani che
battagliano per conquistare una Colombia democratica, con giustizia sociale e
sovranità. Voi di VOZ informate ogni settimana circa le attività di queste
organizzazioni, dei loro dirigenti e delle loro basi, ragion per cui non mi
dilungherò ulteriormente su questo argomento. La mia lotta, quindi, s’inserisce
in una lotta sociale partecipata da migliaia di persone, che saranno milioni
nella conquista del potere. Così stanno le cose, la circostanza di essere
attualmente prigioniero è vista nella sua giusta dimensione, ed altri portano
avanti la battaglia.
Io andai a Quito a svolgere il compito di contattare personalmente l’ONU e l’ex
marito di Ingrid Betancourt, che lavorava all’ambasciata della Francia in quella
città, per dare un nuovo brio allo scambio di prigionieri. Dopo la mia cattura
il Segretariato ha nominato il compagno Felipe Rincón al mio posto, che ha le
migliori qualità come rivoluzionario e quadro delle FARC per adempiere nel
migliore dei modi a questo compito. Ecco il sostituto, senza grandi traumi. Le
FARC non si estingueranno certo per questo fatto.
Alla fine, com’è avvenuta la tua detenzione a Quito?
E’ stata un’operazione di agenti nordamericani e colombiani. Mi hanno
seguito e catturato, poi mi hanno consegnato alla polizia ecuadoriana che si è
inventata la storia secondo cui ero stato arrestato casualmente in un controllo
di routine.
Come vedi il Plan Patriota, tanto celebrato dalle autorità nazionali e dai
gringos?
Ho letto su Semana una dichiarazione del comandante delle Forze Armate, il
Generale Ospina, in cui affermava che i risultati del Plan Patriota non si
potevano misurare in base all’alto numero di morti. E si riferiva ai morti tra
le sue truppe. Lì ho capito che ad Uribe Vélez sta fallendo il Plan
Patriottardo. Le disperate pratiche a Washington dell’ambasciatore della
Colombia, mister Moreno, in cerca di altre milionate di dollari per questo
piano, sono un’ennesima dimostrazione di questo fallimento. Le continue visite
nel sud del Paese del precedente e del recentemente nominato comandante del
Comando Sud degli Stati Uniti, per ripristinare il morale dei soldati
colombiani, sono un’altra manifestazione dello schianto. Anche i reiterati
viaggi di Uribe Vélez negli Stati Uniti, per reclamare la continuità degli aiuti
in denaro ed in “assessori”, confermano che il piano non va bene. L’aumento del
numero di soldati e mercenari -“contrattisti” militari civili, secondo
l’eufemismo- del 100 e del 50% rispettivamente, per un totale di 800 e 600
unità, è un altro esempio del fallimento del piano disegnato dai gringos stessi.
Due settimane fa il senatore Vargas Lleras, ufficiale professionale della
riserva, ha detto in un programma radio di Caracol (Hora 20) che il Plan
Patriota, di fronte alle difficoltà incontrate per via della risposta
guerrigliera, era in ritardo di sette mesi; essendo iniziato nell’aprile di
quest’anno (2004, N.d.T.), con un semplice calcolo con le dita delle mani
possiamo dire che il Plan Patriota è avanzato solo di un mese nella tabella di
marcia! Tutto ciò nonostante ogni tipo di propaganda, aerei, elicotteri, armi,
radar e satelliti costati miliardi di dollari dei bilanci degli Stati Uniti e
della Colombia, con tutte le Forze Armate dedicate a compiere il più grande
piano di guerra che sia mai stato messo in pratica in tutta la nostra storia dai
tempi del pacificatore Morillo.
L’ideologo delle posizioni guerrafondaie in Colombia, Alfredo Rangel, il
Generale Valencia Tovar ed il ministro della guerra, incaricato di far mettere
in pratica il Plan Patriottardo, sono impelagati nella discussione bizantina
sulla necessità di altri aerei, elicotteri o soldati professionali. E i tre si
sbagliano, con nulla di ciò vinceranno e sconfiggeranno le FARC.
Queste sono le parole di un maggiore che è passato per la mia cella, adesso che
tutti i giorni l’Esercito fa una perquisizione in base alla menzogna del
presunto piano di fuga: “noi siamo convinti che non potremo mai sconfiggere la
guerriglia”. Su Voz e su El Tiempo ho letto alcuni bollettini di guerra dei
Blocchi Orientale e Sud delle FARC, nei quali ciò che si osserva è una
guerriglia forte, vigorosa, che combatte ogni giorno e che ottiene successi.
Come affronta la decisione di estradarla?
Tranquillo e con la dignità di un combattente rivoluzionario. Sono sempre
stato convinto che il pronunciamento della Corte Suprema di giustizia sarebbe
stato favorevole agli interessi politici degli Stati Uniti. E che Uribe Vélez
non avrebbe dubitato di ordinarla, poiché è una specie di vendetta contro le
FARC.
Perché?
Perché la Corte verifica solo che si tratti della persona reclamata, che la
documentazione presentata dallo Stato richiedente sia valida e che il
provvedimento emesso dal paese sollecitante sia applicabile all’estradizione,
vale a dire che ciò che là è delitto lo sia anche qui. Il presidente della
Corte, Herman Galán, ha detto pubblicamente di non essere d’accordo con
l’attuale meccanismo usato per autorizzare l’estradizione di colombiani; e in
uno strano istante di sincerità ha affermato che la Corte agisce come un
semplice notaio, o per meglio dire, che non è altro che un prestanome. Più che
membri di una Corte Suprema di Giustizia sono delle cortigiane disposte a
consegnarsi al padrone senza il minimo pudore. Si prostituiscono per svendere la
dignità e la sovranità in cambio del visto per andare negli USA e di qualche
whisky e salatino che gli danno i 4 luglio nell’ambasciata gringa a Bogotá.
Su quali basi poggia l’estradizione?
SIMÓN: I giudici gringos, basatisi su due agenti menzogneri, uno della DEA e
l’altro del FBI, si sono inventati capi d’imputazione, viaggi, date e testimoni,
e nulla di ciò è stato verificato dalla Corte. Se lo Stato nordamericano si è
inventato l’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq al fine
d’invaderlo ed appropriarsi del suo petrolio, mentendo a tutto il pianeta, cosa
non sarà capace d’inventare l’impero contro un guerrigliero, un rivoluzionario,
o contro un’organizzazione come le FARC che dai suoi inizi ha combattuto
l’imperialismo statunitense?
Mente l’Esercito colombiano quando assicura, in un rapporto d’intelligence, che
sono membro dello Stato Maggiore Centrale. Ed a questa falsità si aggrappano il
DAS, la DIJIN ed il CTI, così come i due magistrati di Washington, per
segnalarmi come determinatore della “presa d’ostaggi”; mente l’agente della DEA
nel dire che sono stato nel dipartimento del Vichada in attività di
narcotraffico, per esportare cinque chili di cocaina, quando tutto il Paese sa
che sono stato nel sud della Colombia partecipando prima ai lavori propri del
Comitato Tematico, ed in seconda battuta come portavoce al Tavolo dei Dialoghi
all’epoca del processo di pace. Vogliono presentare le FARC come
un’organizzazione terrorista e di narcotrafficanti, ma siamo un’organizzazione
rivoluzionaria con 40 anni di esistenza e di lotta politica e guerrigliera.
Mentono pure le autorità nordamericane, quando negano la loro partecipazione
diretta nel conflitto armato colombiano e presentano i loro tre prigionieri come
imprenditori e consiglieri informatici.
Ha creduto all’offerta di Uribe Vélez di differire la sua estradizione?
Uribe Vélez non ha mai negato un’estradizione dopo il parere favorevole
della Corte. Condizionare la mia estradizione alla liberazione dei 63
prigionieri in potere delle FARC è stato un ricatto. Essendo così grossolana la
manovra del Governo, mi ha fatto diventare un suo ostaggio. Inoltre, ciò che
perseguiva Uribe era giustificare il suo “cuore grande” con Mancuso (capo dei
paramilitari, N.d.T.). Negli Stati Uniti avrà inizio un’altra battaglia, non
solo mia ma anche delle FARC; e di tutti i colombiani e di tutti quelli che nel
mondo sono contro questa pratica imperialista, retaggio del colonialismo.
Vede qualche prospettiva per lo scambio o intercambio umanitario di
prigionieri?
Si. Non solo si è già dato un intercambio umanitario nel 2001, ma le FARC
hanno anche in proprio potere una trentina di ufficiali e sottufficiali
dell’Esercito catturati non proprio in un parco mentre giocavano alla trottola o
facevano volare aquiloni, bensì arresi in combattimento in diversi luoghi della
Colombia; le loro convinzioni politiche e religiose e la loro integrità fisica
vengono rispettate, e vengono accuditi come prigionieri di guerra.
Anche lo Stato detiene guerriglieri catturati in combattimento o mentre
svolgevano altri incarichi rivoluzionari. E così i prigionieri di una parte e
dell’altra possono e devono essere scambiati da pari. Ciò non è un mistero per
nessuno, è la realtà concreta.
Quello che è assurdo è il criterio del Comitato Internazionale della Croce
Rossa, secondo cui nei conflitti interni non vi sarebbero prigionieri di guerra.
Attualmente nel mondo la stragrande maggior parte delle guerre non è combattuta
tra paesi ma tra connazionali, ragion per cui tale concezione del CICR è non
solo assurda ma anche obsoleta. Ad essa si aggrappa lo Stato colombiano, da una
parte per negare a noi guerriglieri la condizione di prigionieri di guerra, e
dall’altra per negare ai propri soldati e poliziotti il carattere di prigionieri
di guerra e presentarli come sequestrati.
Su questo tema c’è un dibattito mondiale, addirittura all’interno del CICR; il
problema è che i principali finanziatori di quest’organismo sono gli Stati Uniti
ed il club dei paesi industrializzati, che tra l’altro hanno già superato il
problema delle guerre fratricide.
Se lo Stato colombiano accetta lo scambio di prigionieri di guerra, il problema
dei politici si risolve in un batter d’occhio. Ma l’oligarchia ed i suoi
generali non sono interessati ai loro soldatini: con denaro ne comprano di
nuovi. Sono comunque cosciente che la mia estradizione danneggia i negoziati per
lo scambio e crea maggior sfiducia da parte nostra.
Credi che vi sia una prospettiva nella lotta rivoluzionaria?
Sì, credo nella soluzione politica del conflitto e nella rivoluzione. “Il
diritto alla rivoluzione è l’unico diritto realmente storico, l’unico diritto su
cui poggiano tutti gli stati moderni senza eccezione”, come disse Federico
Engels; quest’affermazione è pienamente attuale, in special modo per tutti
quelli che lottano contro il capitalismo, sistema che è causa di tutte le piaghe
che affliggono l’umanità e che oggi sono moltiplicate dall’impero delle
transnazionali. La povertà e la miseria di 2.8 miliardi di esseri umani ne sono
una conseguenza, mentre le spese militari si elevano a 950 milioni di dollari
l’anno.
Il capitalismo è il responsabile del fatto che 270 milioni di bambini non
abbiano assistenza medica e 140 milioni di ragazzini siano privi di educazione
scolastica. Per colpa del capitalismo la disoccupazione nel mondo cresce, si
espande l’AIDS e si consente lo sfruttamento infantile che riguarda 180 milioni
di bimbi. Esso è il principale responsabile del terrorismo di Stato e del
commercio mondiale di narcotici, con i suoi favolosi profitti per il settore
finanziario, che ne è il maggior beneficiario. Tutto ciò, e molto altro, basati
sulla proprietà privata dei moderni mezzi di produzione e sullo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, cose che rendono più vigente che mai la lotta
rivoluzionaria.
Quanto detto viene riprodotto anche in Colombia. L’oligarchia, con la sua
voracità per i profitti economici ed il potere politico, ha affondato nella
povertà 29 milioni di colombiani e nella disoccupazione e sottoccupazione oltre
il 50% della forza lavoro, ha monopolizzato la banca, l’industria e la terra, ed
ha svenduto al capitale transnazionale il petrolio, il carbone, il nichel, il
gas e le telecomunicazioni; la corruzione è il pane quotidiano nelle imprese e
negli organismi statali, incrementata dagli imprenditori privati anch’essi
corrotti. L’oligarchia ha da sempre optato per la violenza, il terrore e la
guerra, motivo per cui si è strettamente alleata con i governi degli Stati
Uniti.
Per un combattente come lei, cosa significano le nuove condizioni della
prigionia?
Il carcere non annulla la lotta, al contrario, le dà continuità ed apre
altri spazi.
Sente qualche frustrazione o si crede responsabile di queste circostanze?
Un rivoluzionario non può sentirsi frustrato per aver lottato quand’era
libero, ed ancor meno al perdere la libertà fisica. L’essere rinchiusi non fa
svanire le nostre concezioni filosofiche, politiche, anzi, le rende più solide.
Il carcere forgia la condizione di ribelli, di rivoluzionari, di comunisti, di
continuatori delle idee di Simón Bolívar. Per verificarlo è sufficiente leggere
la corrispondenza che intercambiamo noi guerriglieri e guerrigliere prigionieri
di guerra. Una lettera di Yesid Arteta (comandante guerrigliero imprigionato da
diversi anni, N.d.T.), di una guerrigliera di base o di un giovane guerrigliero
trasmettono rivoluzione, dignità, valore e convinzioni.
Inoltre c’è la solidarietà di moltissima gente nel Paese ed in altre parti del
mondo, altre braccia innalzano le nostre bandiere, si gridano le nostre parole
d’ordine, si marcia e si protesta, si esige la nostra libertà e tutto ciò
stimola e motiva i nostri ideali.
Un messaggio prima della sua estradizione…
L’oligarchia ha un’assoluta chiarezza del suo percorso: democrazia per essa
e restrizione dei diritti politici per il popolo, come nella Grecia e nella Roma
antiche, democrazia per gli schiavisti ed assenza di diritti per gli schiavi,
puntello al neoliberismo economico o capitalismo selvaggio per arricchirsi
ulteriormente ed impoverire sempre più i lavoratori, sottomissione della
Colombia al TLC (Trattato di Libero Commercio) come primo passo per arrivare
all’ALCA e soddisfacimento degli interessi delle transnazionali e dei monopoli
nazionali. Anche a costo di ridurre questi ultimi a “coda del leone”,
contendersi definitivamente le risorse naturali ed umane del Paese, perpetuare
la pratica del terrorismo di Stato -oggi mascherato da sicurezza democratica- e
la guerra, con la pretesa di sconfiggere la guerriglia e placare le lotte
popolari, e svendere tutto quel poco che rimane di sovranità agli interessi
degli Stati Uniti come unica forma di mantenersi al potere formale. Quindi il
messaggio è per il popolo, ed è questo: organizzazione delle lotte popolari,
alleanza con settori democratici e progressisti e sostegno al movimento
guerrigliero. Unità, unità, unità popolare, democratica e rivoluzionaria, che è
la via per trionfare e costruire la Nuova Colombia.
E’ un addio o un arrivederci?
Da quando abbiamo assunto la lotta rivoluzionaria come ragion d’essere della
nostra esistenza, ed io non so vivere senza l’impegno totale verso la
rivoluzione, in qualunque condizione mi trovi, nel luogo che mi spetti e con il
sacrificio che sia necessario fare, solo c’è un futuro e questo è di lotta.