SENZA CENSURA N.16

FEBBRAIO 2005

 

Colombia: fascismo uribista e scambio di prigionieri


Come abbondantemente illustrato nel precedente articolo sul n. 14 di questa rivista, non è improprio, anzi, è importante e quanto mai opportuno segnalare come il regime narco-paramilitare di Uribe Vélez si caratterizzi per il suo stampo fascista. Accentramento, anche formale ed istituzionalizzato, dei poteri dello Stato, imposizione manu militari di misure e riforme di stampo neo-corporativo (in materia di mercato del lavoro, pensioni, educazione, settore energetico e delle telecomunicazioni), politica della “seguridad democratica” a livello interno e salto qualitativo e quantitativo della repressione su più livelli, sono i principali -anche se non gli unici- cardini di una dittatura mascherata da democrazia presidenzialista. La proiezione internazionale della Colombia, speculare e consustanziale alla gestione interna del processo di fascistizzazione dello Stato, si è caratterizzata per l’atteggiamento arrogante ed aggressivo nei confronti del Venezuela in particolare e della regione in generale, in cui Uribe sta giocando sempre più il ruolo di “Sharon dell’America Latina”, quale cane da guardia ed avamposto più “fedele” e ricattabile per l’imperialismo statunitense.
Il vertiginoso peggioramento delle condizioni di vita di lavoratori, contadini, studenti, sfollati e settori popolari in generale, causato anche e soprattutto dal processo reale d’imposizione del Trattato di Libero Commercio con gli USA (indiscutibilmente antecedente alla sua sottoscrizione ufficiale, non ancora avvenuta ma imminente) ha contribuito in termini strutturali a tendere come la corda di un arco le storiche e secolari contraddizioni in seno alla società colombiana, e con esse le sempre più forti, radicali ed unificate mobilitazioni e lotte popolari e di classe. Parallelamente, il cosiddetto Plan Patriota quale ariete militare della strategia del South Com nel continente, organico al Plan Colombia ed all’Iniziativa Regionale Andina e lanciato, ufficialmente, nei primi mesi del 2004 per schiacciare la resistenza ed il controllo di vaste aree nel sud colombiano da parte delle FARC-EP, sta fallendo clamorosamente. Basti pensare che nei soli dipartimenti dell’oriente colombiano, in cui opera ed esercita la propria influenza il Blocco Orientale dell’organizzazione guerrigliera, durante l’anno scorso sono stati messi fuori combattimento (tra morti e feriti) 4717 effettivi militari e paramilitari, in oltre 2400 scontri ed azioni delle forze insorgenti che hanno anche abbattuto 4 elicotteri da guerra, danneggiandone 38, e messo fuori combattimento 19 aerei nemici.
Nonostante la museruola applicata dall’uribismo ai media di regime, in margine agli esiti e sviluppi reali del Plan Patriota, i suddetti risultati ne dimostrano l’inconsistenza strategica, oltre che tattica, e chiariscono una volta per tutte che l’altra appuntita spina nel fianco di Uribe, la questione dei prigionieri di guerra detenuti dalla guerriglia, non può e non potrà essere rimossa con la forza e con operativi militari. Nelle selve e montagne della Colombia, infatti, le FARC hanno in loro potere 57 prigionieri di guerra, tra ufficiali delle Forze Armate, 3 agenti della CIA e politici (come l’ex candidata alla presidenza Ingrid Betancourt), alcuni dei quali detenuti da oltre sei anni, che l’insorgenza è disposta a rilasciare nell’ambito di un accordo di scambio che deve contemplare la liberazione di oltre 500 guerriglieri imprigionati nelle carceri dello Stato. Un accordo di questa natura tra le parti, peraltro già effettuato in passato con altri governi alla luce del secondo protocollo aggiuntivo delle Convenzioni di Ginevra, implicherebbe il riconoscimento de iure dello status di forza belligerante delle FARC, con tutte le conseguenze del caso. Accordo che, quand’anche venisse presentato come “umanitario”, Uribe non ha la benché minima volontà politica di siglare, nonostante le pressioni di diversi ed importanti settori internazionali ed il parere maggioritariamente favorevole del popolo colombiano. Tra i prigionieri di guerra rivoluzionari si trova il dirigente della Commissione Internazionale delle FARC-EP Rodrigo Granda (Comandante Ricardo Gónzales), sequestrato in Venezuela nel pieno centro di Caracas il 13 dicembre scorso da agenti colombiani e venezuelani (prezzolati da Bogotá), con la regia della CIA, che lo hanno poi consegnato a Cúcuta alla polizia di quella città per mettere in scena una presunta cattura in territorio colombiano. Inutile dire che il sequestro di Ricardo in territorio venezuelano ha costituito una palese e criminale violazione della sovranità della Repubblica Bolivariana del Venezuela, che ha risposto con veemenza e dignità richiamando a tempo indefinito il proprio ambasciatore a Bogotá e rompendo tutte le relazioni commerciali tra i due paesi.
Un altro prigioniero di guerra, Simón Trinidad, portavoce al Tavolo dei Dialoghi durante il processo di pace con l’ex governo Pastrana, era stato sequestrato dai servizi segreti colombiani e statunitensi a Quito, in Ecuador, il 2 gennaio del 2004, con la complicità ed il servigio del locale governo burattino di Lucio Gutiérrez, a riprova del fatto che il fascismo uribista sta mettendo in pratica metodi del tutto aderenti al famigerato Plan Condor, che negli anni ’70 consistette -tra le altre cose- in sequestri ed omicidi extraterritoriali di militanti rivoluzionari e dissidenti politici oppostisi alle dittature dei paesi del Cono Sud.
Come ulteriore schiaffo alla sovranità del popolo colombiano, Uribe Vélez ha estradato negli USA Simón Trinidad il 31 dicembre scorso, mettendo un’ipoteca negativa sulle possibilità di giungere ad uno scambio di prigionieri di guerra di entrambe le parti. Simón “Dignidad”, come sempre più colombiani e persone di tutto il mondo lo hanno ribattezzato, è stato intervistato a distanza (fisicamente era impossibile) dal periodico comunista colombiano Voz, che gli ha fatto pervenire domande e contro-risposte che fanno di questa intervista un materiale inedito, che in Italia non è ancora stato diffuso e che abbiamo il piacere di proporre ai lettori di Senza Censura, lanciando così una campagna per sostenere lo scambio di prigionieri, denunciare il meccanismo perverso dell’estradizione negli USA e sostenere i prigionieri combattenti e rivoluzionari colombiani che resistono.

Associazione nazionale
Nuova Colombia

E-mail: nuovacolombia@yahoo.it
http://www.nuovacolombia.net


INTERVISTA A SIMÓN TRINIDAD

Qual è il tuo stato d’animo?
E’ eccellente, così come lo è stato durante tutto l’anno. Le convinzioni filosofiche, ideologiche e politiche del rivoluzionario non si sminuiscono per il fatto di aver perso la libertà fisica. Il carcere è una possibilità reale per tutti quelli che si ribellano contro lo Stato, e non solo qui in Colombia o di questi tempi; sempre i rivoluzionari del mondo e di tutte le epoche sono andati in prigione. Se ciò si capisce con chiarezza, non c’è ragione per cui l’animo, la volontà ed il morale del prigioniero di guerra o politico siano intaccati.

Come sono state le condizioni della prigionia in colombia?
Lo Stato, il Governo, l’INPEC (Istituto Nazionale Penitenziario colombiano, N.d.T.) e in particolar modo l’ambasciata degli Stati Uniti si sono prefissi di renderle più drastiche e difficili per me che per gli altri detenuti. Dal momento della mia cattura sono stato mantenuto in totale isolamento. La prima settimana in una cella nel bunker della Magistratura, e poi nel carcere di massima sicurezza di Cómbita, in cui sono rimasto tutto l’anno in un braccio speciale lontano dagli otto padiglioni e rinchiuso in una cella di tre metri per due, almeno 22 ore al giorno, senza nessuno con cui parlare ad eccezione dei miei carcerieri, senza il diritto di recarmi nella biblioteca, ai campi da calcio e basket e senza la possibilità di giocare a scacchi. Mangio da solo in cella, dove le guardie mi portano gli alimenti, a differenza degli altri prigionieri di guerra e politici che condividono tutte queste attività dalle 05.00 alle 17.00.
Mia madre, un’anziana di 84 anni esiliata in Paraguay, è venuta in settembre con l’idea di fermarsi nel Paese fino a dicembre per visitarmi ogni quindici giorni. Lo ha potuto fare solo un sabato per due ore: il lunedì successivo l’hanno chiamata per telefono e le hanno detto che sapevano chi fosse e dove fosse alloggiata, e che l’avrebbero ammazzata. Per questo ha dovuto nuovamente lasciare il Paese precipitosamente.
Qui comandano in tutto e per tutto i gringos dell’ambasciata. Le carceri vengono costruite con i loro piani ed il regime interno per i prigionieri e le guardie è copiato dal loro sistema penitenziario; vengono qua frequentemente a fare ispezioni e propongono e dispongono quello che gli pare. Non esagero, quando affermo che queste prigioni sono territorio statunitense. Anche qui la sovranità è stata svenduta per via della disponibilità dell’oligarchia colombiana a prostrarsi sempre all’impero.

Come trascorre una tua giornata in carcere?
Mi alzo alle 05.30, quando accendono la luce della cella, faccio il letto e pulizia; poi faccio esercizi fisici e di riscaldamento per venti minuti, e per altri venti vado a correre in un cortiletto di fianco alla cella prima di fare sempre lì la doccia, con un’acqua deliziosamente fredda. Tornato in cella, sento le notizie mentre faccio colazione, leggo la stampa ed a metà mattinata inizio a studiare, dato che ho un piano che contempla diverse materie: politica, economia e storia. Stacco con temi più leggeri come i romanzi, le biografie, la poesia ed i racconti, che sono il genere letterario che preferisco. Nel pomeriggio rispondo alla corrispondenza di molti prigionieri e prigioniere di guerra che mi scrivono. Sento nuovamente le notizie e leggo fino a quando spengono la luce, alle 20.00 o 20.30. Ascolto altri programmi radio, d’opinione o musicali. Mi addormento sempre dopo le dieci di sera, e tutti i giorni leggo Bolívar e su Bolívar. A volte mi fanno uscire in cortile a prendere sole ed a camminare, un’ora di mattino ed una nel pomeriggio.
Cosa c’è di fondato nel piano di fuga “scoperto” pochi giorni fa dall’Esercito?
E’ tutta un’invenzione di un colonnello dal cognome Burgos, pagliaccio e bugiardo, che pretendeva di avere dei meriti facendo credere al Paese che qualcuno potrebbe scappare da questo carcere con l’appoggio di tre fucili da caccia e due revolver. Neanche sua madre crede a questa balla. Hanno inventato anche altre cose, che il Segretariato mi avrebbe abbandonato, che agenti gringos avrebbero esercitato pressioni nei miei confronti affinché rivelassi il luogo in cui sono detenuti i tre nordamericani o testimoniassi contro i miei superiori, ed infine si sono inventati l’infamia secondo cui un cecchino mi avrebbe sparato per zittirmi ed impedire che denunciassi i miei compagni alla Corte Federale.
Io sono un rivoluzionario integro e non un delatore. Quelle sono fallacie e menzogne orchestrate dai media di regime.

Che cosa significa per un guerrigliero rivoluzionario essere in prigione in un momento così importante del processo politico colombiano?
Le FARC non sono un’orda, e nemmeno un uomo o un caudillo. Le FARC sono un’organizzazione con una struttura organica e gerarchica, e con piani politici e militari che i differenti livelli di comando e responsabilità debbono materializzare. Tutto quello che le FARC fanno o non fanno poggia su organi collegiati. Abbiamo uno statuto, un regime disciplinare e delle norme di comando, ed esistono doveri e diritti per tutti i militanti dell’organizzazione. Siamo un partito politico con militanti organizzati in cellule molto attive, che si riuniscono almeno due volte al mese. Siamo un’organizzazione che si avvale, inoltre, di un numeroso gruppo di quadri capaci e sperimentati, che intercambiano opinioni e discutono permanentemente della realtà nazionale e mondiale. Nelle FARC si studia molto in merito a tutti i temi e tutte le regioni, e a tal fine si realizzano scuole e corsi su vari livelli in cui si preparano nuove generazioni di quadri, nelle competenze richieste da un esercito e da un partito politico.
Esistono anche il Partito Clandestino ed il Movimento Bolivariano, organizzazioni che formano allo stesso modo nuovi rivoluzionari e militanti, e si portano avanti compiti di organizzazione, educazione, mobilitazione e lotta nei settori operaio, contadino, indigeno, studentesco e popolare, dai quali sorgono nuovi leaders con nuove esperienze. In più esistono altre organizzazioni rivoluzionarie, popolari e democratiche, e migliaia, milioni di colombiani che battagliano per conquistare una Colombia democratica, con giustizia sociale e sovranità. Voi di VOZ informate ogni settimana circa le attività di queste organizzazioni, dei loro dirigenti e delle loro basi, ragion per cui non mi dilungherò ulteriormente su questo argomento. La mia lotta, quindi, s’inserisce in una lotta sociale partecipata da migliaia di persone, che saranno milioni nella conquista del potere. Così stanno le cose, la circostanza di essere attualmente prigioniero è vista nella sua giusta dimensione, ed altri portano avanti la battaglia.
Io andai a Quito a svolgere il compito di contattare personalmente l’ONU e l’ex marito di Ingrid Betancourt, che lavorava all’ambasciata della Francia in quella città, per dare un nuovo brio allo scambio di prigionieri. Dopo la mia cattura il Segretariato ha nominato il compagno Felipe Rincón al mio posto, che ha le migliori qualità come rivoluzionario e quadro delle FARC per adempiere nel migliore dei modi a questo compito. Ecco il sostituto, senza grandi traumi. Le FARC non si estingueranno certo per questo fatto.

Alla fine, com’è avvenuta la tua detenzione a Quito?
E’ stata un’operazione di agenti nordamericani e colombiani. Mi hanno seguito e catturato, poi mi hanno consegnato alla polizia ecuadoriana che si è inventata la storia secondo cui ero stato arrestato casualmente in un controllo di routine.

Come vedi il Plan Patriota, tanto celebrato dalle autorità nazionali e dai gringos?
Ho letto su Semana una dichiarazione del comandante delle Forze Armate, il Generale Ospina, in cui affermava che i risultati del Plan Patriota non si potevano misurare in base all’alto numero di morti. E si riferiva ai morti tra le sue truppe. Lì ho capito che ad Uribe Vélez sta fallendo il Plan Patriottardo. Le disperate pratiche a Washington dell’ambasciatore della Colombia, mister Moreno, in cerca di altre milionate di dollari per questo piano, sono un’ennesima dimostrazione di questo fallimento. Le continue visite nel sud del Paese del precedente e del recentemente nominato comandante del Comando Sud degli Stati Uniti, per ripristinare il morale dei soldati colombiani, sono un’altra manifestazione dello schianto. Anche i reiterati viaggi di Uribe Vélez negli Stati Uniti, per reclamare la continuità degli aiuti in denaro ed in “assessori”, confermano che il piano non va bene. L’aumento del numero di soldati e mercenari -“contrattisti” militari civili, secondo l’eufemismo- del 100 e del 50% rispettivamente, per un totale di 800 e 600 unità, è un altro esempio del fallimento del piano disegnato dai gringos stessi.
Due settimane fa il senatore Vargas Lleras, ufficiale professionale della riserva, ha detto in un programma radio di Caracol (Hora 20) che il Plan Patriota, di fronte alle difficoltà incontrate per via della risposta guerrigliera, era in ritardo di sette mesi; essendo iniziato nell’aprile di quest’anno (2004, N.d.T.), con un semplice calcolo con le dita delle mani possiamo dire che il Plan Patriota è avanzato solo di un mese nella tabella di marcia! Tutto ciò nonostante ogni tipo di propaganda, aerei, elicotteri, armi, radar e satelliti costati miliardi di dollari dei bilanci degli Stati Uniti e della Colombia, con tutte le Forze Armate dedicate a compiere il più grande piano di guerra che sia mai stato messo in pratica in tutta la nostra storia dai tempi del pacificatore Morillo.
L’ideologo delle posizioni guerrafondaie in Colombia, Alfredo Rangel, il Generale Valencia Tovar ed il ministro della guerra, incaricato di far mettere in pratica il Plan Patriottardo, sono impelagati nella discussione bizantina sulla necessità di altri aerei, elicotteri o soldati professionali. E i tre si sbagliano, con nulla di ciò vinceranno e sconfiggeranno le FARC.
Queste sono le parole di un maggiore che è passato per la mia cella, adesso che tutti i giorni l’Esercito fa una perquisizione in base alla menzogna del presunto piano di fuga: “noi siamo convinti che non potremo mai sconfiggere la guerriglia”. Su Voz e su El Tiempo ho letto alcuni bollettini di guerra dei Blocchi Orientale e Sud delle FARC, nei quali ciò che si osserva è una guerriglia forte, vigorosa, che combatte ogni giorno e che ottiene successi.

Come affronta la decisione di estradarla?
Tranquillo e con la dignità di un combattente rivoluzionario. Sono sempre stato convinto che il pronunciamento della Corte Suprema di giustizia sarebbe stato favorevole agli interessi politici degli Stati Uniti. E che Uribe Vélez non avrebbe dubitato di ordinarla, poiché è una specie di vendetta contro le FARC.

Perché?
Perché la Corte verifica solo che si tratti della persona reclamata, che la documentazione presentata dallo Stato richiedente sia valida e che il provvedimento emesso dal paese sollecitante sia applicabile all’estradizione, vale a dire che ciò che là è delitto lo sia anche qui. Il presidente della Corte, Herman Galán, ha detto pubblicamente di non essere d’accordo con l’attuale meccanismo usato per autorizzare l’estradizione di colombiani; e in uno strano istante di sincerità ha affermato che la Corte agisce come un semplice notaio, o per meglio dire, che non è altro che un prestanome. Più che membri di una Corte Suprema di Giustizia sono delle cortigiane disposte a consegnarsi al padrone senza il minimo pudore. Si prostituiscono per svendere la dignità e la sovranità in cambio del visto per andare negli USA e di qualche whisky e salatino che gli danno i 4 luglio nell’ambasciata gringa a Bogotá.

 

Su quali basi poggia l’estradizione?
SIMÓN: I giudici gringos, basatisi su due agenti menzogneri, uno della DEA e l’altro del FBI, si sono inventati capi d’imputazione, viaggi, date e testimoni, e nulla di ciò è stato verificato dalla Corte. Se lo Stato nordamericano si è inventato l’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq al fine d’invaderlo ed appropriarsi del suo petrolio, mentendo a tutto il pianeta, cosa non sarà capace d’inventare l’impero contro un guerrigliero, un rivoluzionario, o contro un’organizzazione come le FARC che dai suoi inizi ha combattuto l’imperialismo statunitense?
Mente l’Esercito colombiano quando assicura, in un rapporto d’intelligence, che sono membro dello Stato Maggiore Centrale. Ed a questa falsità si aggrappano il DAS, la DIJIN ed il CTI, così come i due magistrati di Washington, per segnalarmi come determinatore della “presa d’ostaggi”; mente l’agente della DEA nel dire che sono stato nel dipartimento del Vichada in attività di narcotraffico, per esportare cinque chili di cocaina, quando tutto il Paese sa che sono stato nel sud della Colombia partecipando prima ai lavori propri del Comitato Tematico, ed in seconda battuta come portavoce al Tavolo dei Dialoghi all’epoca del processo di pace. Vogliono presentare le FARC come un’organizzazione terrorista e di narcotrafficanti, ma siamo un’organizzazione rivoluzionaria con 40 anni di esistenza e di lotta politica e guerrigliera. Mentono pure le autorità nordamericane, quando negano la loro partecipazione diretta nel conflitto armato colombiano e presentano i loro tre prigionieri come imprenditori e consiglieri informatici.

Ha creduto all’offerta di Uribe Vélez di differire la sua estradizione?
Uribe Vélez non ha mai negato un’estradizione dopo il parere favorevole della Corte. Condizionare la mia estradizione alla liberazione dei 63 prigionieri in potere delle FARC è stato un ricatto. Essendo così grossolana la manovra del Governo, mi ha fatto diventare un suo ostaggio. Inoltre, ciò che perseguiva Uribe era giustificare il suo “cuore grande” con Mancuso (capo dei paramilitari, N.d.T.). Negli Stati Uniti avrà inizio un’altra battaglia, non solo mia ma anche delle FARC; e di tutti i colombiani e di tutti quelli che nel mondo sono contro questa pratica imperialista, retaggio del colonialismo.

Vede qualche prospettiva per lo scambio o intercambio umanitario di prigionieri?
Si. Non solo si è già dato un intercambio umanitario nel 2001, ma le FARC hanno anche in proprio potere una trentina di ufficiali e sottufficiali dell’Esercito catturati non proprio in un parco mentre giocavano alla trottola o facevano volare aquiloni, bensì arresi in combattimento in diversi luoghi della Colombia; le loro convinzioni politiche e religiose e la loro integrità fisica vengono rispettate, e vengono accuditi come prigionieri di guerra.
Anche lo Stato detiene guerriglieri catturati in combattimento o mentre svolgevano altri incarichi rivoluzionari. E così i prigionieri di una parte e dell’altra possono e devono essere scambiati da pari. Ciò non è un mistero per nessuno, è la realtà concreta.
Quello che è assurdo è il criterio del Comitato Internazionale della Croce Rossa, secondo cui nei conflitti interni non vi sarebbero prigionieri di guerra. Attualmente nel mondo la stragrande maggior parte delle guerre non è combattuta tra paesi ma tra connazionali, ragion per cui tale concezione del CICR è non solo assurda ma anche obsoleta. Ad essa si aggrappa lo Stato colombiano, da una parte per negare a noi guerriglieri la condizione di prigionieri di guerra, e dall’altra per negare ai propri soldati e poliziotti il carattere di prigionieri di guerra e presentarli come sequestrati.
Su questo tema c’è un dibattito mondiale, addirittura all’interno del CICR; il problema è che i principali finanziatori di quest’organismo sono gli Stati Uniti ed il club dei paesi industrializzati, che tra l’altro hanno già superato il problema delle guerre fratricide.
Se lo Stato colombiano accetta lo scambio di prigionieri di guerra, il problema dei politici si risolve in un batter d’occhio. Ma l’oligarchia ed i suoi generali non sono interessati ai loro soldatini: con denaro ne comprano di nuovi. Sono comunque cosciente che la mia estradizione danneggia i negoziati per lo scambio e crea maggior sfiducia da parte nostra.

Credi che vi sia una prospettiva nella lotta rivoluzionaria?
Sì, credo nella soluzione politica del conflitto e nella rivoluzione. “Il diritto alla rivoluzione è l’unico diritto realmente storico, l’unico diritto su cui poggiano tutti gli stati moderni senza eccezione”, come disse Federico Engels; quest’affermazione è pienamente attuale, in special modo per tutti quelli che lottano contro il capitalismo, sistema che è causa di tutte le piaghe che affliggono l’umanità e che oggi sono moltiplicate dall’impero delle transnazionali. La povertà e la miseria di 2.8 miliardi di esseri umani ne sono una conseguenza, mentre le spese militari si elevano a 950 milioni di dollari l’anno.
Il capitalismo è il responsabile del fatto che 270 milioni di bambini non abbiano assistenza medica e 140 milioni di ragazzini siano privi di educazione scolastica. Per colpa del capitalismo la disoccupazione nel mondo cresce, si espande l’AIDS e si consente lo sfruttamento infantile che riguarda 180 milioni di bimbi. Esso è il principale responsabile del terrorismo di Stato e del commercio mondiale di narcotici, con i suoi favolosi profitti per il settore finanziario, che ne è il maggior beneficiario. Tutto ciò, e molto altro, basati sulla proprietà privata dei moderni mezzi di produzione e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, cose che rendono più vigente che mai la lotta rivoluzionaria.
Quanto detto viene riprodotto anche in Colombia. L’oligarchia, con la sua voracità per i profitti economici ed il potere politico, ha affondato nella povertà 29 milioni di colombiani e nella disoccupazione e sottoccupazione oltre il 50% della forza lavoro, ha monopolizzato la banca, l’industria e la terra, ed ha svenduto al capitale transnazionale il petrolio, il carbone, il nichel, il gas e le telecomunicazioni; la corruzione è il pane quotidiano nelle imprese e negli organismi statali, incrementata dagli imprenditori privati anch’essi corrotti. L’oligarchia ha da sempre optato per la violenza, il terrore e la guerra, motivo per cui si è strettamente alleata con i governi degli Stati Uniti.

Per un combattente come lei, cosa significano le nuove condizioni della prigionia?
Il carcere non annulla la lotta, al contrario, le dà continuità ed apre altri spazi.

Sente qualche frustrazione o si crede responsabile di queste circostanze?
Un rivoluzionario non può sentirsi frustrato per aver lottato quand’era libero, ed ancor meno al perdere la libertà fisica. L’essere rinchiusi non fa svanire le nostre concezioni filosofiche, politiche, anzi, le rende più solide. Il carcere forgia la condizione di ribelli, di rivoluzionari, di comunisti, di continuatori delle idee di Simón Bolívar. Per verificarlo è sufficiente leggere la corrispondenza che intercambiamo noi guerriglieri e guerrigliere prigionieri di guerra. Una lettera di Yesid Arteta (comandante guerrigliero imprigionato da diversi anni, N.d.T.), di una guerrigliera di base o di un giovane guerrigliero trasmettono rivoluzione, dignità, valore e convinzioni.
Inoltre c’è la solidarietà di moltissima gente nel Paese ed in altre parti del mondo, altre braccia innalzano le nostre bandiere, si gridano le nostre parole d’ordine, si marcia e si protesta, si esige la nostra libertà e tutto ciò stimola e motiva i nostri ideali.

Un messaggio prima della sua estradizione…
L’oligarchia ha un’assoluta chiarezza del suo percorso: democrazia per essa e restrizione dei diritti politici per il popolo, come nella Grecia e nella Roma antiche, democrazia per gli schiavisti ed assenza di diritti per gli schiavi, puntello al neoliberismo economico o capitalismo selvaggio per arricchirsi ulteriormente ed impoverire sempre più i lavoratori, sottomissione della Colombia al TLC (Trattato di Libero Commercio) come primo passo per arrivare all’ALCA e soddisfacimento degli interessi delle transnazionali e dei monopoli nazionali. Anche a costo di ridurre questi ultimi a “coda del leone”, contendersi definitivamente le risorse naturali ed umane del Paese, perpetuare la pratica del terrorismo di Stato -oggi mascherato da sicurezza democratica- e la guerra, con la pretesa di sconfiggere la guerriglia e placare le lotte popolari, e svendere tutto quel poco che rimane di sovranità agli interessi degli Stati Uniti come unica forma di mantenersi al potere formale. Quindi il messaggio è per il popolo, ed è questo: organizzazione delle lotte popolari, alleanza con settori democratici e progressisti e sostegno al movimento guerrigliero. Unità, unità, unità popolare, democratica e rivoluzionaria, che è la via per trionfare e costruire la Nuova Colombia.

E’ un addio o un arrivederci?
Da quando abbiamo assunto la lotta rivoluzionaria come ragion d’essere della nostra esistenza, ed io non so vivere senza l’impegno totale verso la rivoluzione, in qualunque condizione mi trovi, nel luogo che mi spetti e con il sacrificio che sia necessario fare, solo c’è un futuro e questo è di lotta.



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