SENZA CENSURA N.15
NOVEMBRE 2004
Iraq 1964-1990
Appunti di storia irachena dalla presa del potere del Baath alla prima crisi del Golfo.
Questo contributo sulla storia sociale irachena
che inquadra il periodo tra il colpo di Stato baathista del 1964 e l’inizio
della “Crisi del Golfo” dei primi anni novanta è la continuazione dell’articolo:
“Appiccate il fuoco…” apparso sul numero 14 della rivista.
Il Baath al potere
Il crollo dell’Ancien Régime, sotto i colpi di un gruppo di «Ufficiali
Liberi» golpisti e di un imponente movimento popolare, nel luglio del ‘58, segna
l’inizio dell’esperienza post-coloniale dal punto di vista politico; mentre, con
la nazionalizzazione dell’Iraqi Petroleum Company, nel giugno del ’72, prende il
via il processo di modernizzazione sociale del paese.
L’opera di intervento statale nell’economia era già cominciata nel luglio del
’64 con la nazionalizzazione di tutte le banche, le assicurazioni e le 32
maggiori imprese industriali e commerciali del paese.
Ma la pianificazione economica a direzione statale ha il suo vero e proprio
inizio con il consolidarsi del nucleo del Baath che sale al potere, nonostante
le poche centinaia di aderenti all’organizzazione e senza avere una solida base
sociale di consenso.
Con le riforme agrarie, promulgate dal ‘70 al ‘75, il potere delle vecchie
classi terriere, impersonato dagli shaikh, viene spezzato insieme ai vincoli
tribali che legavano i contadini alla terra.
Con l’introduzione, nel ’71, del Codice del Lavoro, viene assicurata per due
decenni una sostanziale sicurezza dei posti di lavoro.
La principale risorsa dell’esperimento post-coloniale iracheno risiede nel
controllo dei flussi di valore derivanti dalla rendita petrolifera e
nell’aspirazione a rivestire un ruolo cardine nella determinazione del prezzo
del greggio. Tale esperimento nasce, si sviluppa e declina in un arco temporale
che può essere compreso tra l’impennata del prezzo del greggio, alla fine
dell’anno successivo alla nazionalizzazione dell’IPC, nel ’73, fino al suo
abbassamento nella seconda metà degli anni ottanta.
Qualche dato, a tal proposito, ci può essere utile a comprendere questo
passaggio: nel 1970 la rendita proveniente dal petrolio ammontava a 520 milioni
di dollari, ma crebbe in 10 anni di ben 52 volte fino a raggiungere, nel 1980,
la cifra di 26 miliardi di dollari!
Una società in trasformazione
La re-distribuzione della rendita petrolifera, la violenza securitaria e
la proiezione militare esterna sono gli assi principali sui quali si fonda il
sistema politico dell’Iraq Baathista dopo il 1968.
Il nucleo degli ufficiali, usciti vincitori dagli altalenanti colpi di Stato
succedutesi tra il ’64 e il ‘68, prepara il terreno per la stabilizzazione
politica interna attraverso il consolidamento del proprio ruolo nelle leve di
comando.
Nel luglio ’73, coopta nel governo comunisti e nazionalisti kurdi, con la
creazione del Fronte Nazionale Progressista – formato dal Baath, PCI e PDK – e
si assicura il ferreo controllo degli apparati di sicurezza interna e procede
all’epurazione degli ufficiali non in linea con la “baathizzazione” del partito.
Il gruppo dirigente si assicura una solida collocazione nell’arco di forze del
mondo bi-polare, firmando, nell’aprile del ’72, un trattato di amicizia e di
cooperazione con l’URSS, criticando le condizioni di cessate il fuoco imposte da
Israele e, infine, proponendosi, fino al 1978, come paese guida del “Fronte del
Rifiuto” – comprendente Libia, Iraq, Algeria, Olp, Yemen del Sud, Siria –
avverso al dialogo avviato dal presidente egiziano Sadat nei confronti di
Israele.
Terzo produttore petrolifero del Medio-Oriente, ben provvisto di terre agricole
fertili e di risorse idriche (1), risparmiato dalla pressione demografica,
l’Iraq, con un rapporto di PIL per singolo abitante di 2.300 dollari, raggiunge
alla fine degli anni ‘70 i paesi a reddito medio.
È soprattutto un paese in via di industrializzazione, dove lo Stato lancia
ambiziosi progetti agricoli, avvia giganteschi lavori destinati alle
infrastrutture e accetta “chiavi in mano” attrezzature industriali
dall’occidente per diversi miliardi di dollari.
L’estrazione, la raffinazione e l’esportazione del greggio sono il cuore
dell’economia irachena.
L’apertura dell’oleodotto Kirkuk-Dortyol (nel Sud della Turchia), nel 1977, e i
terminal di Mina al-Bakr, nel Golfo Persico, assicurano all’Iraq la completa
indipendenza in fatto di esportazioni petrolifere, cessando così con la
dipendenza dalla vicina Siria verso cui, fino ad allora, veniva trasportato il
greggio attraverso l’oleodotto più antico, che fu tra l’altro raddoppiato nel
1975 con una estensione Nord-Sud da Haditha a Rumayla.
Inoltre i progressi nel campo della raffinazione, che alla fine degli anni ’70
avevano portato il paese ad una capacità di 184.000 barili al giorno, grazie
soprattutto alle sette raffinerie di cui due successivamente ampliate,
permetteranno al governo di Baghdad di esportare la propria tecnologia verso
numerosi paesi del cosiddetto Terzo Mondo.
Durante i sette anni di boom del petrolio, tra il 1973 e il 1980,
l’infrastruttura petrolifera raddoppia seguendo la formidabile esplosione delle
esportazioni di greggio mentre la rendita petrolifera, grazie al rialzo dei
prezzi, si moltiplica per quattordici!
I benefici legati all’”oro nero” consentirono di finanziare
un’industrializzazione abbastanza completa: petrolchimica a Bassora, siderurgica
a Zubayr, la grande città del Sud, cementifici, raffinerie di zucchero,
industrie leggere a Baghdad.
Più che la preoccupazione di accrescere l’apparato produttivo è la prospettiva
sociale che guida la distribuzione della rendita petrolifera, soprattutto tra le
fasce di popolazione urbanizzata, in particolare a Baghdad: garanzia di un
reddito minimo, investimenti nella sanità, protezione della famiglia, tutela dei
diritti della donna, eliminazione artificiale della disoccupazione attraverso il
rigonfiamento dei ranghi della funzione pubblica e, soprattutto, una intensa
politica di alfabetizzazione, scolarizzazione e formazione professionale.
Se, dunque, la militarizzazione dello scontro sociale segna, fin dai suoi
esordi, l’instaurarsi del regime Baathista, l’integrazione della classe operaia
industriale, del ceto medio urbanizzato e della borghesia agricola rappresentano
l’altra faccia della medaglia.
Per non cedere il controllo delle risorse petrolifere nelle mani di notabili
locali, ispiratori di movimenti nazionalisti kurdi, e per contenere l’espansione
del movimento sciita, in misura tale da mantenere il proprio controllo sulla
società, il regime di Baghdad applicherà “ragion di stato” e ingegneria sociale
per includere/escludere consistenti fasce di popolazione.
Il nazionalismo iracheno sarà il cardine della moderna identità nazionale e
l’antidoto all’emersione dell’appartenenza etnica o della fede religiosa
considerati come fattori di destabilizzazione nel processo di costituzione dello
Stato e dello sviluppo economico.
Brevemente, passiamo ora in rassegna le trasformazioni sociali più
significative.
Lo sviluppo industriale
L’industrializzazione a cui abbiamo accennato, avviene in settori
produttivi ad alta composizione organica di capitale, alimentata da grandi
centrali elettriche che permettono all’Iraq di beneficiare in abbondanza di
questo tipo di energia già alla fine degli anni Settanta.
Per ciò che concerne i beni di consumo e le riserve alimentari, l’Iraq risulterà
sempre dipendente dalle importazioni, fatta eccezione per la produzione agricola
di cereali, la cui coltura occupava la metà delle terre coltivate.
Negli anni Settanta, nonostante lo sviluppo industriale, le importazioni nel
settore della metallurgia, dei beni strumentali e dell’edilizia, continuarono a
rappresentare il 50% dell’import.
I fabbisogni della popolazione, specialmente quella delle metropoli urbane, non
potrà mai essere soddisfatta dall’agricoltura irachena.
L’industria petrolchimica si sviluppa a partire da tre unità: la fabbrica di
concimi chimici di Abu al-Khasib, il complesso petrol-chimico di Bassora e
quello di Zubayr, non lontano da Bassora.
Il settore agricolo
Negli anni successivi alla presa del potere Baathista, come abbiamo già
riportato, le campagne tendono a svuotarsi di quella forza lavoro le cui
proprietà terriere e i mezzi di produzione non permettevano di fornire
sufficienti mezzi di sussistenza a loro e alle proprie famiglie.
La precedente riforma agraria, varata sotto Qassim, aveva rappresentato soltanto
una timida e parziale redistribuzione della ricchezza agricola: gli Shaikh e gli
altri latifondisti si tennero per sé le terre migliori e il controllo dei canali
di irrigazione e la proprietà della maggior parte del macchinario agricolo.
Con meno di quattro ettari a testa, ma più spesso con meno di due, senza
l’ausilio di macchinari agricoli, e a volte senza nemmeno animali per i lavori
agricoli, senza l’accesso al credito e in condizioni di vita che differivano
dalle città, questa porzione della società irachena emigra nei grandi centri
urbani.
Diversa è la situazione per le circa 300.000 famiglie che possedevano tra i 4 e
i 150 ettari di terra, in media 15 ettari a testa. Queste dovettero far ricorso
in quota significativa al lavoro salariato, costituendo, nelle situazioni più
piccole, imprese semi-capitalistiche con il ricorso al lavoro stagionale e, in
quelle più grandi, a vere e proprie imprese agricole.
Ma quasi metà della terra coltivabile era di proprietà statale, concessa in
affitto soprattutto agli alti funzionari del partito e agli strati intermedi
della burocrazia e dell’esercito.
Ciò porterà ad un tale processo di riconcentrazione della terra per cui, sul
finire degli anni Ottanta, più della metà della terra coltivata a cereali, sia
privata che in affitto, sarà coltivata da grandi contadini privati.
A parte il dattero, di cui l’Iraq è stato il più grande produttore mondiale, le
colture industriali e gli ortaggi hanno sempre avuto un peso relativamente basso
nell’agro-business.
Il settore pubblico
Bisogna sempre ricordare che in Iraq non esisteva la tradizionale
amministrazione statale ereditata dall’Impero Ottomano e che il protettorato
inglese nulla aveva fatto per gettare le basi di una simile costruzione; tutto
ciò in una situazione di generale arretratezza, specialmente se comparata con
quella nella quale si erano ritrovati Egitto, Siria, Libano e Palestina dopo la
prima guerra mondiale.
Va parimenti considerato che tra i partigiani dell’unità araba avevano grande
importanza gli ufficiali arabi originari delle province irachene dell’Impero
Ottomano. Questi ufficiali avevano formato la società al ‘Ahd (il Patto), una
delle numerose associazioni arabe create a cavallo del secolo per affermare i
diritti degli Arabi all’interno dell’Impero Ottomano. Essi assumeranno una parte
di primo piano nella costituzione dell’Iraq e trasformeranno gradualmente
l’esercito in un pilastro del potere anticoloniale.
La burocrazia e l’esercito, progressivamente e costantemente epurati degli
elementi non sottomessi all’élite al potere, rappresentano la base principale di
consenso del regime.
Entrambi conoscono un vero e proprio boom grazie agli introiti petroliferi: i
dipendenti pubblici non produttivi passano da 20.000 nel 1958, a 350.000 nel
1968, fino a raggiungere i 550.000 nel 1978.
Di questo mezzo milione di dipendenti pubblici ben 180.000 sono addetti a
“compiti di sicurezza” al Ministero dell’Interno e al Dipartimento
Presidenziale.
Secondo il partito, La “baathizzazione delle forze armate” doveva tendere a fare
dell’esercito “un esercito ideologico” al suo servizio e i servizi di sicurezza
dovevano sorvegliare la vita sociale nel suo insieme.
Questa politica è conseguente in un paese come l’Iraq. Il proletariato ha avuto
una storia di rivolte sociali destabilizzanti per gli equilibri politici,
l’esercito è sempre stato uno dei terreni privilegiati di reclutamento per la
sinistra araba che in esso ha sempre creato cellule clandestine sin dai tempi
del protettorato inglese e la direzione delle forze armate è sempre derivata da
scontri prima della presa definitiva del potere da parte del cosiddetto clan dei
“Takriti”.
Nel ’74 il Baath riafferma durante i suo congresso: «nei prossimi anni dobbiamo
sostenere una politica mirante a consolidare il controllo del partito sugli
altri settori dell’esercito – i servizi di sicurezza, la polizia e i corpi di
frontiera», solo i membri del partito sono ammessi nei collegi e nelle
istituzioni militari e tutti gli ufficiali devono aderirvi, pena la
degradazione, tutti coloro che vengono meno all’impegno di operare
nell’interesse del Baath vengono puniti con la morte.
Allo scoppio della guerra con l’Iran, ogni grado della gerarchia viene
raddoppiato poiché, ormai, ogni ufficiale è affiancato da un temibile e
onnipotente commissario politico!
La borghesia irachena
Questa porzione sociale, nei settori in cui si è sviluppata, come nelle
costruzioni o nell’agro-business, è, nel primo caso, direttamente dipendente
dallo Stato cliente, mentre, nel secondo caso, dipende dallo Stato per ciò che
concerne la cessione della terra e i crediti a tassi vantaggiosi per l’acquisto
di concimi e macchinari e per l’afflusso di forza-lavoro non autoctona precaria,
flessibile e a buon mercato.
La borghesia irachena ha le sue origini per lo più negli strati medio-bassi
della vecchia borghesia “parassitaria” degli anni Sessanta e non costituisce la
base sociale di riferimento del regime.
Non avendo sbocchi esterni ai confini nazionali, per i suoi commerci dipende
dall’andamento dei consumi interni e quindi dalla politica economica del
governo.
Working class
Le stime sui lavoratori in Iraq differiscono grandemente. Nel 1977 la
forza lavoro irachena è stata stimata a 3 milioni di persone di cui un terzo
“classe operaia” tout court.
Bisogna ricordare che per due decenni circa è stata assicurata la piena
occupazione.
Dal tempo del primo colpo di Stato baathista ogni forma di sindacalismo
indipendente è stata vietata: vengono ammessi solo i sindacati di regime, creati
dallo Stato e sotto stretto controllo dei funzionari del Baath, i quali
selezionano fra i lavoratori quelli che partecipano ai consigli di
amministrazione aziendale.
I mutamenti nella composizione sociale della working class in Iraq sono dovuti
principalmente:
a) All’inurbamento della manodopera agricola liberata dal lavoro dei campi –
circa 1 milione di persone – a causa di riforme agrarie.
b) All’afflusso di forza lavoro proveniente dall’estero: Marocco, Egitto, Asia
meridionale, stimata da alcuni a 3 milioni di persone a metà anni ottanta.
c) All’ingresso della forza lavoro femminile che arriverà, durante la guerra con
l’Iran, al 25% della forza lavoro totale. Questo soprattutto in conseguenza
della militarizzazione della porzione sociale maschile arruolabile: se nel 1975,
in Iraq, soltanto il 3% della forza lavoro (82.000 persone) si trovava sotto le
armi, quando la guerra terminò, nel 1988, era presente nell’esercito il 21% di
questa, circa 1 milione di persone.
d) Alle deportazioni dei curdi e degli sciiti del Sud dell’Iraq verso l’Iran.
e) Alla distruzione portata dalla guerra.
Dalla guerra con l’Iran alla crisi del
Golfo
La cacciata dello Scià e l’affermarsi della rivoluzione islamica contro
“Il Satana Imperialista” in Iran, anche a discapito delle forze laiche e
progressiste come di quelle sinceramente rivoluzionarie, cambia gli equilibri
della regione anche in virtù del fatto che gli USA perdono un importante alleato
nell’area.
Proprio l’Iraq, in specifico le città sante sciite di Najaf e Karbala, erano
state il centro propulsivo della costituzione del movimento sciita e il vivaio
dei quadri dirigenti degli attuali movimenti islamisti, nonché il luogo di
esilio di Khomeini, prima della Francia, che proprio a Najaf, dal 1970, tiene
corsi sul potere diretto dei religiosi, pubblicati l’anno dopo con il titolo:
“Il Governo Islamico”.
La direzione religiosa sciita, la Marja’iyya, sotto la leadership di Muhamed
Baqer Al-Sadr, istituzionalizza il potere del religioso “più saggio”.
Gli ulema, e le tradizionali fonti di reddito che permettono di sviluppare le
loro reti di influenza attraverso le scuole e le istituzioni islamiche, entrano
in contrasto con il potere centrale che nel ’69 aveva ordinato l’arresto di
molti capi religiosi nelle città sante e la confisca dei fondi delle scuole e
dei beni ecclesiastici inalienabili ed infine la chiusura dell’università
religiosa di Kufa.
Sarà proprio Muhamed Baqer Al-Sadr, padre di Moqtada, ispiratore di gran parte
della costituzione della nuova Repubblica Islamica dell’Iran, a promulgare nel
’79 una fatwa che proibisce ai mussulmani di aderire al Baath e legittima il
ricorso alla violenza contro la repressione del potere.
Il conflitto con L’Iran costa all’Iraq la distruzione di infrastrutture
petrolifere, industriali e di comunicazione; l’esaurimento delle riserve
irachene di valuta straniera; l’indebitamento dovuto per la maggior parte
all’acquisto di armi; le spese aggiuntive derivate dal complicarsi degli
itinerari delle importazioni a causa della guerra.
Da paese creditore l’Iraq diventa paese debitore, soprattutto nei confronti di
Arabia Saudita e Kuwait.
Da paese in grado di assicurare la piena occupazione ai suoi abitanti, si
ritroverà con 200.000 soldati smobilitati da ricollocare e un settore
industriale da ristrutturare secondo i dettami della logica capitalistica, il
livello di vita calcolato sul rapporto PIL per abitante calerà dai 6.200 dollari
del 1980 ai 4.400 del 1989.
Dalla fine della guerra con l’Iran, l’Iraq aveva lanciato un imponente programma
di sviluppo, confidando sul piano di dilatazione scaglionata del debito, sulla
ripresa delle esportazioni petrolifere e sull’annullamento del debito contratto
dai paesi arabi “fratelli”. Ora, questa dilatazione non può più essere
garantita, il debito non viene cancellato e il prezzo al barile cala
vertiginosamente a 8 dollari nei primi mesi del 1990.
Va da sé che ogni tentativo pilotato di fissare il costo del greggio su valori
sulla base delle esigenze economiche del centro imperialista e il mancato
rispetto da parte dei paesi membri delle decisioni OPEC, che tendono ad
aumentare la capacità produttiva rispetto ai limiti prefissati, è visto come un
attacco diretto alle possibilità di sviluppo della società irachena nel suo
insieme, comporta un abbassamento dei margini di riproduzione della sua
popolazione e quindi anche un elemento di esasperazione delle contraddizioni
interne.
Un paese come l’Iraq, dotato di un esercito e di un apparato bellico di tutto
rispetto, non può che tentare di risolvere questi problemi “interni” da un punto
di vista militare trovando uno sbocco nella politica estera.
La fase che va dalla metà anni Ottanta, in particolare dal ’87, fino alla prima
guerra del Golfo, segna il declino del modello di sviluppo iracheno.
Il livello di vita degli iracheni è stato sostenuto per quasi tutti gli anni
Ottanta grazie ad un continuo flusso di prestiti ottenuti dai paesi del Golfo,
che portano l’indebitamento estero da 2 miliardi di dollari, nel 1980, a 80
miliardi nel 1987.
L’inversione di rotta del regime, in relazione alle politiche d’ingegneria
sociale per il mantenimento dello status quo, rischia di minare alla base i
meccanismi di riproduzione del consenso e di invalidare l’efficacia della
propria azione nel governo delle contraddizioni sociali.
Nel 1987 viene cancellato il Codice di Lavoro ed abrogate le leggi sulle
pensioni e sulla sicurezza sociale, viene altresì dichiarata fuorilegge ogni
organizzazione sindacale.
I lavoratori iracheni iniziano ad avere esperienza dei licenziamenti e della
disoccupazione.
Nei settori industriali e dell’agro-business vengono aumentate le giornate
lavorative e i carichi di lavoro grazie alla pressione dei soldati smobilitati e
alla possibilità di importare mano d’opera straniera senza vincoli, che andrà a
sostituire una porzione di forza-lavoro compresa fra il 40 e l’80%.
Sempre nello stesso anno, 47 grandi industrie vengono privatizzate, viene
cancellato qualsiasi limite all’investimento privato e vengono varate una serie
di misure a loro sostegno.
Le privatizzazioni continuano anche successivamente, sebbene il rapporto
pubblico-privato non venga modificato in modo radicale, continuando ad essere
largamente predominante il pubblico grazie alla presenza di grandi imprese
statali ad altissima capitalizzazione.
Successivamente, il venir meno dell’appoggio dell’URSS, che fece le sue scelte
in favore dell’Arabia Saudita e decise di lasciare che gli ebrei sovietici
emigrassero liberamente in Israele, costituirà un fattore determinate prima
della Crisi del Golfo, proprio in un momento in cui l’Iraq si stava proponendo
come “polo decisionale” all’interno del mondo arabo, in seno al Consiglio di
Cooperazione Araba, cercando di attirare nella sua orbita la Giordania e
l’Egitto.
È chiaro che gli Stati Uniti, Israele e qualsiasi polo imperialista in
formazione non avrebbe potuto tollerare questa ingombrante presenza nel mondo
arabo, collocata geo-politicamente in una posizione di cerniera tra il Golfo e
la Mezzaluna Fertile.
Successivamente, privato dall’embargo dei frutti della sua risorsa principale,
l’Iraq avrebbe potuto trovarsi più sguarnito del più sottosviluppato degli Stati
del Terzo Mondo, se non fosse stato per la tenacia e dignità dimostrata nei
confronti dell’imperialismo e per la ricchezza rappresentata da due generazioni
dotate di un alto grado di istruzione, acquisita in Iraq, ma anche presso le
migliori scuole della tecnologia occidentale e sovietica.
La questione curda
A differenza dell’Iran e della Turchia, anch’essi stati con una
significativa presenza di popolazione curda, nel 1970, l’Iraq è stato l’unico
paese a concedere ai curdi un’ampia autonomia all’interno delle zone di
insediamento curdo e a riconoscere l’uso ufficiale della lingua curda,
attraverso l’accordo con il PDK di Barzani che, prima, nel novembre 1971,
sottoscrisse insieme al Partito Comunista Iraqueno, la Carta d’azione e poi, nel
luglio del ’73, entrò con il Baath e il PCI nel Fronte nazionale progressista.
Ma questi sforzi non fecero cessare la ribellione sostenuta dall’Iran e da
Israele.
All’origine della ripresa della guerra del Kurdistan, nel 1974, c’è infatti
l’esclusione delle regioni petrolifere di Kirkuk, Khanaqin e Mosul dagli accordi
per l’autonomia proclamata autonomamente dal governo.
Barzani esigeva una indipendenza maggiore dalle istituzioni, l’elezione di un
presidente nell’esecutivo che fosse anche un vice primo ministro ed anche un
budget finanziario proporzionato al numero di abitanti della regione.
Soprattutto chiedeva che Kirkuk, Sinjar e Khanaqin venissero integrate in questo
Kurdistan autonomo.
Il governo invece impose ai dirigenti curdi di ratificare il proprio progetto e
quando questi si rifiutarono, furono allontanati i cinque ministri curdi e
sostituiti da altri curdi legati al potere di Baghdad.
Ci volle l’accordo di Algeri, firmato nel 1975 tra Iraq e Iran, che divideva fra
i due paesi le acque dello Shatt el Arab, affinché il governo iraniano togliesse
il suo appoggio al movimento curdo e facesse così crollare il movimento di
ribellione. La guerriglia, senza il sostegno logistico iraniano, cederà le armi,
con un conseguente esodo di massa verso l’Iran e una numerosa serie di
dissidenze. Alla morte di Mustafa Barzani, nel 1979, prenderanno la direzione
del PDK i suoi figli Massud e Idris.
Il monopolio della rappresentanza dei curdi sarà conteso, dalla metà degli anni
’70, dall’UPK, scissasi dal PDK nel 1974, di Jalal Talabani, che si porrà come
alternativa democratica e di sinistra al PDK.
Criticando la gestione “con metodi tribali”, la “connivenza con l’imperialismo”
e l’alleanza con lo Scià, fattori che avrebbero portato alla sconfitta il
movimento curdo, questa formazione tenderà a incrinare la leadership
tradizionale, mantenendo però i metodi e gli obbiettivi che avevano
caratterizzato il PDK, tra cui le trattative con Baghdad, che però falliranno.
L’inizio della guerra tra Iraq e Iran diede un nuovo impulso alla ripresa della
guerriglia curda. Il PDK rinnova la sua alleanza con l’Iran. ma questa volta con
la repubblica islamica. Anche l’UPK, si allea con l’Iran e alla fine dell’ ’85
interrompe le trattative con il governo.
La repressione irachena contro questo “nemico interno” non si fa attendere.
In seguito a questi eventi nasce, nel maggio 1988, il Fronte del Kurdistan
Unito, che riunisce le forze politiche curde contrarie al governo di Baghdad.
Note:
1) Alla fine degli anni Settanta le
terre coltivate costituiscono poco più del 25% del territorio dell’Iraq mentre
la metà del paese è potenzialmente coltivabile. Le risorse idriche, ottimizzate
dalle infrastrutture idrauliche permetteranno nello stesso periodo l’irrigazione
di 35.000 Km2 di terreno agricolo.
Bibliografia
Oltre alla bibliografia fornita sul numero precedente di Senza Censura,
includiamo:
- Pierre-Jean Luizard, La Questione Irachena, Feltrinelli, febbraio 2003.
- AA.VV., Iraq, dalle antiche civiltà alla barbarie del mercato petrolifero,
Jaka Book, febbraio 2003, in particolare i saggi finali di G.Corm sull’Iraq
contemporaneo.
- Georges Corm, Il Vicino Oriente, un montaggio irrisolvibile, Jaca Book, primo
volume dell’opera in via di traduzione: Le Proche-Orient éclaté 1956-2003, Folio
Histoire, 2003 per l’impostazione metodologica sullo studio del Vicino Oriente.
- Stephen Zunes, La Scatola Esplosiva, la politica americana in medio oriente e
le radici del terrorismo, Jaca Book, aprile 2003, in particolare il capitolo sul
Golfo Persico.
- Centro di Ricerche sul Sistema Sud e il Meditteraneo Allargato a cura di
Valeria Fiorani Piacentini, Il Golfo nel XXI Secolo, le nuove logiche della
conflittualità, Il Mulino, 2002.
- Théo Cosme, Moyen-Orient 1945-2002, histoire d’une lutte de classes, Senonvero,
2002, in particolare il primo capitolo della quarta parte: La version irakienne
de l’intégration rentière et la guerre du Golfe.