Dal carcere di Bollate
Un contributo su privatizzazione e resistenza.
Lettera letta durante la serata di dibattito
sul carcere svoltasi a Milano all’ORSO (Officina Resistenza SOciale),
durante la quale è stata presentata Senza Censura.
Cari amici, innanzi tutto vogliamo ringraziarvi perché con queste inziative
riportate il carcere, con le sue problematiche, al centro dell’attenzione, e
salutare tutti i presenti.
Speriamo, con questo scritto, di riuscire a dare un contributo concreto al
dibattito che probabilmente ne seguirà.
Premettiamo che non accenneremo agli aspetti inquietanti che assumerebbe il
pianeta carceri con l’ingresso del privato (concorrenza e rincorsa al
ribasso, con conseguente abbassamento del livello di vita dei detenuti,
leggi sempre più giustizialiste e scalata repressiva, a causa dell’aumento
di richiesta di mano d’opera per l’azienda carcere, ecc.), perché crediamo
che le persone a cui ci stiamo rivolgendo ne siano già informate, ed abbiano
formato la propria coscienza critica in anni di lotte contro altre campagne
di privatizzazione.
Pertanto cominceremo dal perché parlare di privatizzazione penitenziaria,
quando da parte del governo ci sono stati solo timidi accenni a questo
argomento.
La risposta è semplice! Dobbiamo guardare alla privatizzazione come ad un
processo a medio termine, che sta buttando nell’oggi le proprie basi.
Pensiamo alle scuole, alla riforma Moratti, ai finanziamenti andati alle
private; pensiamo alle varie aziende pubbliche, cui sono subentrati capitali
privati, ecc. Non si può certo parlare di privatizzazione in senso globale,
ma è solo l’inizio del percorso che rende evidente l’intento.
Anche le carceri hanno preso la stessa strada, e i segnali che elencheremo
di seguito sono solo la punta dell’iceberg.
Torniamo un po’ indietro nel tempo, al giugno 2001, quando Berlusconi nomina
ministro di Grazia e Giustizia il leghista Roberto Castelli: non un esperto
giurista, ex magistrato o avvocato, ma un ingegnere. Pensiamo già questo sia
un chiaro segnale di come questo governo intenda amministrare la
“giustizia”.
Infatti, sempre Castelli inizia un programma di edilizia penitenziaria con
una formula nuova: l’ingresso di capitali privati. Un percorso che ricalca
in toto il modello americano: è Ronald Reagan, nel 1988, allora Presidente
Usa, a dare l’avvio alla privatizzazione del sistema penitenziario
americano, guarda caso proprio con l’entrata di capitali privati nella
costruzione di nuovi impianti.
Da lì il passo è breve: si concederà in seguito, oltre la costruzione, anche
la gestione, non solo della popolazione detenuta, ma anche di quella fuori
con misure restrittive della libertà.
Un altro segnale significativo arriva da una prima sperimentazione di
privatizzazione, ovvero la cessione di un carcere solo per tossicodipendenti
a Castelfranco, alla comunità di Muccioli.
Possiamo solo immaginare come gestirà il carcere la famiglia Muccioli, che
già in passato è stata sulle pagine di cronaca per violenze nei confronti
degli utenti; che ha costruito la propria ricchezza sul lavoro non
retribuito dei tossicodipendenti, ma questo è un altro discorso, che
meriterebbe comunque di essere approfondito; porterebbe tesi interessanti a
vantaggio di chi è contrario alla privatizzazione penitenziaria, elementi
eloquenti con cui combatterla.
Poi c’è l’aspetto più ideologico della privatizzazione che coinvolge anche
le direzioni più attente alla condizione dei detenuti, più critiche nei
confronti dell’istituzione carcere. I continui rimandi, di queste direzioni,
ad una gestione carceraria di tipo aziendale, avallano interpretazioni
strumentali di chi vede nel carcere una fonte di ricchezza, un contenitore
di risorse umane più sfruttabile di altri perché più ricattabile.
La tendenza alla privatizzazione è deducibile anche dal viaggio di studio
del Presidente del Consiglio nelle carceri private cilene, e le sue
conclusioni positive.
Bene, preso atto che la strada intrapresa è questa, che fare?
Non crediamo sia il caso di mettersi a difendere le carceri dello Stato, nel
tentativo di frenare l’avvento del privato. Questo forse lo si può fare per
le scuole, le aziende… ma la galera non ha davvero nulla di difendibile! Un
carcere è sempre un carcere, indipendentemente dalla gestione.
I detenuti delle carceri italiane vivono oltretutto una condizione a dir
poco aberrante: il cosiddetto indultino è risultato inutile per risolvere,
anche solo in parte, il problema del sovraffollamento e all’oggi sono ancora
troppi i detenuti che si trovano in sei in celle di dieci metri quadrati; i
tagli alla sanità penitenziaria, attuati da Tremonti con il benestare di
Castelli, hanno drasticamente ridotto le possibilità di cura, già precarie,
dei detenuti (carenza di farmaci, di visite specialistiche, ecc.); la
stragrande maggioranza delle strutture sono ormai obsolete, dei veri e
propri ruderi.
Di fronte ad una situazione disastrosa è facile trovare il consenso della
popolazione detenuta che vede nella privatizzazione la possibilità di vivere
una carcerazione più dignitosa. E non è comunque facile, anche con dati
concreti riguardanti i paesi che già vivono questa esperienza, distoglierli
da questa convinzione.
Di fronte a tutto ciò, pensiamo che l’unica modalità di lotta al privato
penitenziario sia riappropriarci di alcune parole d’ordine.
Sergi Onesti in un suo artiolo su Libertaria scrive: “Abbattere il carcere
non è pertanto una provocazione intellettuale per evidenzialre le
irrazionalità del sistema penitenziario e del suo meccanismo di
abbrutimento. E’ invece l’unica scelta etico-culturale capace di
fronteggaire l’attuale montata giustizialista”. E noi aggiungeremmo che è
anche l’unico modo per fronteggiare l’avanzata privatistica.
Un muro non è che un muro; può e deve essere abbattuto. Non si tratta però
di dare l’assalto alle carceri e tirare giù strutture che immancabilmente
verrebbe riedificate, ma rimettere al centro dell’attenzione questa
problematica. Combattere le condizioni disumane in cui vivono i detenuti
oggi, significa costruire una coscienza critica attorno a questo argomento,
perché un giorno si possa davvero parlare di una società senza galere.
A presto in libertà.
Alcuni detenuti del carcere di Bollate
Bollate, 6 febbraio 2004 |