SENZA CENSURA N.13

FEBBRAIO 2004

 

Editoriale

 

Anche questo numero di Senza Censura riesce ad arrivare in diffusione rispettando grosso modo i tempi di edizione. Per quanto ci riguarda questo semplice dato evidenzia un duplice successo: sia da un punto di vista soggettivo (perché il collettivo redazionale, malgrado le recenti particolari “attenzioni” dell’apparato repressivo e giudiziario, è riuscito a tenere fede al proprio impegno senza scontare un qualche sostanziale indebolimento, ma rafforzandosi quantitativamente e qualitativamente) che da un punto di vista oggettivo (perché i “filoni” di lavoro da tempo individuati dal collettivo redazionale quali nodi centrali della riflessione e dell’azione del movimento proletario del nostro paese cominciano a realizzarsi concretamente nell’agire quotidiano di questo stesso movimento).

“Naturalmente”, come ogni processo reale, ciò avviene per successive approssimazioni e in uno sviluppo non lineare. Ma è ormai un dato di fatto  che le questioni relative allo sviluppo del militarismo, all’effettiva costituzione del polo imperialista europeo (sotto il profilo immediato della costituzione di un effettivo potenziale di proiezione militare dell’ESDI e di un effettivo potere giudiziario europeo) e all’affermarsi di una nuova composizione di classe (che pone all’ordine del giorno l’emergenza di working poors e di radicali, anche se per ora settoriali, lotte economiche), rappresentano un campo di confronto reale nell’attuale scontro fra le classi nella metropoli europea e nel nostro paese.

Lo dimostrano la sopravvivenza, sia pur marginale nel corpo della classe, di un movimento contro la guerra, le prime esperienze di costituzione di un movimento di opposizione ai processi di costituzione del polo imperialista europeo e le iniziative dirompenti del quadro di “compatibilità concertativa” di alcuni combattivi reparti della classe operaia come i lavoratori dei trasporti.

Come andiamo sottolineando da tempo, l’inevitabile sviluppo dell’attuale sistema degli stati imperialisti verso derive militariste e neoautoritarie non può che avere immediate ricadute interne ai costituendi poli imperialisti (e in particolare nell’UE) in termini di repentino e dispiegato rafforzamento degli strumenti di controllo, repressione e controrivoluzione preventiva al fine di “formalizzare” rapporti tra le classi adeguati all’attuale processo di riallineamento della bilancia di potenza di questo sistema.

In particolare (e come da tempo si sforza di ripetere SC) da un lato, malgrado le apparenti frizioni, trova conferma la prospettiva di medio periodo di un rafforzamento della relazione euro-atlantica quale tentativo di fronteggiare adeguatamente le nuove potenze continentali emergenti (in particolare Cina e India); dall’altro lato, malgrado i positivi segnali cui si accennava, trova pure conferma il ritardo storico del movimento proletario europeo e del nostro paese nel processo di riconquista di una propria autonomia di pensiero e di azione.

In questo senso vale forse la pena di ribadire che il militarismo e le guerre, nell’ambito dei processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali propri della fase monopolista e imperialista del capitalismo, sono come la pioggia che scaturisce dalla nuvola del modo di produzione capitalista; che ancora oggi l’intervento militare NATO in Iraq assume nell’immediato un peso economico relativo nella metropoli imperialista e che sarebbe perciò più opportuno, nello sforzo di ricostituzione dell’autonomia politica della classe nelle metropoli e nel mondo, occuparsi e contrastare le ricadute di questo sviluppo storico nel “fronte interno” e in termini di peggioramento delle condizioni formali e materiali che sempre più ampi settori della classe si trovano a vivere.

Alcune recenti esperienze (su cui in parte SC ha già avuto modo di esprimere una propria “valutazione”) ci hanno confermato nella convinzione che l’assenza di una adeguata risposta in primo luogo in termini di “lettura” dell’attuale movimento storico dello sviluppo del sistema capitalista, non tenendo conto dei nessi fondamentali di questo movimento, condanna inevitabilmente le “naturali” iniziative di resistenza del proletariato delle metropoli alla parzialità, al localismo e, in definitiva, ad una loro concreta inefficacia “storica” favorendo la prevalente passività della classe di fronte all’iniziativa politica della borghesia imperialista.

Esemplare, da questo punto di vista, appare ad esempio la parabola del “movimento pacifista” nel nostro paese.

Questo movimento si è manifestato in una fase storica in cui il protagonismo delle masse non poteva ancora esprimere - come non ha espresso nelle sue principali espressioni soggettive - una propria autonoma direzione. Il che si manifestava con evidenza in molte delle stesse parole d’ordine del movimento che rivelavano una profonda influenza ideologica delle borghesie imperialiste dei diversi poli nel movimento stesso (ad esempio l’aspirazione alla costituenda “Europa sociale”).

Ciò era il “riflesso” del fatto che questo movimento si è trovato ad impattare, immediatamente e al di là delle sue pie aspirazioni, proprio quel processo di ridefinizione/riallineamento delle gerarchie del sistema degli stati imperialisti che da tempo andiamo sottolineando essere il nodo di riflessione e di azione più importante e fondamentale in vista di una ricomposizione della classe come soggetto per sé e della riconquista della sua autonomia politica, data la momentanea e provvisoria prevalenza delle teorie ed organizzazioni socialdemocratiche e neoriformiste nella classe “globale” ed in quella delle metropoli in particolare.

Dopo quasi un anno di guerra di occupazione, la persistente resistenza irakena ha determinato da un lato la mancanza di una decisa e chiara presa di posizione da parte delle componenti cattoliche e neoriformiste (che eludono la questione dell’aggressione imperialista “dibattendo” sulla legittimità dell’uso della violenza da parte della resistenza), dall’altro lato lo schieramento e l’iniziativa di diverse realtà a favore della stessa resistenza irakena. Un risultato che favorisce l’evoluzione di questo “movimento per la pace” in movimento contro la guerra imperialista e caratterizzato in senso antimperialista ed anticapitalista.

Appare cioè sempre più evidente che coniugare i due aspetti della lotta è un passaggio obbligato per rendere l’azione proletaria dentro la metropoli più efficace e meno parziale di adesso e che, al tempo stesso, ciò costituisce un inevitabile spartiacque per iniziare a definire una sinistra operaia e proletaria che sappia rompere con le compatibilità della Politica, dello Stato, dello sciovinismo imperialista e dei particolarismi religiosi. E’ in questo modo che bisogna intendere il rapporto che esiste tra la resistenza dei partigiani iracheni e afgani e la lotta operaia nella metropoli.

Non basta supportare le organizzazioni della sinistra araba, bisogna vedere come la lotta antimperialista delle masse arabo-islamiche mina l’unità e la compattezza dell’imperialismo.

La lotta antimperialista delle masse arabo-islamiche va vista non solamente in superficie, ma come un processo di resistenza popolare al

dominio dell’imperialismo. Più la loro resistenza sarà efficace e più l’arroganza degli imperialisti diminuirà in tutto il mondo accelerando i processi di lacerazione del corpo sociale interno alla metropoli.

D’altro canto i gruppi, le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, gli operai e proletari combattivi, hanno come passaggio obbligato quello di adeguarsi allo scontro in atto e di prendere in considerazione il restringersi delle garanzie sociali e “giuridiche”, provocate da un processo generale di crisi capitalista e di riadeguamento strutturale dei rapporti “formali” tra le classi. Le recenti mobilitazioni operaie (come quelle dei lavoratori dei trasporti) sono il riflesso dell’emergente nuova composizione di classe nel nostro paese e devono collocarsi in una prospettiva di lotta di lunga durata, non viste nell’immediatezza dei loro obiettivi concreti (spesso “ispirati e/o sviati” proprio da questo processo di riadeguamento).

In entrambi i casi il nesso centrale è il rapporto che esiste tra crisi e guerra e il manifestarsi della lotta che il proletariato combatte sui fronti interno ed esterno determinati dall’imperialismo.

Così come le recenti iniziative dell’apparato repressivo e giudiziario dello Stato (spettacolarizzate nelle “brillanti operazioni” contro le BR-PCC e gli “anarco-insurrezionalisti”) nascondo un più generale processo di riadeguamento dei “rapporti politici” tra le classi nei confronti del quale non può che concepirsi una lotta di resistenza di lunga durata, nella consapevolezza che le “condizioni formali” dello scontro politico sono cambiate e stanno cambiando repentinamente nel nostro paese come in tutta Europa.

Ci permettiamo perciò ancora una volta di insistere nel tentativo di illustrare e chiarire, in rapporto alle nostre possibilità e capacità, quali siano i nodi e gli aspetti principali dell’attuale movimento storico e quali rischi si nascondano in una sua difettosa concezione per la prospettiva di liberazione della classe, sottolineando come sia sempre più necessario disarticolare quel meccanismo per cui, di fronte al crescente attacco repressivo, il movimento proletario non è in grado di dare una risposta adeguatamente unitaria o, ancora peggio e prestando il fianco ai progetti della controrivoluzione, vede emergere al suo interno delle espressioni di una vile desolidarizzazione nei confronti dei compagni e delle compagne (combattenti o meno che siano) che hanno subito gli attacchi della repressione nelle diverse “forme giuridiche” che oggi si da.



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