SENZA CENSURA N.14

GIUGNO 2004

 

Regolamentazione del diritto di sciopero

Percorso storico e ragioni sociali.

 

Con l’accentuarsi dello scontro sociale ed in particolare nella sfera economica e con il ritorno della lotta dei lavoratori e degli operai esplosa in maniera dirompente in questi mesi è venuta all’attenzione generale la questione delle forme di iniziativa che il movimento operaio si dà per conseguire maggiori garanzie e diritti e la risposta repressiva e di contenimento che viene attuata per rendere queste lotte meno incisive e per impedirne il loro ulteriore sviluppo. Storicamente lo sciopero è stato una delle armi principali utilizzata dal movimento operaio a cui è stata sempre contrapposta una serie di divieti e limiti.
L’azione dei lavoratori del trasporto pubblico e del trasporto aereo ha riproposto all’attualità il problema dell’esistenza di leggi che regolamentano il diritto di sciopero nei servizi pubblici, la legge 146 del 1990 modificata dalla legge 83 del 2000. Questa legge assolve la funzione di ammorbidire il conflitto capitale/lavoro spostando lo scontro a vantaggio dei padroni ostacolando il diritto di sciopero e quindi ponendo sin da principio un limite all’incisività della lotta operaia. (Col termine operaio non intendiamo solo la figura del lavoratore di fabbrica o del settore manifatturiero ma tutti coloro che sono parte del processo di valorizzazione – tecnici, lavoratori dei call-center, dei servizi collegati al lavoro produttivo ecc.).
Dopo che nel periodo fascista scioperare era vietato, con l’emanazione della Costituzione viene riconosciuto il diritto di sciopero, stabilendone l’esercizio nell’ambito delle leggi che lo regolano. In mancanza di leggi specifiche che lo regolano è stata la Corte Costituzionale a darne interpretazione giudicando la legittimità delle varie forme di lotta attuate dai lavoratori. Si verificò una particolare e contraddittoria situazione: l’affermazione costituzionale dello sciopero come diritto e la contestuale vigenza di norme penali repressive dello stesso risalenti al periodo fascista; il Codice Rocco infatti sanzionava con durezza i delitti di sciopero e serrata.
Il vuoto che in passato era stato lasciato dalla mancata emanazione delle leggi cui fa riferimento l’art.40 Cost., è stato in primo luogo riempito dalla giurisprudenza della corte costituzionale sugli artt. 330 e 333 c.p.; stabilendo che l’esercizio del diritto di sciopero non possa ledere “il nucleo degli interessi generali assolutamente preminente”. Si tratta dei limiti che la dottrina giuridica ha chiamato “limiti esterni”. La Corte con la sentenza n.31/1969 ha fatto emergere la nozione di “minimo di prestazioni “ tale da soddisfare le esigenze di salvaguardia delle “ funzioni o servizi pubblici essenziali, aventi carattere di preminente interesse generale ai sensi della Costituzione “.
Viene così introdotta dallo Stato una prima divisione del corpo operaio con l’introduzione della distinzione tra “servizi pubblici” nei quali lo sciopero poteva essere legittimamente esercitato e “servizi pubblici essenziali” nei quali lo sciopero era ancora penalmente sanzionabile.
Questo partiva dalla valutazione che le norme penali in materia di sciopero nei servizi pubblici erano sostanzialmente inapplicabili. “Infatti, essendo lo sciopero un fenomeno di massa, a esso poco si addicono sanzioni penali, come dimostra la scarsissima applicazione delle stesse financo nel periodo fascista: infliggere una sanzione penale a grandi numeri di lavoratori, quando lo sciopero ha avuto successo, serve solo a prolungare ed esasperare il danno all’utenza; se, invece, lo sciopero non ha avuto successo e, dunque, la sanzione va inflitta a pochi lavoratori, la sanzione stessa produce l’effetto di dare pubblicità all’evento e a promuovere la solidarietà del gruppo con la plausibile conseguenza che quello che inizialmente era un fallimento, si tramuti in un successo.” (G. Pera, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, Feltrinelli 1960)
E’ proprio nel momento in cui lo scontro di classe nel nostro paese andava intensificandosi e radicalizzandosi (le lotte operaie degli anni ’60) che viene posta la necessità da parte padronale di disciplinare il diritto di sciopero imponendone limiti e sanzioni sempre più efficaci e di estenderle alla più ampia tipologia di settori possibili partendo dalla regolamentazione delle astensioni dal lavoro dei dipendenti pubblici per poi estenderlo alla classe operaia. “
“...Disciplinare oggi il diritto di sciopero vuol dire attentare ad esso, aprire la porta al suo sostanziale svuotamento.Perché si è rimessa in circolazione la tesi della regolamentazione dello sciopero? Perché, evidentemente, lo sciopero è ancora un’arma valida, che si è andata affinando con il passare degli anni. Non è riuscita la Corte di cassazione un a comprimerlo con le sue sentenze antistoriche, nelle quali si è cercato di restringerlo alla pura e semplice astensione dal lavoro, di negarne le forme più comuni quali lo sciopero a scacchiera e lo sciopero a singhiozzo, di ancorarlo ad un fantomatico criterio di equilibrio tra perdita di retribuzione e turbamento dell’equilibrio produttivo dell’azienda.
Non è riuscita la Corte costituzionale ad imbrigliarlo in canoni economici rigidi. Non sono riuscite le migliaia di denunce dell’autunno sindacale a trattenere milioni cittadini dall’esercitarlo in forme organizzate, articolate, efficaci. ...... La battaglia sullo sciopero riprende in tutta la sua asprezza. Le voci autorevoli che invocano la sua regolamentazione trovano vasta eco nella stampa di proprietà industriale, che reclama la fine dell’ondata di scioperi, la messa al bando di forme di sciopero che definisce “ selvagge “, la difesa dei diritti dei cittadini compromessi dagli scioperi. Rispondiamo che, a ben guardare, lo sciopero è oggi anche troppo regolato da leggi, emanate in tempo fascista, istituzionalmente destinate ad impedire lo sciopero. Leggi non a caso mantenute in vita... ...
Quando scioperano milioni di operai, si devono fare i conti con le rigide leggi dell’economia. Certo è difficile poter affermare che la produzione deve essere salvata a tutti costi, anche al prezzo della salute dei lavoratori, della loro spersonalizzazione, della dignità della loro esistenza. Ed allora si inventa un singolare diritto lavoro. Non il diritto del disoccupato o del sotto occupato ad avere un lavoro effettivo e garantito, ma il diritto a raggiungere il posto di lavoro, da parte di chi è stabilmente occupato. Il discorso si ripete per ogni categoria che scende in sciopero.
C’è sempre un diritto prioritario. ...... Inutile concludere che lo sciopero dovrà essere soltanto quello economico, che potranno scioperare soltanto i lavoratori dipendenti, che soltanto le organizzazioni sindacali saranno legittimate a proclamarlo, che lo sciopero dovrà avere come parametro la giornata lavorativa, che saranno quindi vietate forme come quelle a scacchiera, a singhiozzo, per turno e così via. A che cosa servirebbe diversamente la proposta di regolamentazione del diritto di sciopero, se non per limitarne l’ambito, i soggetti titolari del diritto, le modalità consentite, e soprattutto per limitare il danno economico all’imprenditore? (G. Ambrosini, Attentato al diritto di sciopero, QUALEgiustizia, bimestrale 1970) In risposta all’offensiva operaia padronato e governi sviluppano una mobilitazione tesa a ridimensionare la forza e l’autonomia che la classe operaia stava sviluppando andando a colpirne le forme di lotta attuate ed i protagonisti di queste.
In un momento in cui i rapporti di forza fra classe e capitale vengono messi in discussione e dove viene esplicitata una critica radicale alle stesse organizzazioni della sinistra tradizionale ed alle burocrazie sindacali, queste rispondono aprendo la strada a nuove forme di regolamentazione del diritto di sciopero, sottraendo cosi forza e potere alle lotte operaie rilanciando il ruolo di interlocutori degli apparati sindacali.
In Italia negli anni ‘70 e ‘80 prima entrano nel dibattito politico sindacale e poi vengono praticati i grandi accordi di concertazione sociale; si passa insomma, da relazioni industriali conflittuali a relazioni partecipative; comunque, tende a restringersi lo spazio una volta occupato dalla contrattazione collettiva e dalle condizioni standard da questa determinate, soprattutto per gli aspetti salariali. Si passa dal pluralismo liberale al neo corporativismo, ma anche e a franchi ritorni al liberalismo individuale.
Il termine corporativismo può essere coniugato con attributi quali “consensuale”, certamente non può coniugarsi con l’attributo “conflittuale”. La progressiva trasformazione produttiva e lo sviluppo tecnologico portano con sé la crescita dei settori del trasporto e dei servizi con l’aumento della mobilitazione e dell’astensione dal lavoro in questi settori con forme che mettono in difficoltà le aziende. Si consuma allo stesso tempo il passaggio del sindacato confederale da organismo di lotta dei lavoratori a co-gestore dello sfruttamento e garante di interessi corporativi sposando appieno la linea della concertazione che porta il sindacalismo confederale in occasione di scioperi effettuati in alcuni settori nevralgici, primo fra tutti il settore dei trasporti, ad un progetto di autoregolamentazione dell’esercizio del diritto di sciopero. Tale dibattito trova la sua applicazione con la promulgazione del “Codice di autoregolamentazione dell’esercizio del diritto di sciopero della federazione Cgil, Cisl e Uil e della federazione trasporti Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uil trasporti: norme per tutti i settori dei trasporti pubblici” deliberato il 3 gennaio 1980, i cui cardini sono la limitazione dell’autonomia decisionale dei lavoratori che viene subordinata alle strutture sindacali nazionali di categoria; l’esclusione di alcuni periodi dell’anno (festività) dall’attuazione di scioperi; la limitazione a tutte quelle forme di scioperi articolati con l’esclusione dello sciopero ad oltranza, dello sciopero bianco e degli scioperi a singhiozzo.
Nel 1983 viene redatto il codice di autoregolamentazione detto legge quadro sul pubblico impiego e nel luglio del 1984 il codice sindacale del comparto dei trasporti diviene il Protocollo Sindacati-Aziende-Governo di regolamentazione dello sciopero.
Si apre così nella seconda metà degli anni ‘80 un dibattito sull’opportunità di emanare una legge attuativa dell’art.40 della Cost.; questa è immediatamente circoscritta all’ambito dei servizi pubblici essenziali anche se è presente la volontà di estenderla ad altri settori (in ogni caso la legge riguarda già oggi una tipologia molto ampia di lavori: da tutto il settore dei trasporti, alla sanità, alla scuola, alle poste e telecomunicazioni ecc.).
Invero nel dibattito sono confluite proposte per una legge generale di regolamentazione dello sciopero, come quella predisposta in ambienti vicini alla Federmeccanica. (Trattasi della proposta di G.Bognetti, in Costituzione, legislazione sindacati, F.Angeli, 1988, ripresa da F.Mortillaro, nel suo intervento al congresso nazionale di diritto al lavoro di Fiuggi aprile 1988). E’ evidente come la forza rappresentata dal movimento dei lavoratori in questi settori tradizionali sia stata il principale deterrente per scoraggiare l’introduzione di ulteriori limitazioni legislative al diritto di sciopero. Nei vari disegni di legge che sono confluiti nel dibattito parlamentare, un ruolo centrale era affidato ai codici di autoregolamentazione cui si voleva assicurare un’efficacia giuridica più intensa di quella che può essere loro assegnata dal diritto comune.
Questa scelta appariva quella maggiormente pro-labour, in quanto la legge -se così concepita- si sarebbe limitata a dare sostegno a norme prodotte unilateralmente dalle organizzazioni sindacali. Ma vi erano da parte governativa forti controindicazioni su una reale efficacia del passaggio a legge dei codici di autoregolamentazione. Infatti tale efficacia era (ed è tuttora) limitata ai lavoratori iscritti all’organizzazione sindacale che ha emanato il codice; inoltre, scaturendo l’obbligazione unicamente dal vincolo associativo, la sua violazione era (ed è tuttora) perseguibile solamente con improbabili sanzioni endoassociative; non si è mai, comunque, dubitato che nessun vincolo poteva scaturire in testa alle altre organizzazioni sindacali e, comunque, ai lavoratori non iscritti.
La scelta del legislatore è stata così diversa: l’autoregolamentazione ha perduto di centralità e la funzione di realizzare il contemperamento è stata conferita in primo luogo -ed essenzialmente- ad accordi collettivi il cui oggetto fosse la determinazione di prestazioni indispensabili, tali da garantire, in occasione degli scioperi, l’“effettività” del “contenuto essenziale” dei diritti della persona costituzionalmente garantiti. La soluzione trovata dal legislatore è stata quella di porre come clausola generale il principio del contemperamento e affidare alla procedura che porta agli accordi il compito di pervenire alla determinazione del punto di equilibrio tra i due valori in conflitto.
E’ pregnante la tendenza a “mantenere un rigido collegamento tra servizi essenziali e valori costituzionali”, rilevando che questa correlazione è un limite al conflitto che si sviluppa in una società industriale avanzata e una tale impostazione può portare a negare il diritto all’esercizio dello sciopero nei servizi essenziali così come questo passaggio legislativo è stato un ulteriore passo non breve verso una strisciante istituzionalizzazione dell’azione sindacale.”
Le ulteriori regole sulle modalità di proclamazione ed effettuazione dello sciopero (esperimento delle procedure di conciliazione e raffreddamento del conflitto; rarefazione soggettiva ed oggettiva delle astensioni; divieto di proclamazioni plurime; revoche tempestive e giustificate degli scioperi) intervengono non soltanto per realizzare uniformità di comportamenti nei diversi settori interessati dalla legge, ma anche e soprattutto per cercare di ripristinare le condizioni per normali relazioni sindacali, laddove l’esperimento dello sciopero dovrebbe rappresentare l’ultima ed estrema ratio, a significare gli esiti negativi di tentativi di composizione del conflitto.” (Il punto della situazione, da Guida per l’utenza allo sciopero nei servizi pubblici a cura dell’Ufficio Relazioni Sindacali, 2004).
Si possono comunque ricondurre a due i fattori principali che hanno determinato la necessità di trovare una forma repressiva istituzionale che limitasse l’agire della classe operai. In primis un ruolo considerevole l’ha giocato e lo gioca lo spostamento del baricentro del sistema produttivo nei paesi del capitalismo maturo dell’occidente dall’industria al terziario.
Effetto di tale spostamento è stata la c.d. terziarizzazione del conflitto che ha posto e pone problemi inediti e radicalmente diversi da quelli più noti e consolidati concernenti il conflitto industriale classico. Sugli effetti che le azioni di lotta provocano nei confronti degli “utenti”, i quali -loro malgrado-vengono comunque coinvolti. I pubblici poteri utilizzano in modo strumentale i possibili danni all’utenza per esasperare e dividere le diverse figure lavorative.
Tutto ciò avviene in modo minore nelle ipotesi di conflitto industriale, dove il problema degli scioperanti, caso mai, è quello di rompere il muro di indifferenza che non di rado lo circonda.
In secondo luogo è stato necessario di fronte alla resistenza operaia all’approfondirsi della crisi economica e alle trasformazioni produttive, dunque resistenza al progressivo peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita di ampi strati della popolazione, riqualificare il ruolo del sindacato confederale e/o di stato. Una delle conseguenze della crisi di rappresentatività del sindacalismo confederale era stata la formazione di piccole ma combattive organizzazioni sindacali in settori strategici dei pubblici servizi come la scuola e i trasporti, caratterizzate da una alta omogeneità dei soggetti e degli interessi rappresentati e spesso dalla loro centralità nel processo produttivo: ciò fa sì che, di frequente, l’azione di lotta abbia una portata paralizzante e molto superiore a quanto la presenza numerica potrebbe fare sperare.
Questo fenomeno si era particolarmente accentuato nella seconda metà degli anni ‘80 e di conseguenza, una parte dell’opinione pubblica si attendeva dall’emananda legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali una sorta di limitazione dell’esercizio - se non addirittura della titolarità - del diritto di sciopero. Un regalo per le organizzazioni confederali. Non è perciò del tutto improprio – come avvenne da più parti - definire questa legge come “anti-Cobas”.
La medesima dinamica si è ripetuta dieci anni più tardi per la legge di modifica della 146/90. Un ulteriore attacco al diritto di sciopero nei servizi pubblici come risposta all’aumento della conflittualità. La realtà italiana della seconda metà degli anni ’90 aveva mostrato un aumento della conflittualità dovuto in buona parte a ragioni estranee alle vertenze contrattuali, riconducendo le cause degli scioperi ai processi di privatizzazione e liberalizzazione che andavano ridisegnando il quadro produttivo, in particolare nel settore dei servizi. In una fase simile, quindi, ridurre l’incidenza delle proteste divenne una priorità del governo, che aveva fatto della liberalizzazione il cardine della politica economica del paese. E stiamo parlando dell’allora governo di centro-sinistra. Governo D’Alema che con la legge 83/2000 rende più pesanti le sanzioni per i soggetti coinvolti nello sciopero, scagliona nel tempo le astensioni dal lavoro al fine di evitare le sovrapposizioni ed il blocco dei servizi, estende la regolamentazione ad altri settori e soggetti, rafforza il potere della Commissione di garanzia.
La Commissione di garanzia si è attribuita un ruolo di primo piano nello spostare gli equilibri della legge ai danni della legittimità del conflitto; ha poi dimostrato di essere sempre più pronta a raccogliere le istanze di aziende e sindacati confederali al fine di tenere i sindacati alternativi e le Rappresentanze aziendali fuori sia dai grandi processi di ristrutturazione che dalle vertenze contrattuali. I limiti imposti poi dalla rarefazione delle astensioni dal lavoro sono mirati a togliere qualsiasi efficacia allo sciopero. Abbiamo già evidenziato nel numero 13 di Senza Censura in “Note sulla legge 146” come a fronte delle lotte degli autoferrotranvieri del dicembre/gennaio scorso,per voce del presidente della Commissione di garanzia, Antonio Martone, sia stata avanzata la proposta di ulteriori modifiche volte ad inasprire maggiormente la già deterrente legge antisciopero.
Di fondo un obbiettivo da raggiungere da parte padronale e governativa è quello della progressiva balcanizzazione del proletariato metropolitano. Per questo hanno elaborato un paradigma che oppone le “tute blu” ai “colletti bianchi” utilizzando e spiegando la legge di regolamentazione dello sciopero come una sorta di difesa (giuridica) dei primi nei confronti dei secondi.
E’ chiaramente una tesi fuorviante perché estrae da una figura storica il paradigma del conflitto “giusto” (e giusto quando non crea problemi mentre come è accaduto a Melfi ai lavoratori in lotta sono state avviate sanzioni penali) e lo applica ad altre figure e al loro modo di confliggere. Il tradizionale sciopero di fabbrica può produrre meno fastidio anzi a volte, nella storia dello sciopero nel movimento operaio, questa azione di lotta è stata circondata dalla indifferenza della popolazione. Anche per questo sempre più spesso si utilizzano azioni di blocco stradale ed il conflitto viene spostato dai cancelli della fabbrica al territorio circostante. In parte questo è anche dovuto alla mancanza o nei migliore dei casi alla limitatezza di espressioni di solidarietà da parte di altri lavoratori e cittadini.
La delegittimazione del conflitto nei servizi pubblici viene argomentata su ulteriori piani. In primo luogo, nel tradizionale conflitto industriale il problema dell’efficienza è un fatto privato dell’imprenditore, nei servizi pubblici, invece, quell’efficienza si riversa immediatamente sulla qualità della vita di larghe masse di popolazione. Così facendo si pone in essere una curiosa inversione: la scarsa efficienza dei servizi dovuta agli errori e alla latitanza della classe dirigente, si trasforma senza mediazione alcuna in un’intensificazione dei limiti alla possibilità dei lavoratori addetti al servizio in questione di auto tutelare i propri interessi, così occultando le responsabilità formali e sostanziali di chi quei servizi dirige e organizza.
E se è vero che l’intera società è in misura crescente terziarizzata, il risultato è che in misura altrettanto crescente, da un lato, i lavoratori addetti ai servizi vedono limitare la possibilità di auto tutelare i propri interessi e, dall’altro che la classe dirigente esercita su di loro un potere senza che ne venga adeguatamente esplicitata la correlativa responsabilità. Il paradosso si risolve nel fatto che il tranviere viene danneggiato due volte: una prima perché ha servizi inefficienti e una seconda perché vede profondamente limitate le proprie possibilità di auto tutelarsi in quanto lavoratore.
Un altro argomento frequentemente ripreso si fonda sull’assunto che questi lavoratori e queste lavoratrici siano in realtà dei “ privilegiati “ che irrompono egoisticamente nello scenario pretendendo chissà quanti altri privilegi. Non si può certamente dire che siano dei privilegiati gli autisti dei servizi urbani ed extraurbani in concessione, i quali sono a livello di sfruttamento ottocentesco.
Un altro luogo comune a cui si ricorre frequentemente è quello di affermare che il settore degli addetti ai servizi pubblici è il più protetto, quando invece si è quasi del tutto consumato il passaggio di questi lavoratori da pubblici dipendenti ad un regime privatistico con l’introduzione di figure precarie e l’applicazione di numerosi contratti atipici.
In conclusione diventa chiaro come la legislazione che regolamenta il diritto di sciopero è in stretta relazione con i livelli di repressione che vengono messi in atto per impedire lo sviluppo di una soggettività politica dei lavoratori ed assolve così la funzione di prevenzione del conflitto. Allo stesso tempo agisce come strumento repressivo vero e proprio attraverso tutto il sistema sanzionatorio che si erge da monito a chi rompe le regole.
Non a caso la legge ha assegnato un ruolo fondamentale alla Commissione di garanzia. “La priorità delle classi dominanti è quella di neutralizzare la saldatura dei momenti di opposizione concreta alle ristrutturazioni e privatizzazioni che stanno ridefinendo l’intero apparato produttivo, in particolare, nel settore dei servizi. La realizzazione di questi processi è il perno della politica economica del paese; un’esigenza preminente che associa il centrodestra al centrosinistra.”(Collettivo per la rete dei lavoratori, Milano, maggio 2004). In questo scenario il campo proletario si trova contrapposto agli interessi corporativi del padronato, del governo e dei sindacati di stato. Un primo terreno possibile di intervento è legato ad un lavoro di informazione e di sensibilizzazione rispetto al tema del diritto di sciopero ed allo svelamento delle ragioni che portano all’utilizzo di leggi antisciopero. Si tratta anche di sviluppare iniziative di sostegno a quei settori e/o gruppi di lavoratori che si muovono contro il quadro di regole imposto dalla legge ed iniziative in solidarietà con chi viene colpito da questa.

 

Scioperi articolati


Accanto allo sciopero mediante astensione dal lavoro continuativa e contemporanea, esistono forme particolari di lotta sindacale denominate scioperi articolati, e che comprendono sia gli scioperi a singhiozzo che gli scioperi a scacchiera.
Lo sciopero articolato è lecito a condizione che:
Indipendentemente dal danno alla produzione, non leda interessi primari istituzionalmente protetti (Cass. 28/1/1992).
Non metta in pericolo l’impresa come organizzazione istituzionale, cioè che l’imprenditore possa continuare a svolgere la sua attività economica (Cass. 28/1/1992/ n 869).
Non comporti pericoli o danni a impianti e non pregiudichi attività dell’azienda.
L’attuazione dello sciopero può essere preceduta o meno dalla comunicazione al datore di lavoro.
N.B. non esistono procedure particolari per la proclamazione di uno sciopero (v.n. 7768).

Sciopero a singhiozzo. Lo sciopero a singhiozzo ricorre quando l’astensione collettiva dal lavoro è frazionata nel tempo, e si concreta in una serie di sospensioni dell’attività lavorativa intercalate da periodi di ripresa del lavoro ed attuate contemporaneamente in tutti i reparti. Ad esempio, l’attività lavorativa viene sospesa per 30 minuti, poi si effettua una prestazione di altri 30 minuti, e così via.
In questo caso, mentre l’imprenditore subisce un danno pressoché uguale, e talvolta anche superiore a quello di uno sciopero totale, il dipendente perde una parte minima della retribuzione e quindi può, con un danno ridotto, continuare a lungo l’agitazione.
Secondo la giurisprudenza questa è una forma lecita di sciopero, indipendentemente dal danno arrecato alla produzione aziendale. I soli limiti sono posti da diritti costituzionali, quali il diritto alla vita e all’incolumità personale, la libertà di iniziativa economica, o l’integrità del patrimonio aziendale. Lo sciopero a singhiozzo diventa illecito qualora vada oltre i limiti indicati, come nel caso di pregiudizio irreparabile della produttività aziendale o duratura inutilizzabilità degli impianti (Cass. 15/7/1982 n. 8574).

Sciopero a scacchiera. Consiste nell’astensione dal lavoro praticata da più dipendenti di una stessa azienda o stabilimento in tempi diversi e non in modo unitario. Attraverso tale forma di sciopero articolato si realizza un blocco dell’attività lavorativa reparto dopo reparto, ed in tempi successivi, ad esempio fermata di un reparto a monte seguita da un’altra di un reparto a valle. Tale forma è efficace nelle lavorazioni a ciclo continuo.
Secondo la giurisprudenza questo tipo di sciopero è legittimo (Cass. 30/1/1980 n 711).

Sciopero a sorpresa. Lo sciopero a sorpresa ricorre quando l’astensione dal lavoro viene attuata all’istante, senza preventiva comunicazione al datore di lavoro.
In merito alla legittimità di tale tipologia di sciopero parte della giurisprudenza prevede che il preavviso, non essendo stato posto dalla legge per regolare il diritto di sciopero, non possa essere considerato un requisito di legittimità dello sciopero (Cass. 8/8/1987 n 6831).
Altre sentenze, invece, ritengono illegittimi scioperi senza un minimo preavviso, perché la comunicazione preventiva serve a valutare la giustificatezza della assenza dalla lavoro (Pret. Legnano 5/3/1987).
La comunicazione preventiva può essere resa necessaria da particolari esigenze dell’impresa per situazione di pericolo e di danno. Ad esempio, è illegittimo lo sciopero a sorpresa degli orchestrali nel mezzo di un concerto (Pret. di Roma 8/3/1982).
È legittima la clausola contrattuale con cui l’associazione sindacale si obbliga alla comunicazione preventiva dello sciopero (Trib. Milano 25/3/1982).

Attività strumentali. Il riconoscimento del diritto di sciopero porta all’inevitabile conseguenza che è legittimo porre in essere comportamenti strumentali rispetto allo sciopero stesso, i quali vengono tutelati dall’ordinamento giuridico.
La propaganda volta a far aderire allo sciopero tutti componenti del gruppo professionale coinvolto nell’azione sindacale.
Le pubbliche manifestazioni e cortei interni hanno lo scopo di indurre l’opinione pubblica a solidarizzare con gli scioperanti, purché non siano occasione per atti illeciti (Cass 4/2/1983 n 945).
È infine ammesso il picchettaggio, che consiste in un raggruppamento di lavoratori, dipendenti della azienda in sciopero o di altre aziende, nei pressi dei cancelli e ingressi per indurre in forma pacifica i lavoratori dissenzienti a non accedere al luogo di lavoro. Esso, però, non si deve tradurre in atti rilevanti e sanzionabili sotto il profilo penale (art 610 c.p. : c.d. picchettaggio violento).

Tratto da Speciale Dossier Sciopero,
Associazione Culturale Queimada (queimada@virgilio.it)



http://www.senzacensura.org/