SENZA CENSURA N.14
GIUGNO 2004
La “Politica de Seguridad Democratica”
Un salto di qualità della repressione in Colombia.
A quasi due anni dall’insediamento dell’attuale presidente colombiano, Alvaro
Uribe Vélez, è possibile e doveroso fare un bilancio, ancorché parziale dal
punto di vista temporale, della sua amministrazione.
Prima, però, è importante fare una premessa, generica ma di riferimento
irrinunciabile: Uribe, oltre a rappresentare gli interessi più diversi (ma
convergenti) dell’oligarchia colombiana, è espressione e conseguenza della
proiezione imperialista e neo-coloniale della Casa Bianca in Colombia e in
America Latina, come dimostrato dall’appoggio e dal controllo totali messi in
campo in questi due anni dagli USA, che scommettono su di lui per “risolvere” il
problema della guerriglia. Ricordiamo che Uribe è l’autore materiale di questa
nuova, e forse definitiva, fase del Plan Colombia, segnata dall’escalation
dell’intervento militare nordamericano nel paese andino sotto forma di un
“nuovo” piano-operativo militare, il “Plan Patriota”. Questo si caratterizza per
il tentativo di estendere la presenza militare in aree storicamente controllate
dalle FARC-EP, nella fattispecie il sud, mediante un offensiva con 20.000
effettivi (più o meno corrispondenti ad una divisione) nell’ex area
smilitarizzata del Caguán, con la pretesa, continuamente dichiarata ma mai
materializzata, di catturare almeno uno dei sette membri del Segretariato dello
Stato Maggiore Centrale dell’organizzazione insorgente. A dispetto della
campagna massiccia di disinformazione mediatica in corso, tesa a mostrare
presunte vittorie a ripetizione delle forze governative, guidate ed addestrate
da migliaia di ufficiali e mercenari USA, i risultati di questo operativo
attualmente in corso parlano un’altra lingua: da febbraio vi sono stati, solo
nell’area meridionale precedentemente menzionata, 263 combattimenti, 326 soldati
morti e 420 feriti e 7 elicotteri da guerra messi fuori combattimento, mentre i
guerriglieri caduti sono 11 e i feriti 19.
Tutto ciò s’inserisce all’interno di uno sforzo economico di guerra
impressionante da parte dello Stato e dei suoi apparati, equivalente a più del
4,5 % del Prodotto Interno Lordo colombiano. Si tratta, evidentemente, di una
vera e propria politica, chiamata provocatoriamente “sicurezza democratica”, che
ha tre punti-cardine. A livello economico, il compimento del processo -iniziato
nel ’90- di privatizzazioni totali e deregolamentazione del mercato del lavoro,
all’insegna delle politiche di aggiustamento strutturale che nella fase attuale
spianano la strada all’entrata della Colombia nell’ALCA, sotto forma di un
Trattato di Libero Commercio bilaterale con gli Stati Uniti in procinto di
essere siglato. Sul piano militare, oltre a quanto detto in margine al Plan
Patriota, i puntelli sono quelli di una re-ingegneria militare di tutti i corpi
delle Forze Armate, l’innesto continuo di nuovi armamenti e tecnologia di
guerra, la moltiplicazione delle basi militari ed il riassorbimento dei gruppi
paramilitari all’interno di una rete spionistica e di sicurezza che, negli
intenti del ministero della Difesa, dovrebbe raggiungere il milione di membri.
Sul piano politico, oltre al coinvolgimento definitivo nel Plan Colombia
dell’Ecuador di Gutiérrez, che dovrebbe giocare, secondo i piani del South Com
del Pentagono, il ruolo di “incudine” contro l’insorgenza su cui batterebbe il
“martello” delle forze speciali colombiane, la “seguridad democratica” si è
articolata in funzione della costruzione di un partito uribista, grazie anche
alle misure di “ristrutturazione” istituzionale ed all’accentramento del potere
nelle mani dell’esecutivo, oggi pienamente intento a far passare una modifica
costituzionale che permetterebbe a Uribe di essere rieletto alla fine del suo
mandato.
Nel quadro complessivo delineato fin qui, e che indubbiamente richiederebbe
molti più approfondimenti che non è possibile proporre in questo breve articolo,
s’inserisce la questione, sempre più complessa ed al contempo fondamentale,
della prigionia politica quale condizione che migliaia e migliaia di colombiani
si trovano a dover affrontare.
La “seguridad democratica”, di fatto, ha dato e dà un impulso all’estensione ed
alla generalizzazione della categoria di “nemico interno”, figlia diretta della
Dottrina della Sicurezza Nazionale che, fin dal secondo dopoguerra, ha
caratterizzato la politica USA in America Latina e non solo. Tale dottrina,
all’epoca elaborata e strutturata nei manuali d’addestramento per gli eserciti
del sub-continente e nei lineamenti politico-strategici dei governi
latinoamericani, è sempre stata contraddistinta dalla logica geo-politica dei
“conflitti di bassa intensità” tra apparati statali controllati da Washington ed
opposizioni interne. La suddetta estensione è, in definitiva, quella di
considerare come “nemico interno” non solo i movimenti guerriglieri e
rivoluzionari, ma anche quei settori dell’opposizione politica, del movimento
operaio, del movimento sindacale, contadino, studentesco e più in generale
sociale che mettevano e mettono in discussione lo stato di cose presente, nel
caso della Colombia il regime politico, l’oligarchia da esso rappresentata, i
settori militaristi ed il modello economico.
In più, possiamo affermare che la “seguridad democratica” si spinge oltre,
estendendo ulteriormente ed indiscriminatamente questa repressione, cosiddetta
“preventiva”, anche nei confronti delle potenziali o reali basi sociali
dell’opposizione.
Retate di massa, in stile nazista, come quelle avvenute nel Magdalena Medio e
nel dipartimento di Arauca, in cui centinaia di persone sono state letteralmente
marchiate a fuoco, sono solo una delle dimostrazioni di come questa politica
metta in campo, senza ritegno né risparmio di forze, la strategia della “terra
bruciata”. Come denunciato dal Comitato colombiano di Solidarietà con i
Prigionieri Politici, solo tra il settembre 2002 e il dicembre 2003 sono state
arrestati, a colpi di oltre 20 detenuti per volta, più di 6000 colombiani, molti
dei quali incarcerati per il solo fatto di risiedere in zone di conflitto come
le Zone Teatro di Guerra, decretate l’anno scorso dal governo e chiamate
ipocritamente “zone di riabilitazione e consolidamento della democrazia”.
Da una parte, dunque, il tentativo di distruggere alla radice il radicamento
sociale dell’opposizione guerrigliera e popolare colombiana, al di là del fatto
che spesso viene colpito anche chi non ha vincoli diretti ed organici con essa.
Dall’altra, di riflesso, l’aumento delle contraddizioni e delle lotte nelle
carceri colombiane, su cui, pur non avendo la pretesa di essere esaustivi in
questo articolo, proponiamo alcuni ragionamenti e spunti di riflessione.
Il primo, inevitabilmente, è collegato al fenomeno, sempre più grave e
drammatico, del sovraffollamento dei penitenziari un po’ in tutto il paese,
senza differenze sostanziali a seconda dell’ubicazione delle prigioni, siano
esse in aree metropolitane o rurali. Secondo dati ufficiali dell’INPEC (Istituto
Nazionale Penitenziario Colombiano) del febbraio 2004, vi sarebbero 63.523
persone incarcerate, di cui 27.146 ancora in attesa di esser processate. Tenendo
conto della capienza delle carceri colombiane, che ammonta complessivamente a
47.913 persone, il sovraffollamento totale e del 32,58 %, con casi limite del
180 % come quello di Medellin, in cui vi sono 4.966 detenuti in un carcere con
possibilità di contenerne 1800, o quello di Villahermosa, con 5000 detenuti a
fronte di una capienza di 2000.
Una seconda dinamica, che si sta affermando nell’ambito del Plan Colombia, è
quella bicefala denunciata a più riprese: da un lato, il passaggio del
controllo, dei regolamenti interni e dell’organizzazione spaziale, tecnologica e
di annientamento dei prigionieri politici e di guerra nelle mani degli Stati
Uniti del Nordamerica, come nel caso del Carcere di Massima Sicurezza di
Valledupar. Dall’altro, cosa collegata a quanto abbiamo appena detto, le
privatizzazioni delle prigioni con tutto quello che ne consegue. E’ evidente
che, nella misura in cui la fascistizzazione del regime ad opera dell’uribismo
si va affermando, la necessità di innalzare gli strumenti di annientamento dei
prigionieri politici si fa ogni giorno più impellente.
Infine, però, è imprescindibile sottolineare quell’insieme di risposte, da parte
non solo dei prigionieri di guerra e di quelli politici ma anche del movimento
popolare colombiano, che si moltiplicano giorno dopo giorno.
In diverse carceri del paese, il Ministero degli Interni (accorpato da Uribe a
quello della Difesa) non solo non è riuscito a mantenere l’isolamento come modus
operandi di annichilimento dei prigionieri, ma non è stato in grado nemmeno di
imporre il controllo militare-spaziale all’interno dei perimetri. Caso
emblematico è quello del carcere Modelo di Bogotá, in cui un intero braccio
(circa la metà del totale) è controllato “militarmente” dalle Forze Armate
Rivoluzionarie della Colombia, FARC-EP, ivi organizzate con oltre 200
combattenti come un vero e proprio Fronte guerrigliero, che conduce attività
economico-lavorative, formazione quadri e politica, addestramento militare e
lavoro di massa; sintomatico è il fatto che, grazie ai rapporti di forza imposti
dalle FARC nella Modelo, le guardie, i paramilitari e l’esercito non siano in
grado di entrare in questo braccio.
In molti altri penitenziari del paese, tanto maschili quanto femminili, vi sono
lotte e scontri militari molto frequenti, così come tentativi di fuga (a volte
riusciti a volte no) supportati da operativi guerriglieri dall’esterno.
Anche i prigionieri politici non facenti parte delle organizzazioni guerrigliere
si stanno organizzando a partire da quelle che sono le condizioni concrete di
detenzione in cui sono obbligati a vivere, e, oltre a una miriade di lotte
prigione per prigione, hanno recentemente fatto un importante salto di qualità,
lanciando la Campagna nazionale ed internazionale contro gli arresti arbitrari e
di massa “P’lante Colombia”, al fine di strutturare la lotta sul piano interno,
nelle carceri come al di fuori di esse, e sul piano internazionale, con azioni
ed iniziative concrete che mobilitino l’opinione pubblica, i giuristi e
possibili delegazioni che vadano a visitare i prigionieri politici per rompere
la cortina fumogena di silenzio che i media di regime cercano di intensificare.
In conclusione, se per il regime uribista la situazione nelle carceri
rappresenta lo sbocco repressivo sul breve periodo, è indubbio che, a mo’ di
boomerang, a medio termine essa costituisca un vulcano con evidenti prospettive
di eruzione. Anche in questo senso, è più attuale che mai la parola d’ordine
della Campagna “P’lante Colombia”, e cioè che “se il carcere è legge, la
resistenza sociale è giustizia!”
Ass. Nazionale Nuova Colombia
[nuovacolombia@yahoo.it]