SENZA CENSURA N.14

GIUGNO 2004

 

Anche il prato verde può incendiarsi...

A proposito di Melfi, ristrutturazione Fiat, neo-concertazione.

 

Melfi e l’indotto
Quando 10 anni fa la Fiat, utilizzando denaro pubblico con la scusa degli investimenti nelle zone di crisi del paese, aprì lo stabilimento di Melfi, sperava di realizzare un contesto produttivo che, per organizzazione del lavoro, tecnologia e assenza di conflitto sociale potesse rappresentare nel panorama industriale, non solo italiano, un modello avanzato.
Con una politica che venne definita del “prato verde” la Fiat selezionava i lavoratori persino su base psicologica per cercare di eliminare quei soggetti che sembravano più inclini ad organizzarsi sindacalmente e politicamente, mettendo in atto forme di intimidazione verso chiunque osasse criticare l’operato dell’azienda. Avevano studiato, ingegneri e psicologi, una composizione degli operai, una disciplina, una forma di rappresentanza sindacale tali da impedire ogni manifestazione di conflitto aperto. Gli operai erano scelti con cura, raccolti da tanti paesi per renderne difficile il collegamento, in una zona ad alta disoccupazione per fare agire su di loro il peso dell’esercito industriale di riserva.
Negli ultimi anni i provvedimenti disciplinari, molti fino al licenziamento, erano diventati migliaia, addirittura novemila negli ultimi due anni. Per lungo tempo l’unico sindacato ammesso a Melfi era il Fismic, un “sindacato giallo” pagato direttamente dalla Fiat.
Osservato con attenzione dalla concorrenza, studiato nei dettagli dagli esperti di organizzazione del lavoro, il “nuovo modo di fare l’automobile”, introdotto a Melfi, si è basato fin dall’inizio su tre caratteristiche principali: la presenza dei fornitori nelle immediate vicinanze della linea di montaggio; il cosiddetto “just in time”, cioè il meccanismo che permette di costruire direttamente le vetture in funzione del cliente finale, abolendo di fatto il magazzino e infine l’organizzazione della fabbrica per squadre omogenee di operai e tecnici, battezzata con la sigla UTE (Unità Tecnologica Elementare).
Nelle UTE, dove il capo si chiama coach e dove la retribuzione è legata in parte ai risultati, si lavora su più turni per sei giorni alla settimana. “Uno scambio classico – disse all’epoca Tiziano Treu, poi diventato ministro del Lavoro – tra flessibilità nelle mansioni e nella retribuzione contro una maggiore partecipazione”. L’indotto di primo livello dello stabilimento di Melfi è composto di 23 aziende associate al Consorzio ACM (Auto Componentistica Meridionale), più altre due societa’, Fenice e FDM, che occupano nell’insieme circa 3.200 addetti. Ai 5.100 addetti della Sata, si devono inoltre aggiungere altri mille addetti delle società terziarizzate (Magneti Marelli, Arvil, Fenice, Ppg e Gesco). Si tratta dunque di circa 9.500 addetti, senza considerare quelli occupati nei servizi indiretti che portano il totale degli occupati del sito a circa 10 mila.
L’indotto è composto da aziende nazionali ed internazionali; molte di queste hanno rapporti di fornitura esclusiva con il gruppo Fiat, ad esempio la Lear e la Valeo, la prima per i sedili, la seconda per i cablaggi, o la Johnson Controls per i rivestimenti interni. Sin dai primi anni, le aziende dell’indotto hanno fornito componenti anche per gli altri stabilimenti del gruppo. La stessa Sata, attraverso le unità di stampaggio e lastratura, fornisce parti della carrozzeria (fiancate, cofani e portelloni) alla Fiat di Termini Imerese e Mirafiori.
I rapporti di fornitura tra le aziende dell’indotto di Melfi e gli stabilimenti del gruppo si sono rafforzati in particolare negli ultimi anni, sia per la riduzione del numero di auto prodotte in questi stabilimenti, sia per il vantaggio, in termini produttivi, offerto dalle aziende dell’indotto Sata. Ulteriori commesse sono venute, inoltre, dall’Alfa di Pomigliano, dalla Fiat di Cassino e dalla Sevel di Val di Sangro. Sono solo due le aziende che hanno anche produzioni per gruppi diversi da Fiat (Mubea, Osl).
In questo contesto, si sono rafforzate le relazioni produttive con il resto del gruppo Fiat e questo ha accentuato lo snodo strategico dell’indotto di Melfi rispetto al resto degli stabilimenti meridionali. La conferma è data proprio dal fatto che delle 23 aziende del consorzio ACM, 17 hanno rapporti di fornitura, in alcuni casi rilevanti, con il resto degli stabilimenti Fiat (1).
La lotta dei lavoratori di Melfi, iniziata proprio dall’indotto, ha messo a nudo un punto debole della Fiat. In una organizzazione del lavoro portata ai massimi livelli di efficienza produttiva, senza scorte di magazzino per non avere spese fisse di impianto e capitali immobilizzati, il blocco di Melfi si ripercuote a catena su tutta la filiera produttiva Fiat. “Ce ne siamo accorti in anticipo, bastava sentire quelli della Lear”, sostenevano alcuni operai di Mirafiori.
Nel meccanismo oliato del just in time, tutto deve funzionare alla perfezione. La Lear lavora con quattro ore di anticipo sulle linee di Mirafiori. Quando la Lear si è fermata, Mirafiori ha fatto altrettanto. Mancano le staffe delle portiere e il blocco dell’alza cristalli elettrico. Parti minime, piccoli dettagli: nell’area di Torino ci sono decine di aziende dell’indotto auto in grado di costruirle. Ma conveniva senz’altro realizzarle a Melfi, nell’indotto della piana di S. Nicola prima del 19 aprile 2004, quando il prato verde si è incendiato.

Segnali di rottura
Commentando i dati relativi al settore metalmeccanico per il 2003, il direttore generale di Federmeccanica, Roberto Biglieri, osservava: “Con riferimento al fattore lavoro si registra un ulteriore flessione dei livelli occupazionali nelle imprese metalmeccaniche con oltre 500 addetti e un incremento del ricorso alla cassa integrazione guadagni. Nei primi otto mesi dell’anno il numero degli addetti è sceso del 3,2% (con una perdita di 13.000 posti di lavoro), mentre le ore di cig sono cresciute mediamente dell’ 86,5%. Al minor ricorso alla cassa ordinaria (-7,7%), si è contrapposto un forte utilizzo di quella straordinaria (+284%). Un dato che si spiega in larga parte con la vicenda Fiat”.
Tra gli elementi messi in luce dal direttore generale di Federmeccanica, tali da non lasciar presagire una ripresa per la fine di quell’anno, c’era il Costo del Lavoro per Unità di Prodotto (CLUP). Un indicatore in Italia ancora molto elevato nei confronti degli altri paesi UE: “ma è proprio sulla base di questi indicatori – afferma Biglieri – che si misura la capacità competitiva”. In effetti la “flessibilità salariale” (stipendi più bassi) è stata una delle condizioni-chiave per mettere insieme contributi pubblici e investimenti privati. In realtà, rispetto al comparto dell’auto europeo, lo spostamento delle produzioni verso i paesi dell’Est è ormai un dato strutturale per le grandi case, come la Volkswagen (Repubblica Ceca e Ungheria), il gruppo Peugeot-Citroen (Repubblica Ceca e Slovacchia), la Renault (Romania) e la stessa Fiat (Polonia). Il costo del lavoro è una variabile determinante per la sopravvivenza sul mercato. Bastano pochi numeri per mettere a fuoco il problema. In Germania il salario lordo di un operaio si aggira sui 3.300 euro al mese, in Italia tocca i 2.500 euro, mentre in Polonia precipita a 530 e nella Repubblica Ceca a 494. In generale il monte salari copre il 10% dei costi di un’auto.
Con queste cifre è chiaro che le industrie si muovono su margini ristretti. Melfi nacque come alternativa a uno stabilimento dell’Est ma a seguito del piano di ristrutturazione, presentato dalla Fiat nell’ottobre del 2002, apparve chiara l’impossibilita’ di escludere lo stabilimento di Melfi, con il suo indotto di primo livello, dalle conseguenze di una contrazione dei volumi produttivi degli altri stabilimenti. L’incremento del ricorso alla cig ordinaria e straordinaria rappresentò, per molte aziende dell’indotto, un’indicazione evidente della situazione di crisi determinata dalla riduzione dei volumi produttivi, in particolare di Mirafiori e Cassino (2).
L’ennesimo piano di ristrutturazione presentato dalla Fiat alla fine di giugno 2003 confermò i già evidenti problemi di tenuta dei livelli occupazionali delle aziende dell’indotto di Melfi. Alla concentrazione della produzione automobilistica italiana nel Mezzogiorno si accompagna una crescente esposizione produttiva al di fuori dei confini nazionali, come in Polonia. Sembrano concretizzarsi antichi timori della Fiom, ovvero che l’azienda stia progressivamente alleggerendo la sua struttura produttiva per favorire l’acquisto di Fiat Auto da parte di General Motors.

L’affare GM
L’accordo tra Fiat e General Motors del 2000 prevedeva l’acquisizione da parte di GM del 20% della Fiat Auto, con una opzione d’acquisto obbligatoria su richiesta fiat (put) da parte di GM del restante 80% a partire dal 2004 (3). Poi a maggio 2002 ecco la doccia fredda della “rivelazione” dell’ enorme debito Fiat e l’inizio della negoziazione con le banche creditrici, che termina a fine luglio con un “patto anticrisi” che prevede la cessione da parte di Fiat di una serie di asset e un prestito fortemente condizionato. Il patto deve consentire alle banche esposte di “accompagnare” la Fiat sino al momento in cui eserciterà il put, cioè cederà il settore auto alla GM (4).
La Fiat comincia a pressare la GM perchè anticipi l’opzione di put che dovrebbe esercitare dal 2004. La Fiat vuole liberarsi del settore auto che trascina verso il basso il resto del gruppo: il presidente Paolo Fresco dichiara al Wall Street Journal che la questione della cessione alla GM non è ”se” ma “come, quando e a che prezzo”.
Negli ambienti governativi, intanto, comincia ad essere ventilata l’idea di un’entrata dello Stato nel capitale Fiat insieme alle banche creditrici e alla stessa GM. Dal canto suo GM dichiara che eventuali cambiamenti di controllo in Fiat farebbero decadere immediatamente l’opzione di acquisto. Accelerare l’acquisto, del resto, non sarebbe conveniente per GM: perchè gestire in prima persona una dolorosa ristrutturazione quando la Fiat può ben fare il lavoro sporco?
Inoltre GM non ha interesse che lo Stato entri nel capitale, sa bene che questo avverrebbe solo dando come garanzia la non chiusura di stabilimenti considerati non produttivi.
La recente scomparsa di Umberto Agnelli, il passaggio di consegne al neo-presidente di Confindustria Montezemolo, l’avvicendamento nel ruolo di amministratore delegato tra Morchio e Marchionni coincidono con proclami di rilancio del settore auto: la famiglia Agnelli, che inizialmente puntava ad una vendita totale del pacchetto, afferma che sarà inutile forzare una vendita se la controparte è contraria; la ricapitalizzazione di Fiat Auto seguita da una raffica di cessioni (tra cui Toro Assicurazioni e Fiat Avio, per citare solo le più rilevanti) e il previsto lancio di nuovi modelli sembrerebbero andare in questa direzione, che comunque non esclude l’ipotesi di tagli al personale o chiusura di stabilimenti, nell’ottica di “mettere ordine nel gruppo”.

Gli altri interessi dellla FIAT
La Fiat Auto aveva 130.000 dipendenti nell’80, calati a 90.000 a metà anni ‘80, poi a 50.000 a inizio dei ‘90 (12.000 quadri e impiegati vennero buttati fuori tra il ’93 e il ’94) per arrivare ai 36.000 di oggi. Tutto ciò corrisponde alla scelta di mantenere l’azienda in una china di “produttiva decadenza”: di non investire, ma di ridurre le spese all’osso, un’operazione di spolpamento dell’azienda per ricavarne risorse. Mentre disinvestiva nell’auto, Fiat, tramite IFI e IFIL acquisiva altrove, ad esempio nel settore cartario con AWA, societa’ che produce carte autocopianti o nel settore saccarifero tramite la Francklin Roosvelt.
Nel settore della grande distribuzione, che rappresenta il 10% del portafoglio, la Fiat è presente con Auchan in Rinascente, con circa 450 punti di vendita diretti e quasi 700 affiliati in Italia. Nel settore bancario e finanziario (18% del portafoglio) abbiamo San Paolo-IMI e Permal Group che, assieme a Worms, si occupa di fondi di investimento.
Nel settore turistico-alberghiero (5% del portafoglio) Alpitour, insieme a Francorosso e Viaggidea, è il primo tour operator in Italia. C’è poi Club Med, in realtà appena ceduto, assieme ad Exor (gli alberghi Novotel, Sofitel, Ibis).
Nel settore della new economy esiste una partecipazione al 50% in Ciaoholding che sviluppa l’e-commerce ed altri servizi professionali.
Rilevanti anche le partecipazioni nel settore della telefonia tramite l’alleanza in Atlanet con la controllata Telexis e nel settore elettrico con Montedison, controllata da Fiat con il 24,6%.
Non mancano investimenti nel settore ferroviario (vedi Alta Velocità) e in quello militare.
Tutti investimenti che a differenza del settore auto producono utili: un particolare che a suo tempo fece affermare ai lavoratori del comitato di lotta torinese che “per fare male al padrone” era necessario non il blocco degli stabilimenti Fiat, ma quello delle aziende del gruppo che producono utili e consenso. Non scioperi nelle fabbriche da chiudere ma nei punti strategici del ciclo produttivo.

Il blocco di Melfi e l’accordo
“Spero e mi auguro, e questo è anche responsabilità delle Rsu e della Fiom, di comprendere quando e come riorientare questa forma di lotta. E’ evidente che non si può andare avanti per un tempo infinito con un blocco della produzione che serve certo a dare una spallata ma non è la forma con cui ti proponi di gestire una lotta che ha caratteristiche nuove” (G. Epifani - dal Sole 24 ore - 25 aprile 2004).

Caratterizzata da 21 giorni di blocco pressochè totale della produzione e delle merci ed estremamente partecipata, la lotta degli operai di Melfi pone come obbiettivo il miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro e la battaglia contro la repressione in fabbrica: in questo caso gli operai non sono soggetti passivi che si muovono in quanto costretti dalla perdita del posto di lavoro. Una lotta offensiva dunque, contro la quale sono stati messi in campo tutti i possibili strumenti di controllo: i sindacati gialli – Fim, Uilm e Fismic che hanno firmato un accordo – farsa per dividere gli operai e fermare la lotta con il risultato che i loro iscritti, tranne qualche delegato, si sono schierati con gli operai ai picchetti.
La stampa e la televisione alternavano oscuramento a informazioni che dipingevano masse di operai moderati succubi di una minoranza ostinata e violenta. Infine la repressione aperta, sfociata nelle cariche della polizia. Le manganellate hanno avuto però un effetto contrario a quello voluto: da quel momento stesso la presenza degli operai ai picchetti è diventata molto più numerosa. Il blocco di Melfi aveva a quel punto determinato la paralisi dell’intero gruppo Fiat; l’ultima a chiudere era stata l’FMA di Pratola Serra.
Morchio incontra a Roma i giornalisti e dichiara che c’è una svolta: la Fiat si gioca la carta Fiom. La Fiom nazionale è diventata di colpo l’interlocutore necessario, l’unica in grado di smobilitare i blocchi. Ed effettivamente nei giorni successivi tutta l’azione dei vertici Fiom era volta a smorzare gli animi, a giocare il classico ruolo del “pompiere”. E’ un fatto che quando Rinaldini si è presentato giovedì 29 all’assemblea indetta ai cancelli cercando di convincere gli operai a togliere i picchetti e proponendo di passare ad una forma di lotta alternativa, l’assemblea permanente, è stato duramente contestato dai lavoratori e ha dovuto accettare che lo sciopero continuasse ad oltranza.
E’un fatto che nelle battute conclusive della trattativa si è accettato di riportare il tavolo a Roma, invece di mantenerlo a Melfi (5).
E’ un fatto che durante tutta la lotta protagonisti sono stati gli operai e i delegati combattivi, ma al momento di trattare hanno riavuto voce, attraverso la convocazione di tutta la RSU, anche i sindacati gialli, con il risultato che la firma dell’accordo è passata dall’intera RSU ai vertici nazionali dei sindacati rappresentativi.
Raggiunta un’ipotesi di accordo, le direzioni della Fiom, nazionali e locali, hanno posto tassativamente che si dovesse entrare prima al lavoro e poi votare sull’accordo, usando gli stessi argomenti di Fim e Uilm, per togliere rappresentatività ai lavoratori in lotta ai presidi. Il messaggio generale di chiusura della lotta, di rientro al lavoro e di ratifica, solo a posteriori, di un accordo già nei fatti firmato, viene fatto passare dalla Fiom, utilizzando anche l’argomento della stanchezza dei lavoratori, dopo venti giorni di sciopero. L’accordo sottoscritto a Roma è il risultato di queste circostanze.
Orientativamente la maggioranza dei lavoratori presenti all’assemblea del dopo-accordo valutava le cose ottenute come sostanziali passi in avanti, ma certamente questo era unito ad una generale insoddisfazione rispetto alla portata della lotta.
Molto poco si è ottenuto sul versante dei provvedimenti disciplinari, non essendo affatto chiaro che funzioni avrà la commissione di verifica dei provvedimenti e quale controllo su di essa avranno i lavoratori: forte è il rischio che la fabbrica continui ad essere gestita peggio di una caserma.
E’ stato grave estromettere dalla trattativa la questione fondamentale dei ritmi e carichi di lavoro imposti dal Tmc2; nulla si è ottenuto sull’equiparazione normativa delle turnazioni che a Melfi contengono il lavoro notturno, il sabato lavorativo e la domenica parzialmente lavorativa. Anche l’equiparazione salariale agli altri stabilimenti, scaglionata com’è nel tempo, è tutta da verificare.

Verso una neoconcertazione?
L’esperienza di Melfi si colloca a ridosso di una scadenza fondante per il settore metalmeccanico: il congresso anticipato della Fiom, giustificato da un’evidente accelerazione della Cgil verso un nuovo patto sindacale unitario basato sulla rivalutazione e sul rilancio dell’ipotesi concertativa.
L’accelerazione unitaria ha tappe importanti, quali l’accordo sui contratti d’inserimento (che fa cadere l’atteggiamento d’indisponibilità della Cgil verso la legge 30), l’accordo sul trasporto locale e l’accordo sul CCNL dell’artigianato (che di fatto aprono verso un nuovo modello contrattuale che riduce il peso del contratto nazionale a favore di un maggiore sviluppo e peso della contrattazione decentrata e territoriale).
Infine l’assemblea nazionale Cgil-Cisl-Uil del 10 marzo scorso che di fatto ha avviato il percorso per riaffermare (e riformare) l’ipotesi concertativa: la mancanza di piattaforme e di strategie concrete su pensioni, politiche industriali, privatizzazioni rivela in realtà un’operazione di celebrazione della ritrovata unità, i cui veri contenuti saranno definiti nei ristretti incontri di segreteria, con un occhio attento alla nuova Confindustria di Montezemolo ed un altro alla necessità di dare una spalla sindacale ai sacrifici ed ai tagli che comunque un eventuale governo di centrosinistra dovrà realizzare.
La convergenza con cui i confederali stanno procedendo su questa strada poggia ovviamente sulla particolarità della fase attuale. Da un lato il blocco sociale che Berlusconi e D’Amato hanno cercato di costruire sembra non reggere la profondità della crisi economica, perdendo consenso anche tra gli industriali. Dall’altro lato la stessa Confindustria, dopo essere riuscita a smontare tutto l’impianto normativo e contrattuale precedente, ha urgenza di “incassare”, rendendo stabili e strutturali le conquiste di questi anni in tema di modello contrattuale, flessibilità e precarietà del lavoro.
L’elezione di Montezemolo e la sua disponibilità verso un nuovo modello concertativo nascono da questa necessità. Nei due documenti, alternativi tra loro, presentati al congresso anticipato della Fiom a Livorno, si sono confrontate due possibili risposte. Con il documento Nencini viene proposta una valutazione positiva in merito alla svolta neo-concertativa della Cgil; il documento Rinaldini-Cremaschi ne propone il superamento attraverso la riconquista di una maggiore autonomia della contrattazione sindacale. Forti critiche ad entrambi i documenti vengono da un documento alternativo presentato a causa di “un regolamento congressuale estremamente restrittivo” come emendamento al documento Rinaldini-Cremaschi (6): “nei documenti si spazia sui temi più svariati per poi approdare all’ennesima riproposizione di politiche concertative. La differenza è solo nelle dosi: mentre Nencini la minestra concertativa vuole farcela ingoiare tutta assieme candidandosi ad essere il principale referente di Epifani, Rinaldini vuole somministrarcela in piccole quantità. Ma la direzione di marcia è la stessa”.


Non mancano critiche ancora più dure rispetto alla linea tenuta in occasione del contratto del 2003 quando, in risposta alla firma separata di Cisl e Uil, la Fiom ha aperto le vertenze sui precontratti: “il gruppo dirigente della Fiom proponeva di riconquistare il contratto fabbrica per fabbrica, disarticolando il fronte avversario. Invece di basarsi sull’unita’ dei lavoratori, l’unico terreno su cui era possibile vincere la battaglia, si sono spinte alcune piccole e medie imprese (soprattutto dell’Emilia e della Toscana) dove la Fiom poteva contare su un radicamento maggiore, per mandarle allo sbaraglio in ordine sparso con lotte di tipo aziendale” (7).
E ancora, sulle forme di lotta: “perchè lo sciopero sia efficace è necessario inserire le mobilitazioni in una strategia che punti a colpire la controparte nei suoi punti deboli. I lavoratori sono stanchi di scioperi testimoniali e rituali (una manifestazione oggi, uno sciopero di quattro ore dopo tre mesi, un presidio tra due, ecc.). Scioperi così modulati sono assolutamente inutili, vengono proclamati con largo preavviso, il padrone si organizza e il danno che ne subisce è quasi nullo; anzi, in qualche caso ci guadagna pure (riesce a far produrre ugualmente il necessario e non paga i lavoratori durante lo sciopero). Questo non significa che il sindacato non debba convocare scioperi generali […] ma questi devono inserirsi in un contesto di mobilitazioni che mirano ad analizzare il ciclo produttivo in ogni fabbrica per colpire lì dove fa più male. […] La via da seguire è quella degli ‘scioperi selvaggi’ utilizzati efficacemente nella vertenza degli autoferrotranviari e nelle lotte metalmeccaniche di quest’autunno”.
Alla fine, ha prevalso la linea Rinaldini-Cremaschi ma la questione della rappresentanza rimane aperta. Se il recente accordo sul tele-lavoro rappresenta le “prove tecniche” di una nuova fase concertativa, non mancano segnali di continuità con l’esperienza di Melfi: la ripresa della lotta nell’indotto lucano tramite la Commer Tgs dove la dirigenza tenta di ripristinare il clima di repressione e di recuperare i giorni di lavoro persi aumentando i ritmi a dismisura, così come i recenti blocchi di otto siti produttivi alla Fincantieri con le assemblee tenute davanti ai cancelli, le vertenze ancora aperte nei settori del trasporto locale, ferroviario, aereo, i processi di privatizzazione di sanità e istruzione. Tutto ciò conferma, sul fronte interno, uno stato di “tregua armata”. Già questo autunno si potrà valutare se la parola d’ordine “fare come a Melfi”, aldilà di facili mitologie, s’imporrà tra i lavoratori come pratica diffusa.

Note:


1) Le aziende che forniscono i componenti per le Punto assemblate a Mirafiori e Termini Imerese sono: Proma Ssa, una terziarizzata della Lear (ossatura sedile); Johnson Controls (pannelli porta); Lear Operation Systems (fianchetto tre porte Punto); La.Sme (alzacristalli); Rejna (molle ad elica); CF Gomma Sud (supporto motore e tubo freno); Itca (stampati vari); Autocomponents S. del gruppo Magneti Marelli (ammortizzatori anteriori); Osl (particolari della carrozzeria); Complasint del gruppo Ergom (sportelli plancia e altri componenti in plastica); Componenti Zanini (coppe ruote); Benteler (assali). Le aziende che riforniscono lo stabilimento di Somigliano sono Mecoflex (comandi cambio), Rejna, Commer TGS (imbottiture per i sedili) Mubea (barre stabilizzatrici), Imam (particolari delle tubazioni di scarico), Complasint e Componenti Zanini. Allo stabilimento di Cassino sono destinati il modulo completo dell’alza cristalli prodotto dalla La.Sme e particolari stampati dalla Itca. Produzioni minori sono presenti anche per Lancia Lybra e Lancia Thema (Benteler, Mubea e Lear Operation).
2) Nel complesso tra Sata, aziende terziarizzate, aziende dell’indotto e di servizio, le ore di cig ordinaria sono passate dal 2001 al 2002, da 326 mila a 433 mila; l’incremento più consistente ha interessato le aziende dell’indotto: si è passati da 90 mila ore nel 2001 a 170 mila nel 2002. L’aumento delle ore di cig ha interessato soprattutto aziende come Lear, La.Sme, Smp, Valeo, Autocomponents Suspension, Benteler e Imam. Nel primo trimestre del 2003 le ore di cig sono aumentate notevolmente ma essenzialmente per effetto della chiusura dello stabilimento di Termoli, che ha causato il blocco della Sata dal 20 gennaio all’8 febbraio, per un totale di 400 mila ore non lavorate. Altre 41 mila ore hanno interessato i lavoratori della Arvil mentre le restanti 21 mila hanno riguardato Autocomponents Suspension, Valeo, Commer Tgs, Imam , Bundy, Tower e Johnson control.
3) Nell’interesse degli azionisti è stato messo a punto un “paracadute” con l’opzione put. Questo significa che in caso di difficoltà la Fiat ha il potere di mettere in vendita la restante quota di Fiat Auto. Non è invece previsto un diritto di call da parte di GM, cioè un’opzione di acquisto senza il consenso di Fiat spa.
4) Il piano anticrisi si fondava su quattro punti: impegno a ridurre da parte di Fiat, entro l’approvazione del bilancio 2002, l’esposizione finanziaria netta a 3 miliardi di euro dai 6,6 originari anche attraverso dismissioni (alcune già operate: il 40% di Europ assistance andata a Generali, la Teksid alluminio andata a Jp Morgan e al fondo Questor, il 34% della Ferrari a Mediobanca), la disponibilità a sacrificare altri asset in caso di scostamento dagli obbiettivi, cessione alle banche del 51% di Fidis (società di credito al consumo), rifinanziamento da 3 miliardi erogato subito dalle banche a garanzia di un aumento di capitale di pari importo da varare entro un triennio. Il prestito è così ripartito in milioni: 650 BancaIntesa, 625 Unicredito, 425 Capitalia, 400 SanPaolo, 300 Montepaschi, 300 Bnl.
5) Quando la trattativa a Melfi fu sospesa per la prima volta per permettere ai delegati di comunicare quali erano le proposte di mediazione della Fiat, i lavoratori li hanno rispediti indietro con la seguente risposta: “dopo la proposta dell’azienda, si è riunita l’assemblea dei lavoratori che presidiano l’area industriale: la risposta emersa in un clima di forte tensione è stata negativa. Anzi l’assemblea ha deciso di rilanciare con una controproposta così definita: l’aumento immediato deve essere pari a 2/3 del differenziale con gli altri stabilimenti e il terzo restante non deve essere vincolato ai conti aziendali. Inoltre, il premio annuo deve prevedere una 14esima di 300 euro in luglio. Entro le 14,00 di oggi, la Fiat deve darci una risposta, altrimenti intensificheremo la lotta”.
6) Il nucleo originario dei compagni che sostengono questo documento è lo stesso che si è reso protagonista nella vertenza dei precontratti e che ha contribuito alla formazione del Coordinamento dei delegati in lotta nella città di Modena e all’esemplare mobilitazione di Fincantieri. “Siamo tra quelli che il ministro Giovanardi ha chiamato in causa in un’interpellanza parlamentare con l’accusa di sabotaggio e di non rispettare la democrazia nelle fabbriche”, dicono sul testo dell’emendamento al documento Rinaldini.
7) Quello che fin dall’inizio era un pericolo di “aziendalizzazione” delle lotte e dunque di divisione del nostro fronte, anziché di quello padronale, è divenuto realtà. Come se ciò non bastasse alla fine di gennaio la direzione della Fiom ha scelto di passare dalla lotta sui precontratti a quella dei contratti integrativi, minando definitivamente ogni prospettiva di riconquista del contratto nazionale. Accordi sottoscritti anche da Fim e Uilm, che si configuravano come semplici accordi integrativi aziendali del tutto separati dalla lotta per il CCNL e che facevano anche aperture sulla legge 30, venivano additati come esempio da seguire per tutta la Fiom (ad esempio la Ducati Motor di Bologna). Si è trattato di un abbandono in sordina della linea precedente.



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