SENZA CENSURA N.15

NOVEMBRE 2004

 

Lavorare tutti, lavorare di più

La cura U.S.A. per la ripresa della competitività tedesca.

 

“La Germania deve imparare dall’America, dove la percentuale dei lavoratori è superiore, ma i salari sono più bassi, i servizi sociali sono quasi del tutto assenti, l’orario di lavoro è più lungo e le condizioni di lavoro sono peggiori… i salari al lordo delle ritenute devono essere ridotti del 20% se vogliamo tornare al full employment”.
E’ questa la formula proposta da Norbert Walter già direttore dell’Institut für Weltwirtschaft a Kiel e attualmente capo della divisione ricerche economiche presso la Deutsche Bank. Una formula che lo stesso Schroeder ha fatto propria, sostenendo che per assorbire la disoccupazione è necessario lavorare di più.
Non c’è che dire, Stato, e parallelamente Confindustria e Bundesbank stanno imparando la lezione “americana”, come dimostra l’offensiva contro “l’alto costo del lavoro” messa in atto contro-riformando gli istituti assicurativi e l’indennità di malattia; usando la leva fiscale per spostare ricchezza verso il capitale; innalzando i tassi d’interesse per imporre una stabile moderazione salariale; tagliando senza pietà gli organici delle imprese; decentrando produzioni all’estero; svuotando i contratti nazionali di lavoro; deregolando il mercato del lavoro.
Questo processo di generale precarizzazione delle condizioni e dei rapporti di lavoro ha avuto un’accellerazione per effetto dell’uso capitalistico della riunificazione della Germania. Dopo una serie di agitazioni operaie nei laender orientali, e dopo un timido inizio di riunificazione delle condizioni materiali e delle forme organizzative dei lavoratori, la borghesia tedesca non è stata ferma a guardare; concessi nei primi anni gli inevitabili aumenti salariali all’est, essa ha sempre più usato le buone competenze ed i più bassi salari dei lavoratori tedesco-orientali (e dell’est europeo tutto) come arma di ricatto contro i lavoratori tedesco-occidentali.
E il ricatto si è rivelato efficace anche riguardo al tempo di lavoro, se all’ovest perfino imprese non minuscole del settore metalmeccanico quali la Viessman di Kassel, la Drager di Lubecca, la Dasa di Amburgo o la Sinitec-Siemens di Monaco, hanno deliberato l’allungamento non pagato degli orari, con il ritorno secco alle trentotto o alle quaranta ore. E se da un lato è vero che le trentacinque ore dei metalmeccanici e dei tipografici sono state il frutto solo ed esclusivamente di un’accesa stagione di lotte, dall’altro è altrettanto vero che da tempo l’orario di lavoro effettivo per occupati a tempo pieno si colloca, in Germania, al di sopra delle quaranta ore settimanali.
E già nel 1999, aldilà della parola d’ordine generalizzata “lavorare meno lavorare tutti”, poco più del 15% degli occupati a tempo pieno lavorava secondo gli orari standard, e cioè tra le trentacinque e le quaranta ore settimanali per cinque giorni lavorativi.
In realtà la svolta prospettata dalle imprese, ossia l’incremento delle ore lavorate ha una forte valenza ideologica, dal momento che molte aziende non lavorano affatto al massimo delle loro capacità.
Un allungamento generalizzato dell’orario di lavoro dunque, andrebbe a scapito del numero di posti di lavoro prima che ne vengano (congiuntura permettendo) creati di nuovi grazie alla riduzione dei costi.
Ben più pesante è l’attacco materiale subito dai lavoratori delle grandi-medie fabbriche che hanno ottenuto sulla carta le trentacinque ore, la cui introduzione è stata accompagnata da un’aggressione padronale senza tregua a tutti gli elementi unificanti la condizione operaia: nuovi turni, massima flessibilità degli orari dipendenti dagli insindacabili bisogni aziendali, crescente pressione a trasformare il sabato (e in prospettiva la domenica) in una giornata lavorativa normale, individualizzazione degli orari con la diffusione delle banche del tempo e della relativa pratica degli straordinari non pagati, ricorso metodico, ovunque possibile, al sub-appalto interno ed esterno, guerra costante delle direzioni aziendali per appropriarsi anche delle minime frazioni di secondo, imposizione del calcolo del tempo di lavoro non più in base al tempo di presenza in fabbrica ma al tempo effettivo svolto in produzione. (1)

L’accordo rompighiaccio alla Siemens
Nell’accordo siglato questa primavera per il rinnovo del contratto nel settore metalmeccanico, nel quale sono occupati 3,5 milioni di lavoratori in Germania, è stata introdotta una clausola definita di deviazione che ha reso più facile uscire dagli accordi nazionali di settore e poter così beneficiare di una maggiore flessibilità del fattore lavoro.
Prima dell’accordo di quest’anno era possibile deviare dagli accordi di categoria, ma solo in caso di grave crisi della società, cioè tale da rendere necessaria una riorganizzazione per fronteggiare un serio rischio di fallimento.
In seguito sono invece divenute possibili deviazioni dall’accordo di categoria anche più genericamente “per migliorare la produttività, le condizioni d’investimento e innovazione, per proteggere l’occupazione esistente e creare nuovi posti di lavoro.
L’intesa prevede espressamente l’aumento o la riduzione delle ore lavorate (con o senza incremento salariale), la riduzione di bonus e pagamenti integrativi (assenze retribuite, tredicesime) e il differimento di benefit specifici. Le deroghe devono trovare l’assenso dei sindacati aziendali e di settore ma danno alle aziende un importante grimaldello per aprire le rigidità contrattuali.
Un primo esempio è stato il caso della Siemens in Renania. Sotto la minaccia di trasferire la produzione in Ungheria (dove i salari sono un quinto di quelli tedeschi, IG Metall e direzione aziendale della Siemens hanno concordato di portare l’orario di lavoro dei circa 4.500 addetti alla produzione di handly e cordless in due fabbriche (a Kamp-Lintfort e a Bocholt) da trentacinque a quaranta ore settimanali, senza conguaglio salariale. Gratifiche, ferie e natalizie verranno sostituite da un bonus legato all’andamento aziendale.
Complessivamente, il reddito lordo dei lavoratori si riduce di circa il 15%.
Come contro partita Siemens, che con l’intesa mira a ridurre i costi del lavoro del 30%, garantisce l’occupazione per due anni e annuncia nuovi investimenti nelle due aree per trenta milioni di euro.
Se si considera che la quota del costo del lavoro rispetto ai costi di produzione complessivi di un telefonino è tra l’8 e il 15%, non è che i vantaggi di una produzione all’estero siano così rilevanti (nella fattispecie in Ungheria, Siemens risparmierebbe cinque euro per handy); altre voci giocano infatti un ruolo decisivo, come aliquote fiscali, livello delle sovvenzioni e, soprattutto il grado di produttività.
“Siemens, considerato che l’intero gruppo conta 167000 occupati, rappresenta un precedente e una cesura epocale nella storia economica della Repubblica Federale” commenta Der Spiegel del 28 aprile. Il segretario dell’IG Metall, Jurgen Peters, si è affrettato a precisare che, pur essendo l’accordo Siemens una “pillola amara”, si tratta pur sempre di una circostanza particolare. E ha aggiunto che “se qualcuno vorrà generalizzarne l’applicazione dovrà fare i conti con il sindacato”.
Ma tali dichiarazioni sono contraddette dal Wsi, l’istituto di ricerca del Dgb, (altra importante confederazione sindacale) per cui attualmente l’orario medio effettivo di lavoro è di 39,9 ore, ben sopra le 37,7 ore settimanali di media previste dai contratti collettivi.
Appare dunque evidente come l’oggetto del contendere non sia tanto l’orario di lavoro ma il costo del lavoro.
In effetti sono molte le imprese, soprattutto nel settore metalmeccanico - elettrico (ma anche nell’edilizia e nel turismo, vedi la multinazionale del turismo Thomas Cook: secondo tour operator d’Europa ha annunciato il 23 luglio che duemila suoi dipendenti lavoreranno 40 ore a partire dall’1 agosto, mentre l’aumento salariale previsto in luglio slitterà di 18 mesi, all’1 gennaio 2006), che stanno contrattando soluzioni particolari simili a quelle della Siemens, ma gli stessi datori di lavoro sono prudenti nel commentare tale soluzione (a differenza dei politici: l’opposizione l’ha salutata con entusiasmo, ma anche il governo di centro-sinistra l’ha valutata positivamente): “Non si tratta ora di estendere in modo capillare qualcosa di cui molti non hanno bisogno” così il presidente della Federmeccanica tedesca Martin Kannegiesser.
Lo stesso Heinrich Pierer, presidente della Siemens, pur ritenendo che l’accordo raggiunto possa essere applicato ad altre situazioni locali analoghe, sottolinea l’univocità del caso, ribadendo la validità del contratto collettivo.
Per Dieter Hund, responsabile della confederazione dei datori di lavoro (Bda) l’orario di lavoro non va rinegoziato con grandi accordi per tutti e nemmeno per categoria, ma esaminato a livello aziendale e adattato alle situazioni di mercato: “Penso che qualcosa che vada da un minimo poco sopra le trenta ore a un massimo attorno alle quaranta o poco più possa essere una base di discussione” sosteneva prima dell’accordo alla Siemens, confermando che la soluzione ideale per le aziende, spesso già concordata con i sindacati, è quella di un incremento della flessibilità che va adeguata caso per caso.
E’ vero che contratti integrativi e clausole di deviazione consentono di adottare soluzioni tipo Siemens, secondo il principio dello scambio tra lavoro in più non retribuito con il mantenimento dell’occupazione.
Nel settore chimico - in pieno accordo con il sindacato - rappresenta ormai una pratica costante (vedi il costruttore di pneumatici Conti).
Ma è vero anche il contrario. Di recente alla Deutsche Telekom sono stati ridotti gli orari per evitare licenziamenti.
Lo stesso sta avvenendo alla Opel presso lo stabilimento di Rùsselsheim - che lavora a regime ridotto- dove l’orario è di trenta ore con riduzione di salario per gli addetti alla catena, mentre gli impiegati lavorano di più rinunciando a una parte dello stipendio.
Di tutti i paesi europei, la Germania è quello dove la General Motors vende di più e quello dove produce proprio con Opel, la maggior parte delle sue vetture.
“Abbiamo un eccesso di capacità (peraltro comune a molti costruttori di auto) e ci sono posti in cui non siamo competitivi - sostiene Henderson, presidente della filiale europea della GM - ma le misure non dovranno necessariamente essere le stesse che hanno preso di recente altri gruppi tedeschi come Siemens. Aumentare le ore lavorate può non essere sufficiente se c’è un vero e proprio eccesso di capacità”. (2)
E se la BMW ha deciso di costruire la nuova fabbrica a Lipsia e non nella Repubblica ceca, è anche perché è riuscita ad allestire un metodo di produzione particolarmente flessibile, con il sostegno del contratto collettivo. La commissione interna ha escogitato un sistema di turni che consente uno sfruttamento “ottimale” dei costosi impianti aziendali: per il singolo addetto l’orario medio è di 38,5 ore ma la fabbrica può operare tra le 60 le 140 ore settimanali. “Ciò che importa - osserva il direttore della fabbrica, Peter Claussen - è quanto girano le macchine, non quanto il singolo addetto è alla catena”.
Gli esempi riportati dimostrano che l’obbiettivo di fondo è sempre quello di ridurre i costi. Con più o meno ore non importa. Dipende dalle singole situazioni, spesso diverse da azienda ad azienda, da settore a settore, e anche secondo il tipo di addetti.

Daimler Chrysler e Volkswagen: il ricatto della delocalizzazione
La sicurezza del posto di lavoro e un “congelamento” della minacciata delocalizzazione sono gli ingredienti alla base dello storico accordo tra DaimlerChrysler e l’IG Metall.
Il compromesso garantisce il mantenimento dei 6600 posti di lavoro negli stabilimenti di Sindelfingen fino al 2012 dopo che l’azienda, a seguito della lotta degli operai che avevano bloccato la produzione in alcune fabbriche del gruppo di Stoccarda, aveva minacciato la delocalizzazione negli impianti più redditizi di Brema e East London, in Sudafrica.
L’accordo pende spudoratamente dalla parte dell’azienda: è prevista innanzitutto la possibilità, per gli addetti allo sviluppo e alla pianificazione, di lavorare fino a 40 ore alla settimana; una riduzione del 20% dei salari in alcuni servizi, come mensa e sicurezza, ma solo per i nuovi assunti il cui contratto di lavoro non sarà più coperto dall’IG Metall; è previsto infine il ricorso frequente a gruppi di giovani lavoratori attraverso contratti a tempo determinato sulla base della domanda dei diversi impianti, il tutto regolato da un’agenzia interna di collocamento interinale, oltre ad una riduzione degli aumenti salariali previsti dal contratto collettivo. (3)
Il deterrente di trasferire la produzione in paesi dove il costo del lavoro è decisamente inferiore, complice un graduale e continuo arretramento del sindacato sempre più invischiato in una perversa logica di cogestione per salvaguardare la produttività della locomotiva d’Europa, si è dunque dimostrato estremamente funzionale ai fini di ottenere una maggiore flessibilità contrattuale e potrebbe rivelarsi determinante nell’ambito delle trattative per il rinnovo contrattuale alla Volkswagen.
Alla proposta di congelamento dei salari, presentata dall’azienda come l’unico rimedio al licenziamento di 30000 dipendenti, IG Metall ha opposto la richiesta di un aumento salariale del 4% nel biennio, accompagnata da una garanzia di salvaguardia del posto di lavoro per 10 anni riguardante 100000 lavoratori dei sei stabilimenti tedeschi.
Anche se nella prima fase delle trattative il ricatto della delocalizzazione non è stato esplicitato da VW, è un dato di fatto che il gruppo dispone di impianti in Repubblica Ceca, Slovacchia, nonché in America Latina e da tempo, quando si tratta di mettere in produzione un nuovo modello, lancia una sorta di “gara d’appalto” interna tra i vari stabilimenti scegliendo quello che offre il pacchetto più vantaggioso in termini di flessibilità e costo del lavoro.
Non va dimenticato che proprio la VW fu costretta a proporre, nel ’94, la settimana di 28,8 ore per rispondere alla peggior crisi della sua storia evitando il licenziamento di 30000 dipendenti: si trattò in realtà di una provvisoria riduzione dell’orario per incrementare stabilmente la flessibilità e l’intensità della prestazione di lavoro, e per cercare di disgregare in modo permanente l’organizzazione operaia. (4)
Nonostante l’enorme incremento della produttività del lavoro avvenuto negli stabilimenti tedeschi, la direzione della VW, per applicare e superare il proficuo esperimento condotto in patria, già nel 2000 guardava all’esterno, a “stabilimenti-modello” come Resende in Brasile o Mosel in Sassonia. (5)
Attualmente, la stagnazione della domanda sui mercati di riferimento, in particolare quello tedesco, l’apprezzamento dell’euro, e la riduzione dei margini di profitto in Cina, a causa dell’accresciuta concorrenza di altri produttori stranieri sono alla base di un nuovo periodo di crisi per la VW.
Le proposte al sindacato, elaborate dal direttore del personale Peter Hartz, rientrano nell’ambito di un piano con il quale la casa di Wolfsburg intende ridurre i costi del lavoro del 30% entro il 2011.
Al momento non è chiaro quale tipo di flessibilità voglia introdurre VW oltre a quella già sperimentata nei molteplici modelli di lavoro elaborati nel corso degli anni proprio da Hartz: dalla già citata settimana di quattro giorni introdotta a metà anni 90 alla formula “5000 per 5000” con la quale vennero assunti 5000 disoccupati a 5000 marchi l’uno e orari più lunghi rispetto al contratto standard per avviare la produzione, a costi competitivi, della monovolume compatta Touran.
La tendenza, sulla base degli accordi siglati da DaimlerChrysler e da Siemens, è quella di un aumento degli orari a parità di retribuzione.
Il problema attuale della VW è che buona parte degli impianti in Germania viaggia ben ben al di sotto della piena capacità produttiva (70% a Wolfsburg) per cui un allungamento generalizzato dell’orario si tradurrebbe automaticamente in esuberi per migliaia di dipendenti.


Il giro di vite di Schroeder
Anticipata dalle dichiarazioni del cancelliere tedesco sul peso della Germania nello scacchiere mondiale, sta per essere varata la più radicale riforma del wellfare dal dopoguerra ad oggi.
Mettendo l’accento sulla politica estera tedesca Schroder ha precisato, ricordando le missioni militari della Bundeswehr in Afghanistan e nei Balcani e il contributo alla guerra in Iraq in termini di addestramento delle truppe locali, che se dovesse andare in porto la riforma delle Nazioni Unite, nel senso di un allargamento a nuovi Paesi, la Germania rivendicherebbe il suo diritto ad avere un seggio permanente nel consiglio di sicurezza.
Dichiarazioni pretestuose che fanno da apri-pista al pacchetto di tagli all’assistenza sociale. Il progetto, che è già stato approvato dal Parlamento e dovrebbe entrare in vigore dal 1 gennaio, ha provocato numerose manifestazioni di protesta in Germania Est dove i disoccupati sono il 18,5% della popolazione attiva (a livello nazionale il tasso è al 10%).
L’obbiettivo della riforma è di ridurre la spesa sociale e costringere i disoccupati di lungo periodo (circa 2,5 milioni di persone su un totale di 4,4 milioni) a cercare un posto di lavoro anziché appoggiarsi sui sussidi di disoccupazione. A questo proposito, il pacchetto prevede una riduzione dell’ammontare e della durata nel tempo dei sussidi: dal 1 gennaio 2005, gli assegni concessi ai disoccupati di lungo periodo (oltre i 12 mesi) non verranno più calcolati sulla base dello stipendio percepito in precedenza (il 53-57% del salario netto), ma la somma sarà fissa, 345 euro al mese in Germania Ovest e di 331 euro in Germania Est.
La riforma prevede inoltre che i disoccupati non potranno più rifiutare un posto di lavoro, neppure se inferiore alle proprie capacità, se dovesse imporre un qualche pendolarismo, o se lo stipendio fosse inferiore agli accordi salariali di categoria .In questo senso, come ha precisato W. Clement, ministro dell’economia, il pacchetto Hartz IV prevede la nascita di lavori retribuiti anche uno o due euro all’ora (!!!), con l’aggiunta di sovvenzioni statali per arrivare ad uno stipendio dignitoso.
Secondo Clement questa misura potrebbe riguardare fino a 600000 persone, ossia il 20% dei disoccupati di lungo periodo.
Al pari degli altri tre (vedi SC n. 11 del giugno 2003) il quarto modulo della riforma Hartz rappresenta una sponda decisiva per i piani di ristrutturazione delle imprese tedesche, evidenziando una tendenza in tal senso per tutta l’Europa, soprattutto rispetto alle aree più industrializzate.
Riguardo all’Italia, per esempio è “illuminante” l’opinione di S.Gattegno, amm. delegato di Alcatel Italia (multinazionale francese leader nella banda larga con quattro siti produttivi in Italia e tremila dipendenti) per cui aumentare le ore lavorate a parità di salario è una possibilità che da sola non basta a risolvere il problema del recupero della competitività. “Servono - aggiunge il boss di Alcatel Italia- politiche del lavoro più variegate, più differenziate che aiutino ad affrontare il problema con maggiore attenzione ai diversi settori e al territorio. Continuare dunque sulla strada della flessibilità del lavoro potenziata dalla legge Biagi, con attenzione anche al dibattito in corso sulla contrattazione e alle diverse aree del paese.
Maggiore flessibilità, aumento dell’orario, ricatto di delocalizzazione sono strumenti affatto in contrasto tra di loro per spezzare la rigidità contrattuale Europea.
In altri termini il nuovo commissario UE agli affari economici e monetari, Joaquin Almunia, ha spiegato in una conferenza tenuta a Bruxelles il mese scorso, che il modello europeo affronta le sfide di un’economia stagnante, dell’invecchiamento della popolazione, della disoccupazione cronica in alcune aree, e delle pressioni competitive in arrivo dai nuovi membri dell’Est oltre che dalla concorrenza di Cina e India, i giganti dell’Asia.
Per diventare la zona più dinamica del mondo nel 2010, così come deciso dai capi di Stato e di Governo dei Quindici quattro anni fa a Lisbona, l’Europa deve mettere sul tavolo non solo più competitività, più investimenti nelle aree tecnologiche, ma anche più ore di lavoro. “La variabile dell’orario di lavoro - ha concluso - può essere un contributo fondamentale per ridare smalto alla crescita economica del Vecchio Continente”.

Note:

(1) In particolare, l’introduzione dei tempi di lavoro “à la carte” e gli Zeitkonten. Gli orari à la carte, oltre ridurre tendenzialmente a zero i tempi morti nel lavoro in fabbrica (le imprese sono libere di interrompere il rapporto di lavoro nei cali di produzione) conducono all’aumento dell’intensità del lavoro e ad un accrescimento delle ore supplementari “invisibili”. inoltre svuotano di contenuto la riduzione dell’orario settimanale a 35 ore, dal momento che i lavoratori devono essere permanentemente disponibili -all’istante- a interrompere e riprendere il lavoro, e sono impossibilitati a programmare il proprio tempo libero. L’istituto degli Zeitkonten (conti orari o banche del tempo) prevede che i lavoratori di un’impresa presi in blocco e, soprattutto i singoli lavoratori, abbiano un libretto del tempo, in cui segnare i propri crediti (le ore in più lavorate rispetto alle norme contrattuali) non per chiederne il pagamento come ore di straordinario ma per poter godere in cambio, in un dato arco di tempo, di altrettante ore di riposo. E’ un istituto che ha trovato enorme favore presso le imprese perché consente loro di variare la quantità del tempo di produzione in relazione alle richieste del mercato, evitando di assumere personale in più quando questo tira e di dover sborsare salario supplementare per le ore di straordinario. Per i lavoratori, la contropartita dovrebbe essere costituita dalle “maggiori possibilità di gestire il proprio tempo”. Senonché queste opportunità sono del tutto teoriche: quando c’è da intensificare la produzione, è vano sperare in permessi compensativi. Inoltre, l’arco di tempo in cui effettuare lo scambio, si è continuamente allungato: inizialmente era limitato ad un paio di mesi, poi si è esteso all’anno, poi ancora si sono sperimentate forme di compensazione pluriennali, ed infine in VW si è arrivati ad ipotecare anche gli anni della pensione.
(2) C’è, attigua alla Germania, una base produttiva che GM intende sfruttare al meglio: la Polonia (dove è presente anche la Fiat). Di recente Opel ha scelto proprio la Polonia come sito produttivo per la nuova versione della monovolume Zafira, preferendolo alla fabbrica tedesca di Russelsheim. “Per ora - dice J. Browning, responsabile marketing per l’Europa della GM - è fuori di questione una delocalizzazione pura e semplice, ma è certo che gli investimenti si indirizzeranno sempre di più sui paesi ad alto tasso di crescita.
(3) A proposito di briciole concesse agli operai, resta anche se solo simbolicamente la cosiddetta “Steinkuehler”, la pausa di 5 minuti per ogni ora lavorata: in realtà sarà accumulata in un monte ore che verrà utilizzato per la formazione professionale.
(4) Alla VW non c’è stata una pura riduzione dell’orario di lavoro, ma una complessiva riorganizzazione del processo di produzione e del tempo di lavoro, con l’estensione dei turni, del lavoro notturno e di quello festivo, della mobilità (dentro il singolo stabilimento e tra stabilimenti) ed infine anche degli straordinari, richiesti dall’azienda e ricercati spesso dagli stessi operai, perfino nei fine settimana, come forma di almeno parziale compensazione per la decurtazione del salario. Altri aspetti di rilievo della ristrutturazione alla VW sono stati il fortissimo incremento dei ritmi di lavoro ed il fatto che tra pre-pensionamenti, blocco del turn-over e trasferimenti, ci sia stato un salasso occupazionale forzato o “volontario”, dal 1993, pari al 25% degli addetti, e quindi che l’accordo non abbia salvaguardato, come promesso, neppure i posti di lavoro .
(5) A Resende, un piccolo stabilimento per la produzione di camion, la VW non ha lavoratori diretti, e l’intero impianto funziona con dei sub-appalti messi in concorrenza tra loro e, si capisce, senza l’ombra di un sindacato. A Mosel, il largo ricorso alle “impresine” in sub-appalto è stato combinato con gli ultimi ritrovati della tecnologia e dell’intensificazione della prestazione lavorativa sperimentati a Wolfsburg e ad Hannover, con l’obbiettivo di dimezzare i tempi di produzione della Golf.



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