SENZA CENSURA N.14
GIUGNO 2004
Tra il Grande Middle Est e gli interessi europei nel Mediterraneo
Gli interessi Usa nel Mediterraneo non nascono oggi, e il lungo braccio della
Nato e del Dialogo Mediterraneo hanno rappresentato, e continuano a
rappresentare, lo strumento per sviluppare la sua egemonia nell’area. Di questo
possiamo trovare conferma nelle evoluzioni che il processo di integrazione
mediterranea ha subito negli ultimi anni, ritrovando ulteriore vitalità a fronte
delle contraddizioni sviluppatesi in relazione alla gestione politico militare
del conflitto palestinese, afghano e in Irak.
La politica americana ha reso ulteriormente difficile la gestione, da parte dei
governi fantoccio dell’area, dei normali equilibri nei confronti degli Usa e
della loro politica di aggressione. Se già la pesante repressione del Popolo
Palestinese aveva risvegliato un sentimento di rivalsa nei confronti degli Usa,
la guerra in Irak e il forte valore “ideologico” della capacità della Resistenza
Irachena di opporsi all’invasione della macchina bellica più potente del
pianeta, ha sicuramente generato un ulteriore passaggio in avanti nella
creazione di una identità collettiva, che, al di là della direzione attuale o
dell’interesse propagandistico di ricondurla unicamente a caratteristiche
religiose, sicuramente si fonda su un sentimento antiamericano e
antimperialista.
Ma parallelamente ad un sentimento “popolare”, da quanto si può vedere,
osserviamo lo sviluppo di una borghesia araba e islamica che, a fronte delle
contraddizioni stesse, tende a voler assumere un ruolo di non più totale
subordinazione al dominio occidentale. Una lettura che non possiamo dare come
definitiva, ma certo una tendenza che i fatti stessi paiono dimostrare.
Gli stessi governi dei paesi arabo mediterranei stanno sempre più sviluppando
tra loro progetti di cooperazione, che se da una parte possono essere letti come
normali processi di concentrazione che caratterizzano questa fase, dall’altra
possono essere visti come strumenti autonomi di gestione dei loro interessi.
Potrebbe rappresentare un esempio significativo in questo senso l’accordo che
vuole essere stipulato per trasportare gas dall’Egitto alla Turchia e ai paesi
arabo mediterranei. Un progetto da 1,5 miliardi di dollari dal nome “Trans
Mashrek pipeline”.
La mancata presenza di molti paesi arabi al G8 di Sea Island, le critiche al
piano Bush del Grande Middle Est, possono rappresentare un ulteriore tassello,
così come avvenuto nello sviluppo del polo europeo, di un tentativo di autonomia
delle borghesia arabo islamiche. Non certamente uno scontro, ma una
rinegoziazione del loro ruolo all’interno della gerarchia della “catena
imperialista”. Ma anche il fronte arabo si vede spaccato sulla posizione da
adottare nei confronti dell’”amico americano”. Un esempio può essere
rappresentato dal fallimento della Lega Araba di Tunisi e dalle “alleanze” che
si sono create all’interno dello stesso mondo arabo. Le posizioni sul piano
americano di riforme hanno sicuramente determinato questo passaggio che vede il
crearsi di una alleanza tra Tunisia, Libia, Algeria e Marocco, tra Egitto,
Arabia Saudita e Siria, senza dimenticarsi l’alleanza di “paesi moderati arabi”
che include lo Yemen, il Qatar e il Sudan.
Teniamo a precisare che l’utilizzo del termine “medio oriente” non vuole essere
un adeguamento ad una categoria o ad una area geopolitica definita tale
dall’imperialismo ma una scelta di “comodo” essendo di uso comune..
Nel mese di Dicembre il Segretario di Stato Usa Collin Powell annunciò il lancio
della Middle East Partnership Initiative e lo stanziamento di 29 milioni di
dollari per il sostegno economico al progetto di riforma dell’area. Questi vanno
ad aggiungersi al miliardo di dollari stanziati annualmente. I finanziamenti
dovranno servire anche all’assistenza tecnica per lo sviluppo della piccola e
media impresa nello Yemen, Arabia saudita, Algeria e Libano.
L’iniziativa Usa, secondo Powell, si fonda su tre pilastri principali:
- ridurre le differenze economiche attraverso riforme, sviluppare il settore
privato, favorire gli investimenti,
- sviluppare riforme politiche
- aumentare il livello di educazione scolastica e culturale
Powell ha affermato che il Governo americano lavorerà al fine di avviare riforme
nei paesi coinvolti nella Middle Est Initiative in modo da sviluppare un sistema
economico e finanziario che attragga capitali stranieri e impedisca la loro
fuga.Verrà istituito un Fondo per lo Sviluppo del Middle Est sul tipo della
Banca per lo Sviluppo Europea.
Secondo il governo americano il progetto consentirà ai paesi aspiranti ad
entrare nel WTO, come Yemen, Libano, Arabia Saudita e Algeria, di disporre di un
supporto tecnico e politico per completare quanto necessario ad entrare nella
“economia globale”.
Ulteriori sviluppi “positivi”, continua l’intervento, si verificheranno nella
accelerazione dei progetti di realizzazione di una Free Trade Area tra gli Usa e
i Paesi coinvolti, così come avviene già con la Giordania ed è in via di
definizione con il Marocco, con l’ambizione di riprorre tali obiettivi con
l’Egitto e il Bahrain.
Il progetto viene definito come un momento storico per la politica estera
americana.
Il primo visibile obiettivo, secondo gli stessi analisti, è proteggere gli
interessi Usa, e le premesse non garantiscono la soluzione ai problemi che sono
alla base di questa esigenza.
Quello che appare è una guerra combattuta con altri mezzi: la volontà Usa è
quella di utilizzare un sistema di penetrazione “a bassa intensità”, visti i
risultati poco incorraggianti della “campagna irachena” che sta estendendo a
macchia d’olio la “zona di insicurezza” per la politica imperialista Usa e non
solo.
Il progetto non si limita all’area mediterranea ma ha l’obiettivo di coinvolgere
i paesi di una area che va dal Nord Africa, all’Asia centrale, all’Arabia
Saudita, al continente Sub Indiano. Un’area di “democrazia” dove veder garantiti
gli interessi americani.
Come più volte affermato il ruolo della Turchia è fondamentale in questo
processo e sebbene si siano registrate accune divergenze nei rapporti con gli
Usa, questo non significa che la Turchia non continui ad assumere il ruolo di
“servo/garante”, insieme ad Israele, dell’imperialismo Usa nell’area.
Il documento individua in Algeria, Tunisia e Marocco i potenziali partner per
garantire la sicurezza nell’area e funzionare da spinta propulsiva per le
riforme economiche e politiche proprie del piano di penetrazione Usa.
Il progetto americano per un “Great Middle East” deve però scontrarsi con
l’opposizione di alcuni paesi arabi e, non certo ultima per importanza, di parte
della stessa popolazione, e dunque, come ricaduta conseguente, con lo sviluppo
di focolai di protesta all’interno degli stessi paesi.
Le possibilità di controllo da parte dei governi sulle scelte
politico-economiche e il conseguente interesse a negoziare i contenuti del Piano
Usa da parte di alcune delle borghesie dell’area, sta sviluppando un notevole
fermento politico, in particolare all’interno della Lega Araba.
Nel mese di marzo Arabia Saudita ed Egitto hanno steso una proposta dal nome “A
Pledge and A Declaration to the Arab Nation” allo scopo di far assumere ai paesi
arabi una posizione comune nei confronti del progetto Usa, cercando di mediare
le resistenze presenti. In particolare viene contestata la tesi che tale
progetto rappresenti una ingerenza negli affari interni dei paesi coinvolti,
titolari delle scelte da un punto di vista economico e politico.
Il tentativo del documento è quello di far passare come necessità il confronto
con il progetto americano in funzione di “far giocare al Popolo Arabo il proprio
ruolo nello scacchiere mondiale” e di consentire “lo sviluppo della
civilizzazione attraverso l’interazione con il resto del mondo”.
Tuttavia lo stesso Segretario Generale della Lega Araba Amr Moussa ha confermato
l’impossibilità attuale di rispondere unitariamente alla proposta americana date
le profonde divergenze esistenti.
Egitto, Kuwait e Arabia Saudita sono favorevoli ad una trattativa sulle riforme
con gli Usa e gli altri paesi occidentali, purchè tengano conto degli interessi
arabi. Siria, Libano e Yemen hanno espresso la volontà di rifiutare il piano
perchè lo considerano una inteferenza nei loro interessi. Da parte del Bahrain e
del Qatar si evidenzia una certa cautela, rimandando di fatto il giudizio alla
verifica sulla reale portata del progetto stesso.
Per alcuni dei governi fantoccio dell’imperialismo, l’obiezione sta più nella
forma che nella sostanza, richiamando gli Usa a cercare un maggiore
coinvolgimento delle parti interessate nella definizione del piano di
intervento. Una sorta di “concertazione imperialista”.
Nel frattempo il sosttosegretario Usa agli Affari Esteri Marc Grossman si è
recato in Marocco, Giordania, Egitto e Bahrain per sponsorizzare il progetto
Usa, definendolo “la possibilità di eliminare quelle disparità con i paesi
occidentali nelle condizioni di vita e le sacche di povertà che sono alla base
dello sviluppo del terrorismo”. Ma anche in questo caso il giudizio da parte dei
paesi in questione è stato nella maggioranza dei casi di ostilità.
Secondo la Siria, per bocca del suo Vice Presidente Abdel-Halim Khaddam, questo
progetto rappresenta un ritorno al passato coloniale, alla situazione pre Prima
Guerra Mondiale, dove la politica dei paesi occidentali si caratterizzava da una
spartizione tra loro delle risorse e territori.
Anche il Ministro degli Esteri Sudanese ha posto obiezioni al progetto,
dichiarando “che le riforme imposte dall’esterno sono destinate a fallire se non
vengono pensate all’interno di una partnership chiara”.
Durante il Meeting informale dei Ministri degli Esteri Arabi al Cairo nel marzo
di questo anno, precedente al “posticipato” summit della lega Araba che avrebbe
dovuto tenersi a Tunisi tra la fine dello stesso mese e i primi di Aprile, è
stato evidenziato chiaramente il tentativo di alcuni paesi arabi di far passare
la linea di confronto con gli Usa sul progetto, insieme al tentativo di non far
apparire le riforme in atto in alcuni paesi come un “allineamento” ai dettami
Usa. Il rappresentante giordano ha infatti dichiarato che la Giordania ha già da
tempo, precedentemente al progetto Usa di Great Middle East, intrapreso riforme
economiche e politiche, come peraltro Egitto e Kuwait.
Viste le premesse, i timori per la sicurezza Usa non sono infondati. Alla metà
del mese di marzo circa 200 uomini delle truppe speciali Usa sono state inviate
in Mauritania, Mali, Chad e Niger a protezione degli interessi americani. Con
Marocco, Algeria e Tunisia è stata ulteriormente rafforzata la cooperazione
militare ed in particolare per quanto riguarda l’antiterrorismo. Secondo alcune
fonti pare che le truppe americane siano già intervenute al confine tra il Ciad
e il Niger contro persone sospettate di appartenere al Gruppo Salafita per la
Predicazione e il Combattimento algerino.
Le intenzioni americane si comprendono chiaramente dalla scelta di voler
costruire una base militare sull’isola di Cipro. Una base che dovrebbe svolgere
una funzione di rafforzamento della presenza Usa nel Mediterraneo, ma che
soprattutto rende disponibile una “rampa di lancio” per le azioni in Nord Africa
e nel Middle Est. La base infatti dovrebbe avere le carattersitiche proprie
delle basi costruite in Asia Centrale, con una presenza di truppe a rotazione
pronte a ricevere eventuali contingenti necessari alle operazioni militari. La
base consentirebbe maggiore flessibilità, secondo fonti locali, per quanto
riguarda la difesa degli interessi petroliferi nel Mar Caspio, in Asia Centrale
e nel Middle East.
Francia e Germania, pur plaudendo alla iniziativa americana e ad una
collaborazione transatlantica in merito, hanno congiuntamente evidenziato
differenze all’approccio che tale intervento deve prevedere. Definisce
chiaramente distinte le modalità di approccio della Ue da quelle intraprese da
Washington e che in futuro potranno essere assunte in quadro Nato. Il documento
richiama gli Usa ad una maggiore collaborazione tra Usa-Ue e Middle Est nella
realizzazione delle riforme nella “regione”, criticando l’approccio unilaterale
degli Usa che potrebbe portare ad un generale rifiuto di tale iniziativa. Il
documento, assunto dalla Ue come base per la propria politica nell’area,
focalizza l’attenzione su alcuni punti chiave:
- gli stati coinvolti devono partecipare alla definizione delle riforme
necessarie e alla definizione della loro applicazione
- ogni iniziativa deve tenere conto delle differenze tra i vari stati in termini
di cultura, religione, ecc.., senza nessuna stigmatizzazione dell’Islam che
rischierebbe di creare un clima di avversione da parte della popolazione
- qualsiasi iniziativa deve comprendere i paesi Mediterranei, del Middle est e
del Gulf Cooperation Council, e costruita all’interno di quanto già esistente
(Processo di Bracellona e European Security Strategy)
- le riforme devono riguardare l’economia, ma anche tutte le sfere della vita
sociale
- le riforme dovranno consentire la realizzazione di ulteriori accordi e
collaborazioni in quadro Nato, Ue, Onu e gli altri organismi finanziari
internazionali.
- è necessario rinvigorire il processo di pace per la Palestina
La scommessa degli analisti europei è la preferenza da parte dei paesi coinvolti
nella Middle Est Initiative dell’approccio dell’imperialismo europeo,
considerato meno “invasivo” di quello americano, data la sua capacità di non
porre al centro unicamente l’azione politica come frutto del rapporto di forza
derivante dalla capacità militare, rendendo meno complicata la gestione stessa
delle ricadute delle politiche economiche e finanziarie nei singoli paesi e
garantendo maggiore “spazio” alle borghesie o potentati dell’area.
Sono molti i paesi che oramai vivono la Ue come una alternativa agli Usa, ad
esempio la Siria, con cui la Ue ha da tempo accordi di cooperazione, e con la
quale gli Usa vorrebbero riallacciare rapporti di scambio.
Le differenze e l’approccio della Ue nei confronti del piano americano devono
essere quindi ricercate all’interno delle differenze della gestione della
propria politica di penetrazione.
Secondo uno studio del German Institute for International and Security Affairs,
l’esempio più chiaro può essere rappresentato dall’atteggiamennto nei confronti
dell’Iran. Per gli Usa la Repubblica Islamica dell’Iran si colloca tra gli stati
canaglia; da parte Europea l’Iran viene visto come un partner “complesso” ma
ritenuto tra i paesi con maggiore pluralismo politico, definendo “il progetto di
democratizzazione come un processo non lineare e complesso, marcato da passi
indietro e temporanei stop”. A differenza degli Usa, la Ue viene considerata
come portatrice di una politica più mirata a creare strutture di cooperazione
bilaterale creando un terreno di maggior confidenza e possibilità di gestione
delle contraddizioni.
Un esempio portato dallo studio è la possibilità di applicare una strategia, per
quanto riguarda la “soluzione” del “problema iracheno”, secondo uno schema 6+4+1
dove siano rappresentati i 6 paesi confinanti con l’Irak, il cosiddetto Middle
East “Quartet” (Usa, Ue, Russia e ONU) e il neonominato governo iracheno, allo
scopo di prendere decisioni sul futuro iracheno e sugli interventi da operare.
La concezione americana, prosegue lo studio, si basa principalmente sul proprio
vissuto di personalizzazione della politica in una figura e il suo ruolo di
decision-maker, a differenza di una Europa che protende maggiormente verso al
creazione di strutture bilaterali per le decisioni.
Quindi, al di là del fallimento formale della “proposta”, se così possiamo
chiamarla, o meglio la difficoltà a trovare il giusto equilibrio all’interno
della catena imperialista, come all’interno della riunione del G8 di Sea Island,
nella sostanza vediamo che la “politica” non è differente tra i due blocchi.
La sostanza delle critiche al progetto Usa vanno quindi ricercate all’interno
degli interessi che la Ue si sta giocando in Nord Africa e in tutta l’area
mediterranea e mediorientale, e come molte volte evidenziato, in competizione
con la politica Usa, in particolare da parte di quella borghesia europea poco
incline a sottostare silenziosa alla “direzione imperialista” americana.
La Ue nel mese di Aprile ha “elargito”, all’interno del programma MEDA,
finanziamenti per 34,5 milioni di euro per Marocco, Algeria, Egitto, Giordania,
Libano, Siria, e Tunisia.
Pochi giorni prima è stato dato giudizio positivo sugli stanziamenti del Meda
Regional Financial Plan 2004 per Algeria, Siria e Libano, che dovrebbero
destinare 37 milioni di euro per l’Algeria, 18 milioni per il Libano, e 53 per
la Siria. La prima parte del Financial Plan 2004 (circa 78 milioni di euro) sono
già stati destinati a migliorare le possibilità di investimento e la struttura
finanziaria nel quadro della Partnership Euromediterranea. Sempre per questo
anno sono stati finanziati progetti per quanto riguarda la gestione delle coste
(circa 15 milioni di euro) e per la realizzazione del Mediterranean Satellite
Navigation Project (GNSS) e del SAFEMED Project for Cooperation on Maritime
Safety per circa 4,5 milioni, da aggiungere ai 15 milioni per altri progetti
“minori”.
Le dichiarazioni di Francia e Germania, successivamente assunte dalla Ue, sulla
autonomia delle proprie scelte in merito alle decisioni di Washington e Nato,
non si fondano semplicemente su supposizioni o prospettive.
Abbiamo più volte affrontato il ruolo della Nato come braccio Usa e del suo
ruolo nella penetrazione americana nel Mediterraneo.
Tale ruolo viene confermato dal suo coinvolgimento, comunque possibile, nel
progetto di Great Middle Est.
In preparazione del vertice Nato di Istambul del mese di Giugno 2004, la
diplomazia Usa sta svolgendo un gran lavoro per arrivare a determinare un più
largo consenso possibile al proprio progetto. Ma secondo alcune fonti
governative francesi la “Istambul Initiative” rischia di non trovare consensi in
quanto sembra contenere quanto già criticato all’interno del “Great Middle Est”.
Dai documenti Nato emerge chiaramente la volontà americana di condizionare le
scelte che verranno ufficializzate al vertice di Istambul verso una totale
sovrapposizione a quelle previste dalla Middle East Partnership Initiative.
Secondo quanto riportato “l’espansione del Dialogo Mediterraneo ai paesi della
regione interessati dal progetto, sulla base dell’esperienza del Partner for
Peace, potrebbe consentire di costruire le basi certe per la realizzazione di
uno spazio di sicurezza e libertà”. Il PfP consentirebbe inoltre, da parte dei
paesi terzi, di non doversi obbligatoriamente confrontare con una alleanza
organica e quindi con una partecipazione ufficiale nella Nato. Tale forma
potrebbe, sempre secondo le stesse fonti, consentire di limitare le
contraddizioni, visto la idea diffusa tra le masse popolari arabe e islamiche
che l’entrata nella Nato rappresenterebbe una ulteriore ingerenza e controllo da
parte degli Usa. Utilizzare quindi un un intervento di basso impatto, ma che
nello stesso tempo garantisca la creazione di rapporti bilaterali stabili in
termini di sicurezza e cooperazione militare.
La riuscita dell’intervento Nato in Afghanistan rappresenta, secondo gli stessi
documenti, un banco di prova sulla possibilità del suo utilizzo futuro
nell’area.
La eventuale riuscita Usa in Irak potrebbe rafforzarla.
Ma quello di cui non parlano le loro “carte” è di ciò che può indebolire questo
processo. Se è fondamentale conoscere, capire, informare, questo non può
esimerci da individuare il terreno pratico verso cui indirizzare il risultato
delle nostre valutazioni. Le soggettività più avanzate del movimento contro la
guerra si trovano obbligate a definire il loro campo di azione per il futuro,
davanti ad un opportunismo che continua a collocare le contraddizioni su un
piano arretrato di prospettiva, sempre imbrigliata nelle maglie del capitale e
dei suoi interessi. La nostra prospettiva, davanti a questo panorama, è tutta
interna alla capacità di cogliere le potenzialità di internazionalizzazione
della nostra azione, sganciandoci dal rituale “scadenzismo politico”, senza per
questo non parteciparci nei modi e negli obiettivi autonomamente determinati, ma
intervenendo, all’interno di uno scambio reciproco e militante, nei confronti
degli interessi fondamentali alla base delle attuali politiche imperialiste,
siano esse ad opera di Usa o Ue.
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