SENZA CENSURA N.14
GIUGNO 2004
Regolamentazione del diritto di sciopero
Percorso storico e ragioni sociali.
Con l’accentuarsi dello scontro sociale ed in particolare nella sfera
economica e con il ritorno della lotta dei lavoratori e degli operai esplosa in
maniera dirompente in questi mesi è venuta all’attenzione generale la questione
delle forme di iniziativa che il movimento operaio si dà per conseguire maggiori
garanzie e diritti e la risposta repressiva e di contenimento che viene attuata
per rendere queste lotte meno incisive e per impedirne il loro ulteriore
sviluppo. Storicamente lo sciopero è stato una delle armi principali utilizzata
dal movimento operaio a cui è stata sempre contrapposta una serie di divieti e
limiti.
L’azione dei lavoratori del trasporto pubblico e del trasporto aereo ha
riproposto all’attualità il problema dell’esistenza di leggi che regolamentano
il diritto di sciopero nei servizi pubblici, la legge 146 del 1990 modificata
dalla legge 83 del 2000. Questa legge assolve la funzione di ammorbidire il
conflitto capitale/lavoro spostando lo scontro a vantaggio dei padroni
ostacolando il diritto di sciopero e quindi ponendo sin da principio un limite
all’incisività della lotta operaia. (Col termine operaio non intendiamo solo la
figura del lavoratore di fabbrica o del settore manifatturiero ma tutti coloro
che sono parte del processo di valorizzazione – tecnici, lavoratori dei
call-center, dei servizi collegati al lavoro produttivo ecc.).
Dopo che nel periodo fascista scioperare era vietato, con l’emanazione della
Costituzione viene riconosciuto il diritto di sciopero, stabilendone l’esercizio
nell’ambito delle leggi che lo regolano. In mancanza di leggi specifiche che lo
regolano è stata la Corte Costituzionale a darne interpretazione giudicando la
legittimità delle varie forme di lotta attuate dai lavoratori. Si verificò una
particolare e contraddittoria situazione: l’affermazione costituzionale dello
sciopero come diritto e la contestuale vigenza di norme penali repressive dello
stesso risalenti al periodo fascista; il Codice Rocco infatti sanzionava con
durezza i delitti di sciopero e serrata.
Il vuoto che in passato era stato lasciato dalla mancata emanazione delle leggi
cui fa riferimento l’art.40 Cost., è stato in primo luogo riempito dalla
giurisprudenza della corte costituzionale sugli artt. 330 e 333 c.p.; stabilendo
che l’esercizio del diritto di sciopero non possa ledere “il nucleo degli
interessi generali assolutamente preminente”. Si tratta dei limiti che la
dottrina giuridica ha chiamato “limiti esterni”. La Corte con la sentenza n.31/1969
ha fatto emergere la nozione di “minimo di prestazioni “ tale da soddisfare le
esigenze di salvaguardia delle “ funzioni o servizi pubblici essenziali, aventi
carattere di preminente interesse generale ai sensi della Costituzione “.
Viene così introdotta dallo Stato una prima divisione del corpo operaio con
l’introduzione della distinzione tra “servizi pubblici” nei quali lo sciopero
poteva essere legittimamente esercitato e “servizi pubblici essenziali” nei
quali lo sciopero era ancora penalmente sanzionabile.
Questo partiva dalla valutazione che le norme penali in materia di sciopero nei
servizi pubblici erano sostanzialmente inapplicabili. “Infatti, essendo lo
sciopero un fenomeno di massa, a esso poco si addicono sanzioni penali, come
dimostra la scarsissima applicazione delle stesse financo nel periodo fascista:
infliggere una sanzione penale a grandi numeri di lavoratori, quando lo sciopero
ha avuto successo, serve solo a prolungare ed esasperare il danno all’utenza;
se, invece, lo sciopero non ha avuto successo e, dunque, la sanzione va inflitta
a pochi lavoratori, la sanzione stessa produce l’effetto di dare pubblicità
all’evento e a promuovere la solidarietà del gruppo con la plausibile
conseguenza che quello che inizialmente era un fallimento, si tramuti in un
successo.” (G. Pera, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano,
Feltrinelli 1960)
E’ proprio nel momento in cui lo scontro di classe nel nostro paese andava
intensificandosi e radicalizzandosi (le lotte operaie degli anni ’60) che viene
posta la necessità da parte padronale di disciplinare il diritto di sciopero
imponendone limiti e sanzioni sempre più efficaci e di estenderle alla più ampia
tipologia di settori possibili partendo dalla regolamentazione delle astensioni
dal lavoro dei dipendenti pubblici per poi estenderlo alla classe operaia. “
“...Disciplinare oggi il diritto di sciopero vuol dire attentare ad esso, aprire
la porta al suo sostanziale svuotamento.Perché si è rimessa in circolazione la
tesi della regolamentazione dello sciopero? Perché, evidentemente, lo sciopero è
ancora un’arma valida, che si è andata affinando con il passare degli anni. Non
è riuscita la Corte di cassazione un a comprimerlo con le sue sentenze
antistoriche, nelle quali si è cercato di restringerlo alla pura e semplice
astensione dal lavoro, di negarne le forme più comuni quali lo sciopero a
scacchiera e lo sciopero a singhiozzo, di ancorarlo ad un fantomatico criterio
di equilibrio tra perdita di retribuzione e turbamento dell’equilibrio
produttivo dell’azienda.
Non è riuscita la Corte costituzionale ad imbrigliarlo in canoni economici
rigidi. Non sono riuscite le migliaia di denunce dell’autunno sindacale a
trattenere milioni cittadini dall’esercitarlo in forme organizzate, articolate,
efficaci. ...... La battaglia sullo sciopero riprende in tutta la sua asprezza.
Le voci autorevoli che invocano la sua regolamentazione trovano vasta eco nella
stampa di proprietà industriale, che reclama la fine dell’ondata di scioperi, la
messa al bando di forme di sciopero che definisce “ selvagge “, la difesa dei
diritti dei cittadini compromessi dagli scioperi. Rispondiamo che, a ben
guardare, lo sciopero è oggi anche troppo regolato da leggi, emanate in tempo
fascista, istituzionalmente destinate ad impedire lo sciopero. Leggi non a caso
mantenute in vita... ...
Quando scioperano milioni di operai, si devono fare i conti con le rigide leggi
dell’economia. Certo è difficile poter affermare che la produzione deve essere
salvata a tutti costi, anche al prezzo della salute dei lavoratori, della loro
spersonalizzazione, della dignità della loro esistenza. Ed allora si inventa un
singolare diritto lavoro. Non il diritto del disoccupato o del sotto occupato ad
avere un lavoro effettivo e garantito, ma il diritto a raggiungere il posto di
lavoro, da parte di chi è stabilmente occupato. Il discorso si ripete per ogni
categoria che scende in sciopero.
C’è sempre un diritto prioritario. ...... Inutile concludere che lo sciopero
dovrà essere soltanto quello economico, che potranno scioperare soltanto i
lavoratori dipendenti, che soltanto le organizzazioni sindacali saranno
legittimate a proclamarlo, che lo sciopero dovrà avere come parametro la
giornata lavorativa, che saranno quindi vietate forme come quelle a scacchiera,
a singhiozzo, per turno e così via. A che cosa servirebbe diversamente la
proposta di regolamentazione del diritto di sciopero, se non per limitarne
l’ambito, i soggetti titolari del diritto, le modalità consentite, e soprattutto
per limitare il danno economico all’imprenditore? (G. Ambrosini, Attentato al
diritto di sciopero, QUALEgiustizia, bimestrale 1970) In risposta all’offensiva
operaia padronato e governi sviluppano una mobilitazione tesa a ridimensionare
la forza e l’autonomia che la classe operaia stava sviluppando andando a
colpirne le forme di lotta attuate ed i protagonisti di queste.
In un momento in cui i rapporti di forza fra classe e capitale vengono messi in
discussione e dove viene esplicitata una critica radicale alle stesse
organizzazioni della sinistra tradizionale ed alle burocrazie sindacali, queste
rispondono aprendo la strada a nuove forme di regolamentazione del diritto di
sciopero, sottraendo cosi forza e potere alle lotte operaie rilanciando il ruolo
di interlocutori degli apparati sindacali.
In Italia negli anni ‘70 e ‘80 prima entrano nel dibattito politico sindacale e
poi vengono praticati i grandi accordi di concertazione sociale; si passa
insomma, da relazioni industriali conflittuali a relazioni partecipative;
comunque, tende a restringersi lo spazio una volta occupato dalla contrattazione
collettiva e dalle condizioni standard da questa determinate, soprattutto per
gli aspetti salariali. Si passa dal pluralismo liberale al neo corporativismo,
ma anche e a franchi ritorni al liberalismo individuale.
Il termine corporativismo può essere coniugato con attributi quali
“consensuale”, certamente non può coniugarsi con l’attributo “conflittuale”. La
progressiva trasformazione produttiva e lo sviluppo tecnologico portano con sé
la crescita dei settori del trasporto e dei servizi con l’aumento della
mobilitazione e dell’astensione dal lavoro in questi settori con forme che
mettono in difficoltà le aziende. Si consuma allo stesso tempo il passaggio del
sindacato confederale da organismo di lotta dei lavoratori a co-gestore dello
sfruttamento e garante di interessi corporativi sposando appieno la linea della
concertazione che porta il sindacalismo confederale in occasione di scioperi
effettuati in alcuni settori nevralgici, primo fra tutti il settore dei
trasporti, ad un progetto di autoregolamentazione dell’esercizio del diritto di
sciopero. Tale dibattito trova la sua applicazione con la promulgazione del
“Codice di autoregolamentazione dell’esercizio del diritto di sciopero della
federazione Cgil, Cisl e Uil e della federazione trasporti Filt-Cgil, Fit-Cisl e
Uil trasporti: norme per tutti i settori dei trasporti pubblici” deliberato il 3
gennaio 1980, i cui cardini sono la limitazione dell’autonomia decisionale dei
lavoratori che viene subordinata alle strutture sindacali nazionali di
categoria; l’esclusione di alcuni periodi dell’anno (festività) dall’attuazione
di scioperi; la limitazione a tutte quelle forme di scioperi articolati con
l’esclusione dello sciopero ad oltranza, dello sciopero bianco e degli scioperi
a singhiozzo.
Nel 1983 viene redatto il codice di autoregolamentazione detto legge quadro sul
pubblico impiego e nel luglio del 1984 il codice sindacale del comparto dei
trasporti diviene il Protocollo Sindacati-Aziende-Governo di regolamentazione
dello sciopero.
Si apre così nella seconda metà degli anni ‘80 un dibattito sull’opportunità di
emanare una legge attuativa dell’art.40 della Cost.; questa è immediatamente
circoscritta all’ambito dei servizi pubblici essenziali anche se è presente la
volontà di estenderla ad altri settori (in ogni caso la legge riguarda già oggi
una tipologia molto ampia di lavori: da tutto il settore dei trasporti, alla
sanità, alla scuola, alle poste e telecomunicazioni ecc.).
Invero nel dibattito sono confluite proposte per una legge generale di
regolamentazione dello sciopero, come quella predisposta in ambienti vicini alla
Federmeccanica. (Trattasi della proposta di G.Bognetti, in Costituzione,
legislazione sindacati, F.Angeli, 1988, ripresa da F.Mortillaro, nel suo
intervento al congresso nazionale di diritto al lavoro di Fiuggi aprile 1988).
E’ evidente come la forza rappresentata dal movimento dei lavoratori in questi
settori tradizionali sia stata il principale deterrente per scoraggiare
l’introduzione di ulteriori limitazioni legislative al diritto di sciopero. Nei
vari disegni di legge che sono confluiti nel dibattito parlamentare, un ruolo
centrale era affidato ai codici di autoregolamentazione cui si voleva assicurare
un’efficacia giuridica più intensa di quella che può essere loro assegnata dal
diritto comune.
Questa scelta appariva quella maggiormente pro-labour, in quanto la legge -se
così concepita- si sarebbe limitata a dare sostegno a norme prodotte
unilateralmente dalle organizzazioni sindacali. Ma vi erano da parte governativa
forti controindicazioni su una reale efficacia del passaggio a legge dei codici
di autoregolamentazione. Infatti tale efficacia era (ed è tuttora) limitata ai
lavoratori iscritti all’organizzazione sindacale che ha emanato il codice;
inoltre, scaturendo l’obbligazione unicamente dal vincolo associativo, la sua
violazione era (ed è tuttora) perseguibile solamente con improbabili sanzioni
endoassociative; non si è mai, comunque, dubitato che nessun vincolo poteva
scaturire in testa alle altre organizzazioni sindacali e, comunque, ai
lavoratori non iscritti.
La scelta del legislatore è stata così diversa: l’autoregolamentazione ha
perduto di centralità e la funzione di realizzare il contemperamento è stata
conferita in primo luogo -ed essenzialmente- ad accordi collettivi il cui
oggetto fosse la determinazione di prestazioni indispensabili, tali da
garantire, in occasione degli scioperi, l’“effettività” del “contenuto
essenziale” dei diritti della persona costituzionalmente garantiti. La soluzione
trovata dal legislatore è stata quella di porre come clausola generale il
principio del contemperamento e affidare alla procedura che porta agli accordi
il compito di pervenire alla determinazione del punto di equilibrio tra i due
valori in conflitto.
E’ pregnante la tendenza a “mantenere un rigido collegamento tra servizi
essenziali e valori costituzionali”, rilevando che questa correlazione è un
limite al conflitto che si sviluppa in una società industriale avanzata e una
tale impostazione può portare a negare il diritto all’esercizio dello sciopero
nei servizi essenziali così come questo passaggio legislativo è stato un
ulteriore passo non breve verso una strisciante istituzionalizzazione
dell’azione sindacale.”
Le ulteriori regole sulle modalità di proclamazione ed effettuazione dello
sciopero (esperimento delle procedure di conciliazione e raffreddamento del
conflitto; rarefazione soggettiva ed oggettiva delle astensioni; divieto di
proclamazioni plurime; revoche tempestive e giustificate degli scioperi)
intervengono non soltanto per realizzare uniformità di comportamenti nei diversi
settori interessati dalla legge, ma anche e soprattutto per cercare di
ripristinare le condizioni per normali relazioni sindacali, laddove
l’esperimento dello sciopero dovrebbe rappresentare l’ultima ed estrema ratio, a
significare gli esiti negativi di tentativi di composizione del conflitto.” (Il
punto della situazione, da Guida per l’utenza allo sciopero nei servizi pubblici
a cura dell’Ufficio Relazioni Sindacali, 2004).
Si possono comunque ricondurre a due i fattori principali che hanno determinato
la necessità di trovare una forma repressiva istituzionale che limitasse l’agire
della classe operai. In primis un ruolo considerevole l’ha giocato e lo gioca lo
spostamento del baricentro del sistema produttivo nei paesi del capitalismo
maturo dell’occidente dall’industria al terziario.
Effetto di tale spostamento è stata la c.d. terziarizzazione del conflitto che
ha posto e pone problemi inediti e radicalmente diversi da quelli più noti e
consolidati concernenti il conflitto industriale classico. Sugli effetti che le
azioni di lotta provocano nei confronti degli “utenti”, i quali -loro
malgrado-vengono comunque coinvolti. I pubblici poteri utilizzano in modo
strumentale i possibili danni all’utenza per esasperare e dividere le diverse
figure lavorative.
Tutto ciò avviene in modo minore nelle ipotesi di conflitto industriale, dove il
problema degli scioperanti, caso mai, è quello di rompere il muro di
indifferenza che non di rado lo circonda.
In secondo luogo è stato necessario di fronte alla resistenza operaia
all’approfondirsi della crisi economica e alle trasformazioni produttive, dunque
resistenza al progressivo peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita di
ampi strati della popolazione, riqualificare il ruolo del sindacato confederale
e/o di stato. Una delle conseguenze della crisi di rappresentatività del
sindacalismo confederale era stata la formazione di piccole ma combattive
organizzazioni sindacali in settori strategici dei pubblici servizi come la
scuola e i trasporti, caratterizzate da una alta omogeneità dei soggetti e degli
interessi rappresentati e spesso dalla loro centralità nel processo produttivo:
ciò fa sì che, di frequente, l’azione di lotta abbia una portata paralizzante e
molto superiore a quanto la presenza numerica potrebbe fare sperare.
Questo fenomeno si era particolarmente accentuato nella seconda metà degli anni
‘80 e di conseguenza, una parte dell’opinione pubblica si attendeva dall’emananda
legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali una sorta di limitazione
dell’esercizio - se non addirittura della titolarità - del diritto di sciopero.
Un regalo per le organizzazioni confederali. Non è perciò del tutto improprio –
come avvenne da più parti - definire questa legge come “anti-Cobas”.
La medesima dinamica si è ripetuta dieci anni più tardi per la legge di modifica
della 146/90. Un ulteriore attacco al diritto di sciopero nei servizi pubblici
come risposta all’aumento della conflittualità. La realtà italiana della seconda
metà degli anni ’90 aveva mostrato un aumento della conflittualità dovuto in
buona parte a ragioni estranee alle vertenze contrattuali, riconducendo le cause
degli scioperi ai processi di privatizzazione e liberalizzazione che andavano
ridisegnando il quadro produttivo, in particolare nel settore dei servizi. In
una fase simile, quindi, ridurre l’incidenza delle proteste divenne una priorità
del governo, che aveva fatto della liberalizzazione il cardine della politica
economica del paese. E stiamo parlando dell’allora governo di centro-sinistra.
Governo D’Alema che con la legge 83/2000 rende più pesanti le sanzioni per i
soggetti coinvolti nello sciopero, scagliona nel tempo le astensioni dal lavoro
al fine di evitare le sovrapposizioni ed il blocco dei servizi, estende la
regolamentazione ad altri settori e soggetti, rafforza il potere della
Commissione di garanzia.
La Commissione di garanzia si è attribuita un ruolo di primo piano nello
spostare gli equilibri della legge ai danni della legittimità del conflitto; ha
poi dimostrato di essere sempre più pronta a raccogliere le istanze di aziende e
sindacati confederali al fine di tenere i sindacati alternativi e le
Rappresentanze aziendali fuori sia dai grandi processi di ristrutturazione che
dalle vertenze contrattuali. I limiti imposti poi dalla rarefazione delle
astensioni dal lavoro sono mirati a togliere qualsiasi efficacia allo sciopero.
Abbiamo già evidenziato nel numero 13 di Senza Censura in “Note sulla legge 146”
come a fronte delle lotte degli autoferrotranvieri del dicembre/gennaio
scorso,per voce del presidente della Commissione di garanzia, Antonio Martone,
sia stata avanzata la proposta di ulteriori modifiche volte ad inasprire
maggiormente la già deterrente legge antisciopero.
Di fondo un obbiettivo da raggiungere da parte padronale e governativa è quello
della progressiva balcanizzazione del proletariato metropolitano. Per questo
hanno elaborato un paradigma che oppone le “tute blu” ai “colletti bianchi”
utilizzando e spiegando la legge di regolamentazione dello sciopero come una
sorta di difesa (giuridica) dei primi nei confronti dei secondi.
E’ chiaramente una tesi fuorviante perché estrae da una figura storica il
paradigma del conflitto “giusto” (e giusto quando non crea problemi mentre come
è accaduto a Melfi ai lavoratori in lotta sono state avviate sanzioni penali) e
lo applica ad altre figure e al loro modo di confliggere. Il tradizionale
sciopero di fabbrica può produrre meno fastidio anzi a volte, nella storia dello
sciopero nel movimento operaio, questa azione di lotta è stata circondata dalla
indifferenza della popolazione. Anche per questo sempre più spesso si utilizzano
azioni di blocco stradale ed il conflitto viene spostato dai cancelli della
fabbrica al territorio circostante. In parte questo è anche dovuto alla mancanza
o nei migliore dei casi alla limitatezza di espressioni di solidarietà da parte
di altri lavoratori e cittadini.
La delegittimazione del conflitto nei servizi pubblici viene argomentata su
ulteriori piani. In primo luogo, nel tradizionale conflitto industriale il
problema dell’efficienza è un fatto privato dell’imprenditore, nei servizi
pubblici, invece, quell’efficienza si riversa immediatamente sulla qualità della
vita di larghe masse di popolazione. Così facendo si pone in essere una curiosa
inversione: la scarsa efficienza dei servizi dovuta agli errori e alla latitanza
della classe dirigente, si trasforma senza mediazione alcuna in
un’intensificazione dei limiti alla possibilità dei lavoratori addetti al
servizio in questione di auto tutelare i propri interessi, così occultando le
responsabilità formali e sostanziali di chi quei servizi dirige e organizza.
E se è vero che l’intera società è in misura crescente terziarizzata, il
risultato è che in misura altrettanto crescente, da un lato, i lavoratori
addetti ai servizi vedono limitare la possibilità di auto tutelare i propri
interessi e, dall’altro che la classe dirigente esercita su di loro un potere
senza che ne venga adeguatamente esplicitata la correlativa responsabilità. Il
paradosso si risolve nel fatto che il tranviere viene danneggiato due volte: una
prima perché ha servizi inefficienti e una seconda perché vede profondamente
limitate le proprie possibilità di auto tutelarsi in quanto lavoratore.
Un altro argomento frequentemente ripreso si fonda sull’assunto che questi
lavoratori e queste lavoratrici siano in realtà dei “ privilegiati “ che
irrompono egoisticamente nello scenario pretendendo chissà quanti altri
privilegi. Non si può certamente dire che siano dei privilegiati gli autisti dei
servizi urbani ed extraurbani in concessione, i quali sono a livello di
sfruttamento ottocentesco.
Un altro luogo comune a cui si ricorre frequentemente è quello di affermare che
il settore degli addetti ai servizi pubblici è il più protetto, quando invece si
è quasi del tutto consumato il passaggio di questi lavoratori da pubblici
dipendenti ad un regime privatistico con l’introduzione di figure precarie e
l’applicazione di numerosi contratti atipici.
In conclusione diventa chiaro come la legislazione che regolamenta il diritto di
sciopero è in stretta relazione con i livelli di repressione che vengono messi
in atto per impedire lo sviluppo di una soggettività politica dei lavoratori ed
assolve così la funzione di prevenzione del conflitto. Allo stesso tempo agisce
come strumento repressivo vero e proprio attraverso tutto il sistema
sanzionatorio che si erge da monito a chi rompe le regole.
Non a caso la legge ha assegnato un ruolo fondamentale alla Commissione di
garanzia. “La priorità delle classi dominanti è quella di neutralizzare la
saldatura dei momenti di opposizione concreta alle ristrutturazioni e
privatizzazioni che stanno ridefinendo l’intero apparato produttivo, in
particolare, nel settore dei servizi. La realizzazione di questi processi è il
perno della politica economica del paese; un’esigenza preminente che associa il
centrodestra al centrosinistra.”(Collettivo per la rete dei lavoratori, Milano,
maggio 2004). In questo scenario il campo proletario si trova contrapposto agli
interessi corporativi del padronato, del governo e dei sindacati di stato. Un
primo terreno possibile di intervento è legato ad un lavoro di informazione e di
sensibilizzazione rispetto al tema del diritto di sciopero ed allo svelamento
delle ragioni che portano all’utilizzo di leggi antisciopero. Si tratta anche di
sviluppare iniziative di sostegno a quei settori e/o gruppi di lavoratori che si
muovono contro il quadro di regole imposto dalla legge ed iniziative in
solidarietà con chi viene colpito da questa.
Scioperi articolati
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