SENZA CENSURA N.15
NOVEMBRE 2004
I dannati della terra
La condizione dei palestinesi dalla creazione dello “stato di Israele” al secondo conflitto arabo-israeliano.
Questi articoli sono la terza parte della sezione
dedicata alla ricostruzione della lotta del popolo palestinese in una
prospettiva storica iniziata nel n.12 della rivista, continuata nel n.13, e che
proseguirà in ordine cronologico con altri contributi sui prossimi numeri.
L’analisi delle condizioni sociali in cui nasce e si sviluppa la lotta armata
palestinese fino al 1967 saranno l’oggetto di questo contributo, mentre la fase
politica in cui prende forma l’organizzazione e l’iniziativa combattente di
questo popolo, anche attraverso il punto di vista soggettivo dei pionieri della
resistenza fino alla cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, saranno l’argomento del
successivo articolo “Fedayn”.
Oh, Paradiso Perduto! Non fosti mai
troppo piccolo per noi
Come lo è ora davvero
il vasto mondo
In cui disperso è il tuo popolo
Che vaga ramingo sotto ogni stella.
(Mahmud al-Hut)
Alla fine del conflitto arabo-israeliano – di cui abbiamo trattato nel
contributo precedente - la Palestina si trova sotto l’amministrazione di tre
differenti stati: l’Egitto, la Giordania, “Israele”. La popolazione palestinese,
che per anni rimase entro i confini territoriali dell’ex mandato britannico -
sebbene in buona parte in campi profughi - era stata costretta a lasciare i
propri tradizionali luoghi di insediamento per dirigersi oltre confine: più di
100.000 in Libano, circa 90.000 in Siria, 4.000 in Iraq e circa 10.000 in
Egitto.
Successivamente, l’emigrazione verso i paesi al di fuori di quelli in cui erano
approdati originariamente i palestinesi della Diaspora, in particolare i paesi
del Golfo (Kuwait e Arabia Saudita in particolare) ma anche gli Stati Uniti,
l’Europa, l’America Latina e l’Oceania, caratterizzerà la storia sociale di
questo popolo.
Per dirla con Fawaz Turki: «La nazione palestinese cessò di esistere. I suoi
abitanti originari vennero definiti profughi arabi, ricevettero razioni
alimentari dalle Nazioni Unite e finirono dimenticati dal mondo».
Il mondo “occidentale” intero, ma anche il blocco sovietico e i suoi partiti
satelliti, plaude alla “giovane nazione Israeliana” e alla sua “eroica missione
civilizzatrice”, alla possibilità che concede agli ebrei di qualsiasi origine di
installarsi nella terra promessa.
Questo, tra l’altro, permette ai governi occidentali di legittimare la secolare
denigrazione imperialista a sfondo razziale contro gli arabi, di consolidare i
loro pregiudizi verso la religione mussulmana, così come di rimuovere la propria
responsabilità per la persecuzione degli ebrei acuitasi tra le due guerre
mondiali.
Poco importa che in questa terra fosse insediata una altra popolazione, che
nessuno l’avesse interpellata e che invece di dare voce al suo cuore pulsante
sia stata fatta rappresentare da altri.
Questo, sostanzialmente, continua ancora oggi attraverso il paradigma
interpretativo dello “scontro delle civiltà”.
L’obbiettivo del movimento sionista divenne quello di convertire la Palestina in
uno stato ebraico, rendendo allo stesso tempo impossibile che venissero
seriamente considerate (o persino conosciute) le proteste dei suoi abitanti
originari.
Scrive Edward Said: «Se durante il XIX secolo venivano interpellati per la loro
conoscenza dell’Oriente gli esperti studiosi-orientalisti, nel XX secolo la
situazione cambiò drasticamente. Da allora gli occidentali per avere
testimonianze ed informazioni sull’Oriente (e gli orientali) si sono rivolti ai
sionisti.[…] Proprio come l’esperto orientalista credeva di essere il solo in
grado di parlare (in modo paternalistico) a nome degli indigeni e delle società
primitive che aveva studiato – sottolineando con la sua presenza la loro assenza
– così anche i sionisti hanno parlato al mondo a nome dei palestinesi»
L’emersione di un punto di vista palestinese sul proprio destino lo si avrà con
l’inizio della lotta armata contro l’entità sionista, da allora i palestinesi,
seguendo la definizione data dei sionisti e fatta propria dalla maggior parte
degli altri governi, diverranno “terroristi”, così come “terroristi” lo erano
stati gli algerini durante la lotta di liberazione nazionale.
Il profilo e le condizioni di esistenza dei palestinesi variano a seconda della
loro posizione precedente nella gerarchia sociale e della collocazione
geografica, ma i presupposti della loro esistenza partono dall’esperienza della
distruzione della società palestinese così come era prima della costituzione
dello “stato d’Israele” e dalla comune esperienza della Nakba (Catastrofe).
La diaspora palestinese assunse caratteristiche diverse a seconda dei paesi e
anche dei campi profughi. Quelli che circondavano Beirut, ad esempio, si
distinguevano per l’insolita concentrazione di forza-lavoro industriale: il 60%
degli internati nel campo di Tal al-Zaatar erano occupati nella vicina zona
industriale di Mukallas, solitamente senza permesso di lavoro, e quindi a salari
più bassi e con meno diritti degli operai libanesi. Il campo di Rashidiyya,
vicino a Tiro, divenne invece una riserva di manodopera agricola per le
piantagioni di ricchi possidenti del luogo.
Cisgiordania e Gaza
Le espulsioni e gli esodi in massa, provocati dalla guerra del ’48,
ebbero luogo soprattutto nella pianura costiera, in Galilea e nel sud, mentre la
regione orientale che sarebbe stata annessa dalla Transgiordania, venne
ampiamente risparmiata. La popolazione della Cisgiordania salì da 400.000 a
700.000 abitanti: circa un terzo di questi sfollati finirono in campi profughi,
un altro terzo si riversò nei villaggi e il rimanente nella città.
In Cisgiordania sorsero 21 dei 24 campi profughi presenti nel regno.
Dopo il 1948, la monarchia giordana cominciò a considerare i palestinesi
semplicemente alla tregua di un altro gruppo o tribù che veniva ad aggiungersi a
questo crogiuolo e gli concesse la cittadinanza in massa.
Il Regime di Abdallah bandì l’uso del termine Palestina – sostituendolo, quasi
sempre, con quello di Cisgiordania.
Il regime bilanciò la rappresentanza in seno alle proprie istituzioni per
favorire la maggioranza non-palestinese, e strangolò qualsiasi organizzazione
politica costituita esclusivamente dai palestinesi. In questo modo, Abdallah
liquidò qualsiasi parvenza di autonomia politica palestinese.
Se da un lato la strategia inclusiva del regno concedeva piena cittadinanza
formale ai palestinesi, dall’altro cercava di sradicare ogni aspirazione di
indipendenza.
Il tentativo del regime di ri-insediamento permanente dei profughi cozzava con
la volontà dei palestinesi, che come riferì il direttore dell’UNRWA
all’Assemblea Generale nel ’56: «sono fermamente contrari a qualsiasi soluzione
che assomigli, sia pur vagamente, a un insediamento permanente altrove».
La Cisgiordania rimase esclusivamente palestinese, mentre la Transgiordania era
una miscela eterogenea di popolazioni.
Le due porzioni del regno hashemita erano molto differenti tra loro per profilo
sociale, livello di urbanizzazione, grado di alfabetizzazione.
Gli elementi palestinesi più istruiti prevalevano ormai in molti campi rispetto
alla popolazione giordana originaria, il cui nucleo beduino – che era pari a
circa la metà dell’intera popolazione Transgiordana, per un terzo piccoli
coltivatori sedentari e i rimanenti che vivevano in città con una popolazione
che variava dai 10.000 ai 30.000 abitanti – controllava soltanto i principali
ministeri politici e l’esercito.
L’UNRWA, creata alla fine del ’49, divenne la principale fonte di sostentamento
per i profughi e divenne il principale sbocco occupazionale dei palestinesi in
una situazione dove la domanda di lavoro salariato era largamente inferiore
all’offerta.
Diversamente dai palestinesi che vivevano all’esterno, quelli residenti nei
campi (circa un quarto della popolazione giordana) non ebbero quasi nessun
rappresentante nelle istituzioni politiche nazionali; neppure un deputato al
parlamento fra il 1950 e il 1965.
A Gaza gli abitanti vivevano in otto campi profughi con uno dei più alti tassi
di urbanizzazione del continente; se si esclude l’afflusso verso le università
egiziane e l’assunzione dei palestinesi (diplomati presso le scuole
professionali dell’UNWRA) come insegnanti nei villaggi, l’emigrazione in Egitto
fu fortemente limitata e lo stato di emergenza militare rimase in vigore fino al
1962.
Coloro che erano dotati di una qualche capacità emigravano verso l’Arabia
Saudita, il Kuwait, il Qatar e il Bahrain. Come riporta Fawaz Turki: «gli unici
estranei che si avventuravano nei campi erano i poliziotti, invariabilmente
ubriachi e in gruppo».
La segregazione razziale in “Israele”
«La politica ufficiale del governo è chiara. Gli arabi, come gli ebrei
durante il nazismo in Germania, sono cittadini di seconda classe, fatto questo
che viene ricordato nelle loro carte d’identità»
Derek Tozer
Dopo la costituzione dell’entità sionista, il 14 maggio 1948, il numero degli
arabi rimasti nella Palestina occupata fu stimato intorno alle 170.000 persone,
alla fine del 1966, la popolazione araba ammontava a 312.000.
Questa popolazione palestinese è concentrata principalmente nella Galilea,
originariamente assegnata allo Stato Arabo Palestinese dal piano di spartizione,
nel “Little Triangle” (piccolo triangolo) al centro del Paese sulle rive del
Giordano e nel sud (Negeb).
Circa l’80% della popolazione araba è sotto l’amministrazione militare.
Dal punto di vista economico gli arabi di “Israele” sono oppressi da leggi
restrittive e discriminatorie, che li hanno espropriati del 70% delle loro
terre, lasciandoli privi di istruzione, di lavoro oltre che dell’acqua
necessaria all’irrigazione dei campi. Oltre tutto, dal ‘48 al ‘66, ogni
spostamento nel paese era limitato e soggetto a speciali permessi governativi.
Una panoramica della legislazione israeliana da il quadro della segregazione a
cui erano soggetti i palestinesi:
- Le misure militari d’emergenza del ‘48, con un tribunale militare che
costituiva l’autorità suprema per ogni violazione di questi provvedimenti che
prevedevano la limitazione della mobilità, la possibilità di confisca dei
terreni e quella della deportazione di massa
- Leggi e regolamentazioni civili d’emergenza che consideravano come assente
qualunque arabo di Palestina che avesse lasciato il paese o la sua città dopo il
29 settembre 1947, o che si fosse spostato anche di qualche metro! I 30.000
arabi che si erano spostati da un luogo a un altro all’interno di Israele, senza
mai però avere lasciato il paese, persero ugualmente la loro proprietà
- La legge sull’acquisto dei terreni che legalizzava le confische di terre arabe
operate nel periodo 1948-53 e assicura nuove acquisizioni di terre. Cosi si
espresse, Derek Tozer, scrittore ebraico in visita in Medio Oriente: «Il
governatore militare dichiara un settore arabo zona proibita, rendendo così
impossibile l’ingresso a qualunque arabo che voglia lavorare la sua terra. A
questo punto si fa appello alla legge del 1953 e così le terre coltivabili
divengono passibili di confisca, dato che i loro proprietari non le hanno curate
né coltivate. Così significa che la proprietà arabe divengono automaticamente
proprietà di Stato.
- La legge sulla limitazione, del marzo 1958: essa esigeva dai proprietari arabi
privi di un titolo di proprietà registrato la produzione delle prove che il loro
possesso sussisteva senza soluzione di continuità da quindici anni: in assenza
di ciò le loro proprietà sarebbero state trasferite allo Stato Israeliano.
- La legge sul ritorno e la legge sulla nazionalità: possibilità di ogni ebreo
qualunque fosse la sua origine di trasferirsi in Israele e di diventarne
cittadino, dovere di ogni arabo per diventare cittadino israeliano di essere
“naturalizzato”, cioè soddisfare alcune condizioni (luogo di nascita, permanenza
per almeno tre anni, autorizzazione per la residenza permanente, conoscenza
dell’ebraico, ecc.)
Per tutto il periodo precedente al ‘67, continuò l’opera di pulizia etnica
intrapresa durante la prima guerra arabo-israeliana, come l’espulsione degli
abitanti e la distruzione delle abitazioni a Kafr Bir’ion nel ‘53, gli atti
vandalici contro i cimiteri, le chiese cristiane e le moschee mussulmane, che
portarono alla distruzione di 350 di queste, le stragi impunite contro civili
palestinesi come quella in cui il 19 ottobre del 1956, a Kafr Qasem, vennero
uccisi 51 abitanti e 13 vennero feriti mentre tornavano dai campi nelle proprie
abitazioni.