SENZA CENSURA N.14
GIUGNO 2004
Genealogia di una “mela marcia”
Aspetti finanziari e aspetti produttivi della crisi Parmalat.
Lo scarno comunicato con cui Bank of America il 18 dicembre 2003 rivela
l’inesistenza del conto corrente da 3,95 miliardi di dollari intestato a
Parmalat segna il momento del crollo irrimediabile del castello di carte su cui
si reggeva il bilancio della multinazionale parmense e sancisce l’inizio della
crisi del gruppo, una situazione di insolvenza stimata attorno ai 14 miliardi di
euro, che a tutt’oggi deve ancora dispiegare tutte le sue conseguenze sulla vita
dei lavoratori e delle lavoratrici Parmalat e dell’indotto, sull’economia e
sulla finanza nazionale e internazionale.
Per quanto storicamente reputata un’azienda con comportamenti innovativi e a
volte spericolati, soprattutto per ciò che riguarda l’indebitamento aziendale (1),
in pochi avrebbero potuto credere ad una situazione così grave: in fondo si
trattava della “prima azienda italiana del settore alimentare, ottavo gruppo
industriale nazionale, 36000 dipendenti in 30 paesi del mondo, un marchio di
fama internazionale” (2); dotata di potenti appoggi e legami col mondo della
finanza cattolica e dell’Opus Dei, la Parmalat godeva di entrature politiche
grazie ad una strategia di rapporti bipartisan col potere politico che la
portava a finanziare un po’ tutti, a seconda delle convenienze del caso.
Il clamore suscitato a livello locale, nazionale e internazionale dalla vicenda
è stato enorme; grande rilevanza è stata data agli aspetti “criminosi” e
truffaldini dell’attività di Tanzi e company: dai falsi in bilancio costruiti
mediante documenti bancari artefatti, alle false fatturazioni, all’utilizzo di
società fantasma alle isole Cayman ove riversare le perdite del gruppo, alla
creazione di fondi d’investimento (Epicurum) inesistenti, al supposto “tesoro”
che Tanzi custodirebbe in qualche angolo remoto del mondo ed infine alla
necessità di proteggere l’italico risparmio da ladroni tipo Tanzi e Cragnotti
(che fino all’altro ieri erano osannati e portati in palmo di mano dai
pennivendoli di ogni parrocchia).
L’approccio a la Tangentopoli nell’analisi del fenomeno è meno ingenuo di quanto
sembra: in effetti come scrive Nick Beams a proposito delle reazioni della
stampa borghese americana di fronte al crack Enron (ma il suo discorso è
trasferibile senza alcuna modifica a quello che qui sviluppiamo), “…mentre
analizzano in dettaglio gli aspetti del crack, della corruzione e delle
possibili attività criminali che hanno giocato un ruolo tanto cruciale nel
funzionamento della Enron, tutti questi articoli servono ad un essenziale scopo
politico: essi contribuiscono ad ostacolare la comprensione e la ricerca delle
cause proprio nel momento in cui queste ultime dovrebbero andare più in
profondità. La questione centrale che neppure viene sollevata e a cui ovviamente
non si da risposta è quella relativa a quali sono le forze motrici economiche
che hanno portato ad una situazione in cui la corruzione e le azioni criminose
hanno assunto un ruolo così centrale nell’economia” (3).
In effetti in ciò che segue cercheremo di far uscire l’analisi dai luoghi comuni
basati sull’illegalità dei comportamenti del gruppo dirigente, sull’avidità
delle banche, ecc. per osservare alcune questioni strutturali che connettono il
caso Parmalat all’intreccio di sviluppo, instabilità e stagnazione così tipico
della fase attuale del capitalismo.
Questo articolo è diviso sostanzialmente in tre parti: nella prima si guarda
alla dimensione finanziaria della vicenda, nella seconda alle dinamiche inerenti
il mercato lattierocaseario in cui opera Parmalat e nella terza ci si dedica ad
una breve osservazione dei rapporti capitale-lavoro in particolare per quello
che riguarda lo stabilimento principale di Collecchio a Parma.
Gli aspetti finanziari
C’è qualcosa di assurdo e stridente con il buon senso nell’idea ampiamente
veicolata dai mass media che un’insolvenza da 14 miliardi di euro, cioè oltre
27000 miliardi di lire - dei quali, secondo i dati riportati nel volume Parmalat.
La grande truffa, 7,7 miliardi sotto forma di obbligazioni che non verranno
rimborsate, mentre i restanti 6,3 miliardi circa sarebbero prestiti delle banche
e crediti erogati da altri soggetti (4) - possa essere imputata sostanzialmente al
malefico genio di Tanzi e dei suoi tirapiedi Tonna, Zini e compagnia.
La lunga serie di disastri finanziari ed economici degli anni ’90, i crack
aziendali di Enron, Worldcom e altri in USA, Marconi in Inghilterra, Vivendi in
Francia, le crisi valutarie-finanziarie del Messico nel 1995, del Sud Est
asiatico nel 1997, l’implosione argentina del 2001, ci dicono, se vogliamo
leggerle, che vi sono fattori strutturali a monte di tali fenomeni, il primo dei
quali è certo legato alla evoluzione del sistema finanziario e bancario da 20
anni a questa parte.
E’ importante capire come in realtà le grandi banche internazionali e gli
operatori dei mercati finanziari conoscessero tutto sommato bene la situazione
di Parmalat: con le parole di G. Ragozzino, Tanzi “…si assicurava le imprese in
vendita e dall’altro chiedeva i fondi per le operazioni, pagando senza batter
ciglio quello che le banche le chiedevano di interessi. Ottima cliente Parmalat:
ogni banchiere aspirava ad averla per sé.” [sottolineatura mia]
Banche, fondi d’investimento, fondi pensione accettavano in sostanza il rischio
del finanziamento ad una impresa barcollante come Parmalat, non perché una
strana pazzia si fosse impadronita dei loro manager finanziari, ma perché le
condizioni strutturali in cui operano attualmente i mercati finanziari
favoriscono una incessante corsa verso i rendimenti e quindi verso i debitori
con peggiore reputazione ( e maggiori interessi da incamerare).
M. De Cecco, ad esempio, ragionando sulla crisi asiatica del 1997 (ma possiamo
trasferire l’analisi al contesto del crack Parmalat) sostiene che la causa
ultima della crisi sta nelle condizioni generali del credito e dell’offerta di
capitali sui mercati liberalizzati dei paesi avanzati, che creano i presupposti
per fenomeni di sovraindebitamento e di finanziarizzazione delle attività da
parte delle economie in crescita e delle imprese capitalistiche: “Si innesca in
questo modo una corsa ai rendimenti da parte delle banche e degli investitori
finanziari in tutto il mondo sviluppato che riesce solo se estende i confini
dell’area alla quale essi fanno prestiti, comprendendovi anche paesi e
prenditori esclusi in tempi più restrittivi” (5).
Quali sono dunque queste mutate condizioni strutturali che favoriscono la
sfrenatezza del capitale finanziario? Sinteticamente abbiamo una serie di
sviluppi intimamente connessi tra loro, di cui cercheremo, nel prosieguo del
paragrafo, di evidenziare la portata:
La deregulation del settore bancario prima in USA e poi in tutto il mondo, con
processi che hanno creato enormi aggregati bancari, proprietari di fondi
d’investimento, assicurazioni società di rating, ecc
La liberalizzazione della legislazione sulle Borse
La liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali, a partire dal
crollo del sistema di Bretton Woods
Le condizioni di “moneta facile”, cioè di bassissimi tassi d’interesse in tutto
il mondo (6) parallele al processo di liberalizzazione che con esso coopera a far
si che un fiume di denaro si rivolga verso i debitori meno affidabili.
La Grande Depressione e la deregulation degli anni ‘80
Per la generalità che riveste e per i legami che intrattiene con il caso
Parmalat (i cui principali canali di finanziamento si trovavano proprio negli
States) è forse più istruttivo uno sguardo al processo di liberalizzazione
finanziaria statunitense, che si realizza tra gli anni ’80 e la fine degli anni
’90 e che fa da apripista a quello che avviene in Europa e in Italia. Per il
nostro paese rimandiamo ad alcuni ottimi articoli che analizzano la vicenda
della privatizzazione del sistema bancario italiano, tra gli altri da segnalare
quello di Riccardo Realfonzo (7) sulla Rivista del Manifesto e quello di Guglielmo
Ragozzino (8) sul Il Manifesto.
Per quanto riguarda le banche l’impianto generale del sistema del credito nel
mondo finanziario anglosassone era fino agli anni ’70 sostanzialmente improntato
intorno alle condizioni definite dal Glass Steagall Act, legge promulgata nel
marzo 1933 durante i primi 100 giorni della amministrazione Roosevelt: la Grande
Depressione partita col crollo di Wall Street dell’ottobre 1929 stava
distruggendo il sistema finanziario americano, in poco più di tre anni oltre
5000 banche erano fallite, trascinando con se imprese, risparmiatori e circa
600.000 mutuatari che persero la casa acquistata col mutuo immobiliare tra il
’29 e il ’32 (9).
Il punto principale della legge era quello che imponeva la netta separazione tra
banche commerciali e le banche d’investimento: le prime potevano raccogliere
depositi e svolgere funzioni di credito ordinario nei confronti delle imprese e
dei consumatori ma era loro di fatto impedito di partecipare ad operazioni
finanziarie, ad es. compravendita di titoli in Borsa, assistenza alle emissioni
di titoli e alle fusioni tra imprese, settori riservati invece alle banche
d’investimento che si dovevano specializzare nei mercati dei capitali mentre era
loro impedito di lavorare nel mercato del credito ordinario.
A livello proprietario le banche commerciali, quelle d’investimento e le aziende
assicurative non potevano essere collegate: l’espansione delle grandi banche
veniva inoltre ostacolata garantendo spazi di mercato privilegiati alle piccole
casse di risparmio locali, in particolare per quanto riguarda i mutui
immobiliari.
A queste misure si associavano poi altre regolazioni intese a limitare la
concorrenza nel settore bancario come la fissazione di tetti massimi sui
depositi fruttiferi, affinché le banche stesse non accendessero la competizione
al fine di sottrarre depositi ad altre banche.
Al tempo stesso, al di là del Glass-Steagall Act, la regolazione interessò la
Borsa, impedendo l’accesso ad operatori stranieri, normando le funzioni degli
agenti finanziari, fissando commissioni minime fisse, in modo tale da stemperare
la concorrenza tra gli operatori e da evitare corse speculative al ribasso o al
rialzo che compromettessero la stabilità della Borsa stessa.
Detto molto in sintesi, questo impianto normativo nasceva dall’idea che la
grande crisi fosse fondamentalmente un prodotto della sfrenatezza speculativa
imputabile alla grande finanza e che proprio quest’ultima avesse creato i
presupposti per il drammatico allargamento della crisi stessa.
Dunque si delimita nettamente il credito nella sua funzione “produttiva” dal
credito in quanto agente finanziario legato alla Borsa; si impedisce inoltre la
concentrazione dell’intero sistema in poche banche giganti, garantendo infine la
sopravvivenza ai piccoli operatori legati al territorio.
Verso la fine degli anni ’70 mutano alcune condizioni di fondo che fino ad
allora avevano garantito la tenuta di quel sistema: la fine degli accordi di
Bretton Woods nel 1973 e l’eliminazione dei rapporti di cambio fissi ma
aggiustabili tra le monete mondiali porta all’apertura di un immenso territorio
nel quale la speculazione finanziaria può nutrire se stessa, giocando sui
differenziali di prezzo che quotidianamente si creano tra le valute mondiali.
Inoltre “…negli anni ’80 l’alleanza tra grande impresa intensiva di capitale e
sindacati dei lavoratori, che faceva da base al Partito democratico dai tempi
del New Deal, si sgretola e infine si distrugge. Riprendono quindi vento le vele
delle grandi banche (…) e vengono rapidamente smantellate tutte quelle regole
che impedivano alle grandi banche di invadere il recinto di quelle piccole. (…)
Le grandi banche di investimento, penalizzate dalle riforme roosveltiane con la
stretta delimitazione dei propri compiti, si propongono come intermediari
alternativi alle grandi banche commerciali nei confronti delle grandi imprese
americane…” (10).
E’ nel 1999 col governo Clinton che la deregulation giunge a sfaldare
completamente l’impianto prudenziale del Glass-Steagall Act (mediante il
Financial Services Modernization Act), dando il via ad una completa
deregolazione del settore e ad una serie di enormi fusioni tra banche,
assicurazioni, società di rating e di intermediazione mobiliare.
Per quanto attiene la regolazione delle Borse, fa epoca il cosiddetto Financial
Big Bang, il “grande botto” con cui nell’ottobre 1986 viene ampiamente
deregolamentata la Borsa londinese, creando un modello di riferimento per la
liberalizzazione finanziaria in tutto il mondo: innanzitutto viene permessa la
presenza fino al 100% di operatori stranieri nel capitale di un’impresa quotata
a Londra, percentuale che fino al 1982 giungeva fino al 10%; vengono aboliti
vincoli e limiti all’azioni degli agenti borsistici e il sistema delle
commissioni minime, aprendo la strada allo sviluppo della competizione tra gli
operatori stessi.
E’ questa la strada che porta “…il volume annuo del giro di affari di Wall
Street, ossia la somma delle transazioni azionarie annue, in rapporto al PIL
americano da una media del 25% nel periodo 1933-1982 a valori di 150%, 220% e
330% nel 1998, 1999 e 2000” (11).
Ancora sulle cause della deregulation
Come visto sopra, secondo alcuni autori, la causa del processo di
liberalizzazione finanziaria dei primi anni ’80 sarebbe nella maggior forza
relativa della lobby finanziaria a fronte della debolezza delle coalizioni che
storicamente ad essa si sono contrapposte.
Ma questo processo di trasformazione della finanza può essere considerato a se
stante? Oppure va collegato con quanto avviene a livello di economia produttiva?
Vi sono autori, come ad es. Nick Beams (12), che evidenziano i legami esistenti tra
la deregulation finanziaria e i problemi di accumulazione e di profittabilità
delle grandi corporations: in sintesi la caduta dei saggi di profitto delle
imprese nel periodo tra gli anni ’80 e ’90 porta con sé un incentivo sempre più
spinto a ricercare nella dimensione finanziaria il “recupero” di tale caduta,
mediante le operazioni finanziarie e borsistiche.
L’impresa capitalistica da un lato si attrezza per svolgere essa stessa,
mediante opportune articolazioni sociali, un ruolo diretto sui mercati
finanziari, speculando in proprio, dall’altro partecipa del generale incremento
delle quotazioni, guadagnando sul valore dei propri titoli, spesso sostenuto
mediante operazioni di riacquisto (13).
La deregulation nascerebbe fondamentalmente da qui, nel tentativo di creare le
condizioni di accresciuti profitti nell’ambito finanziario ed è per lo stesso
motivo che le richieste di maggiore severità e maggiori controlli sulla finanza
e sulle imprese, che regolarmente si alzano dopo ogni disastro, non verranno
messe in pratica.
L’interesse comune dei partecipanti al mercato finanziario è in sostanza quello
di favorire in ogni modo l’ascesa dei valori mobiliari, creando un mercato dove
la domanda di titoli sia sempre sostenuta: “In condizioni in cui i profitti
sempre più prendono la forma di guadagni derivanti da transazioni finanziarie, i
mercati richiedono un sempre crescente afflusso di fondi – un vero e proprio
wall of money – che ne sostenga i valori.”
Ecco il ruolo sempre più importante dei fondi pensionistici e dei fondi
d’investimento: “Il bisogno dei mercati finanziari di espandere l’afflusso dei
capitali è uno delle forze motrici che stanno dietro ai cambiamenti nel sistema
pensionistico negli USA e altrove; alla base di tali cambiamenti il tentativo di
vincolare i fondi direttamente ai mercati, con la conseguenza che, come nel caso
di Enron, i lavoratori si trovano di fronte alla possibilità che i loro risparmi
e i loro redditi futuri vengano spazzati via in un batter d’occhio” (14).
Anche in questo caso Parmalat si trovava all’avanguardia (i dati che abbiamo
raccolto sono molto parziali, nel senso che sicuramente altri fondi pensione e
d’investimento investivano nell’azienda di Collecchio): per il 2003 si aveva
l’inglese Hermes, fondo pensione di British Telecom entrato in Parmalat
attraverso il braccio operativo Focus Asset Management Europe con un pacchetto
del 2% circa; Nextra, la società di gestione del risparmio di del gruppo Banca
Intesa anch’essa presente con circa il 2% del capitale azionario Parmalat, che
inoltre acquista interamente il bond da 300 milioni di euro emesso dall’azienda
di Parma l’11 giugno 2003; il fondo pensioni dell’olandese Phillips con il
2,05%; altri 2 fondi USA per conto dei quali Deutsche Bank acquista più del 2%
del capitale Parmalat al termine del 2003; ed infine il Fondo pensioni Southern
Alaska Carpenters Retirement Trust possessore di bond Parmalat, che a titolo di
risarcimento chiede a Collecchio l’astronomica cifra di 1 miliardo di dollari
(15).
Stagnazione e monopolio
nel mercato lattiero caseario
La crisi dei profitti nei settori maturi dell’economia: il settore
lattierocaseario.
Nonostante il discredito che l’economia ufficiale continua a gettare sulla
teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto, risulta
difficile non vedere come allo stadio attuale di sviluppo del modo di produzione
capitalista, i saggi di profitto dei settori maturi dell’economia vengano
inesorabilmente schiacciati nella dialettica che sospinge concorrenza da un lato
e miglioramenti della tecnologia dall’altro.
“L’industria dell’auto mondiale fornisce un buon esempio di questi processi
competitivi all’opera. Essa mette all’opera massicce economie di scala e
sopporta enormi costi fissi. Limitate tendenze di crescita globale, ingressi di
nuove marche, poche uscite dal mercato hanno creato un vasto eccesso di capacità
nel settore dell’automobile. Nel 1999 Business Week scriveva che almeno ? dei 40
produttori mondiali di auto <affogavano nei debiti, alle prese con problemi di
capacità. Il settore può produrre 20 milioni di auto e camion in più rispetto a
quelli che vende.>
L’agenzia di consulenza PricewaterhoseCoopers concludeva che il grado di
utilizzo degli impianti è caduto dal 80% nel 1990 al 70% nel 1999. Causa gli
astronomici costi fissi un consistente eccesso di capacità ha stroncato i
profitti su tutti i mercati eccetto quello statunitense nella seconda metà degli
anni ’90; secondo il Wall Street Journal , <gli enormi costi fissi necessari
allo sviluppo di nuovi modelli e alla costruzione di grandi impianti fanno si
che i produttori si sentano costretti a mantenere o espandere le loro quote di
mercato>. (…)
A peggiorare le cose poi nel 2001, pure lo stesso mercato USA si è rivelato
improfittevole causa lo scoppio della bolla finanziaria legata alla new economy
e causa il venir meno del temporaneo monopolio della aziende americane sulle
vendite di jeep, fuoristrada e piccoli camion.
E benché oberate da eccesso di capacità, da debiti consistenti e da perdite o
comunque risicati profitti, le imprese hanno continuato a riversare investimenti
nella produzione. Investimenti che consentano di trarre vantaggio dalle
rapidamente crescenti economie di scala sono obbligatori: le stime sulla soglia
minima per giungere ad una produzione efficiente variano dalla cifra di 2
milioni fino a quella stupefacente di 4 milioni di auto all’anno” (16).
Il caso del mercato del latte e derivati non pare in sostanza granché
differente: secondo l’analisi ampiamente condivisa della stessa Autorità Garante
per la Concorrenza e il Mercato (d’ora in poi AGCM), le prospettive del mercato
sono statiche e il tipo di tecnologia utilizzato tende a standardizzarsi,
impedendo l’acquisizione di vantaggi competitivi di un’azienda sull’altra; “…nel
corso degli anni ’90 i consumi complessivi di latte in Italia hanno mostrato una
sostanziale stabilità, indicativa dell’elevato grado di maturità del settore, il
quale difficilmente potrà sfruttare ulteriori potenzialità di espansione. I
consumi di latte fresco, peraltro hanno subito una leggera contrazione, in
misura pari a circa l’8% dal 1992 ad oggi, anche in conseguenza del progressivo
invecchiamento della popolazione” (17).
“Anche il processo di lavorazione della materia prima non risulta
particolarmente complesso ed è caratterizzato da una tecnologia matura, i cui
costi mostrano un’incidenza sostanzialmente omogenea tra gli operatori, benché
piuttosto contenuta. In relazione alla fase di confezionamento, si osserva come
i contenitori vengano acquistati da tutti gli operatori presso il medesimo
produttore specializzato (Tetrapak), rappresentando un’altra voce importante di
costo comune (quantificabile nel 10% circa dei costi totali)” (18).
Questo in sostanza è lo scenario che fa da sfondo alla corsa sfrenata (19) che nel
corso degli anni ’90 trasforma in profondità la direzione di marcia del mercato lattierocaseario verso una struttura altamente concentrata, nella quale sia
possibile estrarre profitti supplementari sotto forma di rendite derivanti da
posizioni monopolistiche o da cartelli di prezzo, possibili questi ultimi solo
se il numero dei competitori è abbastanza ridotto.
La grande torta delle privatizzazioni e la ristrutturazione del mercato
lattierocaseario
Chi scrive esprime il sospetto, non suffragato da studi in materia - che
purtroppo latitano o sono rarissimi-, che la forza motrice del gigantesco
processo delle privatizzazioni che ha drammaticamente attraversato l’economia
italiana degli anni ‘90, al di là dell’esplicito riferimento al problema del
debito pubblico, sia da individuare nel sostegno all’accumulazione dei grandi
gruppi privati alle prese con problemi di profittabilità, mediante
l’acquisizione di monopoli naturali ed economici: energia elettrica, autostrade,
ferrovie, telefonia fissa, aziende municipalizzate di servizi, metropolitane,
centrali del latte, tutti servizi e attività economiche caratterizzate dalla
possibilità di incrementare i prezzi senza che meccanismi concorrenziali
compromettano la domanda.
Dentro a tale contesto cerchiamo di leggere la svendita del patrimonio pubblico
delle Centrali del Latte delle quali diamo un elenco approssimativo per difetto:
nel corso degli anni ‘90: Vicenza, Parma, Viterbo, Milano, Roma (20), Monza,
Genova, Como, Ancona, Taranto, Napoli, Brianza, Matera, Bergamo (Lactis), Busto
Arsizio, Bovisio, Centrale latte Calabria.
Non ci vuole molta fantasia per capire com’è che il mercato italiano del latte
fresco, che vale tra i 2500 e i 3000 miliardi delle vecchie lire, ne sia stato
condizionato: nella tabella qui sotto il dato veramente impressionante è
rappresentato proprio dal balzo di Parmalat in soli 10 anni, da operatore sotto
l’1% a leader del mercato!
“Dalla tabella, che riporta le quote su base nazionale dei produttori di latte
fresco, emerge come nel corso degli ultimi dieci anni i principali operatori
locali, ad eccezione della Centrale del latte di Firenze siano stati acquistati
da Granarolo e Parmalat” (21).
Operatore | 1990 | 2000 |
Centrale del latte di Roma | 8,9 | - |
Granarolo | 8,6 | 27,4 |
Sme | 7,8 | - |
Ala | 4,1 | - |
Centrale del latte di Milano | 3,3 | - |
Centrale del latte di Firenze | 2,5 | 2,0 |
Parmalat | 0,9 | 27,9 |
altri | 63,9 | 42,7 |
Nel 2003 la polarizzazione si è accentuata ulteriormente: secondo i dati del
Sole 24ore del 24 dicembre 2003, Parmalat si accaparra il 31,1% dei volumi di
latte fresco, Granarolo il 30%, Newlat il 2,1% e altri produttori il 36,8%.
Non si tratta di un semplice accaparramento di risorse pubbliche svendute dai
privatizzatori di turno: è una vera e propria guerra condotta dai tre grandi
gruppi del lattierocaseario (Parmalat, Granarolo, Cirio – che salta in aria nel
1999) e che porta ad una selvaggia corsa per l’acquisizione dei marchi e degli
impianti privati e pubblici, al fine di ottenere rendite di monopolio sui prezzi
di vendita del prodotto finito (per un esempio pratico vedere alla fine di
questo paragrafo).
L’esempio della cooperativa che gestisce la centrale del latte di Varese e il
relativo marchio Latte Varese pare veramente significativo riguardo al modus
operandi della multinazionale di Collecchio: nel corso degli anni ’90 la
cooperativa era in perdita e Lactis, un consorzio di produttori di Bergamo,
intervenne a sostegno.
Nel 1996 tuttavia Lactis viene assorbita da Parmalat, cosicché i produttori di
Varese consci della rapacità dei parmigiani, decidono di staccarsene: “Gli
agricoltori decisero di disdire ogni contratto. La multinazionale reagì e
scatenò una guerra commerciale nel Varesotto senza precedenti. Domanda: Gli
agricoltori dunque erano propensi a vendere a Lactis, ma non si fidavano di
Parmalat ?
Esatto. (…) Lactis, pensavano, era un consorzio di allevatori bergamaschi e
quindi più vicina alla nostra realtà. Quando intervenne Parmalat però le
posizioni furono molto nette : nell’ambiente si sapeva che la multinazionale
aveva fatto le sue fortune con le dilazioni di pagamento ai fornitori.(…).
[Cosi] nell’ottobre 1997 interrompemmo i rapporti. Poco dopo, in una sola
settimana, Parmalat ci portò via tutti i nostri commerciali. Poi iniziarono a
offrire latte a prezzi stracciati ai distributori. Una strategia, tra l’altro,
molto costosa per loro” (22). [sottolineatura mia]
E quale è stata la conseguenza sui consumatori di questa orgia di acquisizioni
che tutti i partiti politici, purtroppo con rarissime eccezioni hanno avallato e
incentivato, qual è stato il grado di benessere aggiuntivo che le
privatizzazioni hanno garantito al famoso consumatore, sovrano nel famoso
mercato?
Non c’è bisogno di andare a consultare manuali di controinformazione politica,
basta leggere i rapporti della Autorità Garante della concorrenza e del mercato,
la quale candidamente ci informa del fatto che “…sino ad ora nessuna
acquisizione di operatori locali [le Centrali] da parte dei gruppi nazionali
abbia portato a incrementi di efficienza rilevabili attraverso diminuzioni dei
prezzi al consumo. Al contrario a tali acquisizioni sono quasi sempre seguiti
incrementi di prezzo, resi possibili dall’aumentato potere di mercato. Ad
esempio nel Lazio, il gruppo CIRIO, dopo l’acquisizione della Centrale del Latte
di Roma, ha incrementato il prezzo al consumo di 100 lire, senza incorrere in
reazioni significative da parte della concorrenza” (23).
E poi danno la colpa dell’inflazione all’euro…..
Gli allevatori, l’industria, le banche
Il movimento di acquisizioni da parte delle grandi aziende sopra delineato ha
avuto una serie di conseguenze anche sugli allevatori che alle Centrali locali
vendevano il proprio latte: date le caratteristiche di deperibilità del prodotto
infatti l’allevatore spesso non è in grado di trovare altri acquirenti, se non
quelli tradizionalmente rappresentati dalle Centrali. Rilevante è dunque il
potere del compratore.
L’ingresso dei grandi gruppi nazionali ha portato ad una compressione dei prezzi
pagati dagli stabilimenti agli allevatori stessi (Cirio ad esempio appena
subentrata nella Centrale del Latte di Roma avrebbe imposto un taglio di 50 lire
al litro agli allevatori laziali che la rifornivano (24)), taglio dei prezzi che si
è andato ad inserire nel quadro più generale di difficoltà che il settore
lattiero e zootecnico vive in Italia.
Drastico infatti è il ridimensionamento quantitativo degli allevamenti che
tendono sempre più verso dimensioni industriali per abbattere i costi
(industrializzazione accelerata che è la vera ragion d’essere dei fenomeni
degenerativi tipo la cosiddetta mucca pazza) : “Continua ad un tasso annuo
percentuale piuttosto sostenuto l’uscita delle aziende agricole dalla produzione
di latte: tale tasso nel corso delle ultime tre campagne oscilla tra il -9.6%
del 2000/01 e il -5.6% del 2002/03.
Il numero degli allevamenti si è ridotto infatti dalle 97044 unità del 1995/96
alle 60050 del 2002/03, quando solo dodici anni prima erano quasi 182 mila le
aziende agricole con vacche da latte. Durante le ultime 4 campagne hanno quindi
smesso di produrre latte oltre 21500 stalle” (25).
Nel contempo la produzione media per allevamento è passata da 60 tonnellate
all’anno nel 1988/89 alle 186 tonnellate nel 2002/03.
Gli industriali naturalmente svolgono la loro funzione razionalizzatrice,
infischiandosene di quanti piccoli allevamenti saranno portati a chiudere per
effetto di difficoltà economiche: tutto in nome della famosa alta qualità. “Sono
ormai un paio di annate che l’accordo interprofessionale resta senza la firma in
calce alle numerose bozze. L’offerta al ribasso degli industriali è ritenuta
insoddisfacente dalle organizzazioni degli agricoltori e non c’è accordo nemmeno
sul sistema di pagamento e di indicizzazione del prezzi a un paniere di
prodotti” (26).
La analisi senza fronzoli di R. Stefanelli mostra il funzionamento della combine
industriali-banche ai danni dei produttori di latte: “Parmalat si fa finanziare
dai produttori [nel senso che impone tempi e termini di pagamento assai
sfavorevoli agli allevatori n.d.a.] in presenza di due condizioni: un accesso al
credito bancario (poi direttamente al risparmio delle persone) quasi illimitato,
che consente di fare acquisizioni a prezzi gonfiati, il cui esito ( seconda
condizione) è il rafforzamento di posizioni dominanti sul mercato. I produttori
di latte, piccoli produttori di varia taglia, non hanno accesso al credito
bancario, quindi hanno scarse possibilità di sottrarsi al conferimento coatto
del prodotto a credito [a Parmalat].
A loro volte le banche fanno della costituzione della posizione dominante sui
fornitori di materia prima un fattore di garanzia implicita dei finanziamenti”
(27)
Ovvero le banche apprezzano la posizione di monopsonista, cioè acquirente unico,
dell’impresa industriale in quanto fattore di diminuzione del rischio di
credito, cooperando con gli industriali nello strozzinaggio ai danni degli
allevatori.
I rapporti tra capitale e lavoro
Il quadro della situazione non può ovviamente definirsi in alcun modo completo
senza che venga prestata la dovuta attenzione alla dimensione delle relazioni di
classe negli stabilimenti produttivi del gruppo Parmalat.
Qui di seguito verranno svolte alcune considerazioni parziali, in quanto
riferite al solo stabilimento di Collecchio (Parma) e tuttavia significative
poiché si tratta dello stabilimento storico dell’azienda e ancora adesso del suo
maggior sito produttivo a livello europeo.
La fabbrica di Collecchio occupa all’incirca 2000 lavoratori tra produttivi e
impiegati dei quali circa un quarto sono lavoratori precari e di cooperative
esterne. La produzione avviene a ciclo continuo, date le caratteristiche di
deperibilità dei prodotti impiegati, con un orario medio settimanale per i
turnisti di 36 ore alla settimana.
A Collecchio venivano lavorati (diciamo <venivano> poiché la ristrutturazione
del “tagliateste” Bondi porterà probabili dismissioni) 4 dei principali prodotti
dell’azienda: il latte confezionato UHT a lunga conservazione, i succhi Santal,
lo yogurth (10% circa del fatturato) e i budini.
In termini salariali e normativi, l’azienda si è sempre contraddistinta per una
politica economica accomodante che spesso ha modificato il contratto nazionale
collettivo in senso migliorativo: ad esempio i turnisti godevano di 40 minuti
mensa sulle 8 ore di turno più tre pause a turno.
Nel 1987 tuttavia la situazione di mercato non favorevole porta ad una prima
importante ristrutturazione che modifica il rapporto “fordista” 1 a 1 tra
macchina e lavoratore: si passa alle cosiddette “isole di produzione”, grazie
alle quali il workgroup di 6-7 operai si accolla la gestione di 10 macchine.
Nella ristrutturazione viene introdotto il salario per obiettivi, che comporta
una riduzione della parte fissa del salario, e in termini di orario abbiamo la
perdita di una delle 3 soste garantite ai turnisti.
Sempre per l’orario, nel 1987 viene contrattato quella che resterà negli anni
successivi la struttura dell’orario turnisti: 36 ore medie settimanali, ottenute
mediante settimane da 32 alternate con settimane da 40; la flessibilità nei
festivi è contrattata col sindacato e non prevede aumenti per il sabato, mentre
quella domenicale gode di una maggiorazione del 100%.
Tra le altre cose, è durante questa ristrutturazione che si provvede ad una
eliminazione “dolce” di una serie di lavoratori combattivi che vengono spostati
in mansioni non produttive o nell’area dei servizi.
Dal 1992 il ricorso al lavoro straordinario viene incrementato.
Una seconda ristrutturazione viene imposta nel 1998, a seguito della stagnazione
delle vendite. Non si registrano scioperi né altre forme di conflittualità a
Collecchio; sul piano nazionale vengono chiusi alcuni piccoli stabilimenti. Essa
porta all’espulsione mediante ammortizzatori sociali, ma soprattutto
prepensionamenti di circa 300 lavoratori “anziani”, nel mentre viene
incrementata la percentuale di precari di lunga durata che vengono introdotti,
stavolta non solo in produzione, ma anche nelle sfere impiegatizie: si tratta di
giovani lavoratori che vengono assunti per 10-12 mesi, licenziati e quindi
riassunti e che finiscono per gravitare nell’orbita della fabbrica per periodi
lunghi, 5,6,7 anni.
Questi lavoratori agli occhi del padronato hanno l’altra pregevole
caratteristica che rimangono a qualifiche piuttosto basse, consentendo di
risparmiare sul costo del lavoro.
Il rapporto percentuale tra lavoratori produttive e impiegati continua nel
frattempo a cambiare, in conseguenza della avvenuta internazionalizzazione del
gruppo nel corso degli anni ’90: Collecchio, pur non venendone meno il ruolo
produttivo, assume sempre più il ruolo di centro della multinazionale con la
conseguente espansione dell’area impiegatizia e dei servizi.
Da sempre in fabbrica è impiegato un consistente numero di lavoratori di
cooperative (Il Colle, Colser, Parmaservizi – fallita verso la fine degli anni
’90, lasciando circa 1 miliardo di stipendi non liquidati; era una cooperativa
del giro democristiano, sostenuta dalla CISL).
Fino al momento dello scoppio della crisi si trattava di circa 250 lavoratori e
lavoratrici, principalmente concentrati nella logistica, nelle spedizioni, e
nelle pulizie; anche in questo caso i rapporti di lavoro a Collecchio erano di
lunga durata, nell’ordine dei 3-5 anni.
Storicamente la fabbrica si è caratterizzata per un alto grado di consenso verso
le politiche di Tanzi, frutto dello stretto legame tra Tanzi e il territorio:
tutti i primi collaboratori e dipendenti sono stati individuati nella cerchia
parentale e di conoscenze dell’imprenditore, mentre lo sviluppo degli anni ’70 e
’80 ha contribuito ad alimentare la nomea di padrone buono, che ovviamente lui
stesso cercava di incentivare in ogni modo.
La politica di assunzioni era volta a favorire l’ingresso di lavoratori non
sindacalizzati, provenienti dalle zone della collina, arrivando nel corso degli
anni ’80 ad utilizzare il bacino di lavoratori della zona di Pontremoli in
Toscana, distante quasi 100 chilometri, da sempre caratterizzata da elevata
disoccupazione, tutto ciò in virtù dei buoni rapporti di Tanzi con l’allora
ministro socialdemocratico Ferri, insediato in quelle zone.
La situazione sindacale è lo specchio di tale realtà: i delegati delle RSU sono
in tutto 20 dei quali 12 eletti (6 CGIL) e 8 cooptati dall’esterno (3 della
CGIL) in virtù dei “democratici” privilegi accordati a CGIL-CISL-UIL dagli
accordi del luglio 1993. Anche se sono sempre esistiti nel passato delegati
combattivi, oggi l’introduzione del nuove figure del precariato, interinali,
contratti a tempo determinato di lunga durata ha comunque contribuito
all’indebolimento delle posizioni di classe nello stabilimento.
La mentalità concertativa instillata dai funzionari locali della triplice e
supportata da una diffusa visione apolitica e aconflittuale da parte della
maggioranza dei lavoratori ha determinato una situazione dove le pratiche di
cogestione e di concertazione del sindacato erano preminenti.
Resta da capire oggi alla luce della situazione completamente mutata, quale tipo
di resistenza la classe operaia di Parmalat sarà in grado di esprimere a fronte
dei severi tagli occupazionali che si prevedono (si parla di 900 posti di lavoro
in meno su 4000 in Italia), resistenza che non può che passare attraverso la
critica delle visioni concertative e il ritorno a forme di lotta basate sul
conflitto e sulla costruzione del potere dei lavoratori e delle lavoratrici.
Conclusioni
Come si è cercato fin qui di dimostrare il caso Parmalat è tutto meno che una
“mela marcia”: la finanziarizzazione dell’economia di questi ultimi 20 anni è il
motore immobile che crea e sorregge il campo d’azione dentro al quale l’azienda
di Collecchio ha costruito la sua fantascientifica insolvenza debitoria; la
stagnazione delle vendite tipica di un settore maturo è alla base della sfrenata
corsa all’accaparramento di marchi e stabilimenti al fine di garantirsi rendite
monopolistiche a danno dei consumatori da un lato e degli allevatori dall’altro
(con buona pace di tutti i sostenitori di destra e di sinistra dei vantaggi
delle privatizzazioni); infine i rapporti di lavoro paternalistici e improntati
alla redistribuzione salariale degli anni ’80 lasciano il campo alla
precarizzazione dei rapporti di lavoro e al contenimento salariale nelle più
svariate forme, né più e né meno come accade in tutte le fabbriche del mondo.
Per l’opinione di chi scrive, si tratta quindi semplicemente di un simbolo,
certo a tinte forti, del carattere distruttivo e fondamentalmente insostenibile
del capitalismo prossimo venturo.
Ringraziamenti:
Un grazie ad Angelo per il fattivo aiuto e la collaborazione e a Luca per i
consigli
Bibliografia:
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Note:
1) Quella di un’indebitamento a livelli di guardia è una costante della storia
Parmalat se già nel 1987, all’interno dell’ analisi del bilancio societario, la
società di revisione Hogdson Landau Brands raccomandava che “…d’ora in poi
l’intero flusso di cassa dell’azienda dovrà colmare le ingenti esposizioni
finanziarie a breve.”
La situazione 15 anni dopo non doveva essere granchè diversa, come si può
dedurre dall’incipit dell’intervista a Calisto Tanzi e al suo braccio destro
Fausto Tonna, pubblicata da Milano Finanza il 7 dicembre 2002: “Domanda:
Cavalier Tanzi, come si vive seduto su una montagna di debiti così elevata?
Tanzi: Tranquillamente e senza rischi particolari. Per evitarli la scelta è
stata semplice: stabilire una soglia da non oltrepassare e tenerla sempre
d’occhio…”(sic).
Vedi: AAVV (2004), pag. 55 e pag. 138.
2) Bardella (2004).
3) Beams (2002).
4) AAVV(2004), pag. 268-271.
5) De Cecco (1998), pag. 134.
6) Ricordiamo il livello estremamente contenuto dei tassi praticati dalle 3
principali banche centrali mondiali alle proprie banche commerciali : la Federal
Riserve americana dal giugno 2003 ha ridotto il costo del denaro all’1%, la
Banca Centrale Europea al 2%, mentre la Bank of Japan addirittura al 0,1%.
7) Realfonzo (2004).
8) Ragozzino (2004b).
9) McLaughlin (1999).
10) De Cecco (1998), pag. 60-61.
11) Giussani (2000).
12) Beams (2002).
13) “Attualmente le interconnessioni tra capitale speculativo e capitale
produttivo sono tali e tante che è impossibile dire quale realmente prevalga.
Tutte le maggiori corporations gestiscono in modo speculativo la propria
liquidità, che sovente impiegano per ricomprare dal mercato proprie azioni,
considerano alla stregua di profitti gli incrementi di prezzo del proprio stock
azionario, retribuiscono i propri dipendenti con stock options, rimpiazzano
gradualmente tecnici e manager di tipo tradizionale con esperti in ingegneria
finanziaria, alterano la propria conformazione societaria in vari segmenti allo
scopo di emettere azioni a scopo speculativo. Sono al tempo stesso attratte e
costrette a far ciò dalla tendenza al rialzo della borsa…”. Vedi Giussani
(2000).
14) Beams (2002).
15) Dati tratti da AAVV (2004), pagg. 151-157.
16) Crotty (2002), pag. 16-17
17) AGCM (1999), pag. 4.
18) AGCM (2001), pag. 10.
19) Sull’espansione internazionale di Tanzi, su cui per ragioni di spazio qui non
ci si dilunga, va comunque notata la singolarità del fatto che essa avviene in
Sud America e non in Europa: “Per poter crescere e cercare margini di
redditività superiori Parmalat si era sempre più impelagata nei mercati
emergenti, il che comportava un grado di rischio di business nettamente
superiore. In Europa la penetrazione era stata modesta (…) Nel vecchio
continente il gruppo di Tanzi non possiede la massa critica per sfidare le
grandi multinazionali: In Germania il fatturato stagna intorno ai 50 miliardi di
lire e la maggior parte del business è generata dalla vendita dei prodotti a
base di pomodoro con marchio Pomì. In Spagna le vendite non superano i 2
miliardi di lire. Quote modeste per un gruppo multinazionale.” In AAVV (2004),
pag. 76.
20) La più grande centrale del latte pubblica italiana, privatizzata dal sinistro Rutelli.
Da tenere presente che la Centrale di Roma è il principale soggetto del mercato
laziale, che “…rappresenta il più importante mercato regionale del latte fresco,
in quanto assorbe circa il 20% del latte fresco complessivamente consumato in
Italia.” Vedi AGCM (1999), pag. 8
21) AGCM (2001), pag. 3.
22) Rotondo (2003).
23) AGCM (1999).
24) AGCM (1999).
25) Osservatorio sul mercato dei prodotti lattiero-caseari (2003), pag. 20.
26) Da Il Sole 24 ore, Latte salta l’intesa sul prezzo, 24 dicembre 2003. E’
evidente che l’esistenza di un accordo nazionale sul prezzo del latte serve a
tutelare quegli allevatori con minor potere contrattuale.
27) Stefanelli (2004).