SENZA CENSURA N.12
NOVEMBRE 2003
EDITORIALE
La recente Conferenza dei Paesi donatori per la ricostruzione dell’Iraq (Madrid, 23-24 ottobre 2003) è stata forse la migliore occasione per rappresentare il ruolo reale delle grandi potenze imperialiste: i predoni internazionali (“decisionisti e/o riottosi”) si sono riproposti sulla scena dello spettacolo politico globale come munifici benefattori del popolo irakeno. Il tutto sulla base di una risoluzione ONU che ha cercato di prestabilire le improbabili cifre della ripartizione azionaria della ricostruzione di un Iraq “democratico”. Ma, come capita spesso ai briganti, le potenze democratiche si sono lasciate cogliere proprio su questo palcoscenico internazionale con le mani nel sacco: tutte intente a brigare sull’ammontare e sui metodi di gestione dei rispettivi fondi promessi, nella prospettiva della reale spartizione del bottino irakeno.
Così, la decisa pretesa USA di gestire direttamente e unilateralmente l’erogazione delle benefiche donazioni delle potenze democratiche si è convertita in una consistente riduzione dell’ “investimento globale” previsto (ridottosi a 33 miliardi di $ per l’indisponibilità di Russia, Francia e Germania ad affidare la gestione delle proprie “donazioni” all’Amministrazione USA) e in una indefinita e caotica determinazione dei metodi di gestione degli “investimenti” promessi.
Sotto il primo profilo, basti considerare che l’impegno finanziario dei Paesi del polo imperialista europeo (UE, Gran Bretagna, Spagna e Italia) rappresenta complessivamente circa il 10% di quello degli USA (che ammonta a 20,3 miliardi di $), mentre quello del solo Giappone ne rappresenta quasi il 25%.
Sotto il secondo profilo, è noto che l’Amministrazione USA, nel tentativo di arginare la richiesta della Russia e delle principali potenze dell’UE di costituire un “fondo unico delle donazioni” da affidare alla diretta gestione dell’ONU, si è irrigidita su una improbabile “posizione di forza” sul campo: il Segretario di Stato, Colin Powell, ha ribadito la ferma decisione USA di amministrare direttamente le proprie “donazioni” promettendo, per quelle altrui, una non meglio precisata gestione da parte del “duetto” Banca mondiale-ONU. E’ chiaro perciò che qualunque investimento a breve nell’area irakena non potrà che essere direttamente gestito dall’amministrazione militare USA e, nella prospettiva di medio periodo, dal futuro governo fantoccio da essa democraticamente insediato.
E’ altrettanto chiaro perciò che, oltre al controllo delle fonti di materie prime dell’Iraq, costituisce un interesse vitale e strategico per l’Amministrazione USA soprattutto l’obiettivo di stabilità dell’equivalente monetario dei prodotti di tali fonti nei futuri scambi sul mercato mondiale: il dollaro USA.
D’altro canto, sotto questo profilo e malgrado la velata minaccia da parte della Russia di accettare l’Euro come mezzo di pagamento nelle future transazioni internazionali riguardanti il proprio petrolio, è pure evidente che l’evitare una repentina caduta di valore di questa “divisa internazionale” costituisce un interesse comune delle principali potenze dell’equilibrio multipolare.
In questo senso e come da tempo si sforza di ripetere SC, malgrado le apparenti frizioni, trova conferma la prospettiva di medio periodo di un rafforzamento della relazione euro-atlantica quale tentativo di bilanciamento globale della bilancia di potenza nei confronti delle nuove potenze continentali emergenti (in particolare Cina e India).
Una prospettiva che rende conto di quell’effetto di “spiazzamento” subito dalla sinistra borghese italiana, da quella “storica” a quella più radicale e “antagonista”, di fronte alle prese di posizione strategicamente europeiste assunte da quello che era accusato di essere il più filo-americano dei governi europei dopo quello inglese: il secondo governo Berlusconi.
Infatti è ormai evidente, al di là dei proclami di facciata, la posizione di fatto “neutralista” dell’esecutivo italiano di fronte alla forzatura militarista del paese imperialista guida nell’area del Golfo. Posizione che prima si è espressa nel sostanziale rifiuto di partecipazione diretta alle operazioni di invasione dell’Iraq (acconsentendo solo ad un “successivo” intervento militare nell’ambito di una più “tradizionale” iniziativa di peace-keeping); poi nella espressa presa di posizione, nell’ambito del semestre di presidenza italiana della UE e del processo di formulazione della Costituzione europea, a favore di una rapida costituzione di un’Entità di Difesa Europea con un Comando europeo separato anche se coordinato a quello della NATO (determinazione riaffermata senza mezzi termini dallo stesso Berlusconi a chiusura della Riunione dei Capi di Stato e di Governo dell’UE tenuta Bruxelles il 16 ottobre 2003).
Al di là della speranzosa pretesa di riservare all’Italia un posto privilegiato al tavolo della spartizione del bottino irakeno, ciò che ha contraddistinto e contraddistingue l’iniziativa dell’esecutivo italiano in ambito internazionale è l’adesione di fondo al principio che la dotazione di un effettivo ed autonomo potenziale di proiezione militare esterno da parte dell’UE costituisce nella fase attuale il vero nodo del processo costituente europeo. Questo in barba ai benpensanti sostenitori dell’Europa sociale e quale “potenza moderatrice” nei conflitti internazionali.
E per averne conferma basta dare un rapido sguardo alla “road map” presentata alla “solenne apertura” della CIG ai fini dell’approvazione del testo costituzionale europeo: prevede cinque riunioni dei Ministri degli Esteri dell’UE e due vertici dei Capi di Stato e di Governo!
D’altro canto, come auspicato dal Ministro della Difesa italiano e dall’Alto rappresentante UE per la politica estera e di sicurezza comune, Javer Solana, al termine della prima riunione informale dei Ministri della Difesa UE tenuta a Roma il 3 ottobre 2003, entro la fine dell’anno in corso sarà resa operativa l’Agenzia europea per gli armamenti e la ricerca strategica. E del resto, lo stesso Europarlamento, con deliberazione del 24 ottobre 2003, ha raccomandato al governo dell’Unione l’effettiva entrata in servizio entro il 2004 della “Forza di reazione rapida UE” (con dotazione di 5.000 uomini e “per operazioni di soccorso umanitarie”) e l’effettiva entrata in servizio entro il 2009 di un esercito europeo in grado di condurre “una operazione di livello e intensità analoghi a quelle attuate nel quadro del conflitto del Kosovo in cooperazione con la NATO o in maniera autonoma” in ambito europeo o al di fuori dell’UE.
Naturalmente, e come evidenziato dall’attuale Presidenza UE, tutto questo comporterà un notevole incremento dell’impegno finanziario dell’UE e dei suoi Stati membri in materia di armamenti e tale, comunque, da bilanciare, seppure in modo approssimativo, quello statunitense.
Ma ciò che emerge in maniera inoppugnabile dal corso delle tragiche vicende dell’ultimo anno è l’evidente insufficienza strategica degli USA quale comando unipolare della filiera imperialista mondiale. Nel corso dell’ultimo conflitto interimperialista mondiale gli USA avevano espresso una capacità militare in grado di fronteggiare contemporaneamente “due guerre”: sull’atlantico e sul pacifico.
La forzatura militare dell’occupazione dell’Iraq ha messo a nudo l’incapacità dell’attuale impianto politico-militare statunitense, al di fuori di un’economia di guerra, di governare autonomamente e “pacificamente” anche singole aree di crisi subcontinentali.
Sotto questo profilo, il radicarsi ed estendersi della Resistenza irakena all’occupazione straniera rappresenta indiscutibilmente la migliore prova di questa incapacità politico-militare. Fallita la grossolana aspettativa della rapida costituzione di un “nuovo regime democratico” in Iraq capace di influenzare la riforma dei regimi arabi e la soluzione della questione palestinese, non sembra trovare efficace attuazione neanche la prospettiva di “balcanizzazione” del paese e dell’area mediorientale.
Il crescente affermarsi della Resistenza irakena e delle Brigate internazionali che in essa militano, nelle operazioni di contenimento e disarticolazione degli apparati logistici e di comando delle forze di occupazione, rende sempre più costosa, economicamente e politicamente, la forzatura militare che, sotto l’egida della “guerra mondiale al terrorismo”, il paese imperialista guida ha imposto ai suoi degni compari per rivendicare il proprio diritto alla “guerra preventiva” mettendone a nudo il carattere di “potenza declinante”.
Ne sono testimonianza, oltre ai balletti di dichiarazioni della diplomazia, le recenti vicende dello stesso “giardino di casa” degli USA: il Sud America.
Il crescente impegno politico-militare degli USA su scala globale ha obbligato l’Amministrazione nord-americana ad accettare soluzioni di compromesso a garanzia di una temporanea stabilità dell’area e di contenimento delle prospettive di liberazione espresse dai popoli del sud-america. La resistenza popolare di questi paesi e, in particolare, del Venezuela, della Colombia e, da ultimo, della Bolivia, ai piani di penetrazione dell’imperialismo USA dimostrano, insieme all’affermarsi della Resitenza irakena, che resistere alla potenza declinante USA è una strada ancora praticabile con successo da parte dei popoli oppressi.
Ciò pone urgenti necessità di ridefinizione e di riallineamento della gerarchia del sistema degli Stati imperialisti con evidenti ricadute sul processo di costituzione dei diversi poli imperialisti ed in particolare dell’UE.
La prospettiva del proletariato europeo è quella di sobbarcarsi i costi del montante militarismo dell’UE e, sul fonte interno, di un rinnovato e massivo intervento politico-giudiziario-militare degli apparati della controrivoluzione preventiva.
Ed è in questo quadro che si pone anche l’urgente necessità di una efficace ed adeguata opposizione del proletariato metropolitano al processo di costituzione del polo imperialista europeo.
La politica di sviluppo economico nazionale integrata nel quadro europeo è il patrimonio del riformismo sindacale e politico nostrano, che ha dato un nome, concertazione, alle politiche di collaborazione di classe e di contiguità alla maggioranza governativa, attuate negli anni Novanta: l’europeismo in ogni salsa è l’ultima chance del riformismo italico di legare al proprio progetto non solo l’aristocrazia operaia ma ampie fasce del proletariato.
La “morfina sociale” era stata spacciata dai vari bonzi sindacali in ogni assemblea sui posti di lavoro, come negli attivi sindacali, mentre la timida opposizione parlamentare, come la sinistra sindacale uscita con le ossa rotte dall’affossamento del governo Prodi, era stata relegata, né più né meno, che al ruolo di partito d’opinione minoritario, pronta a immolarsi al tavolo sacrificale dell’alleanza con il centro-sinistra qualora ce ne fosse stata l’occasione: le scelte elettorali attuali non sono che la diretta conseguenza di questo frontismo degenerato.
L’unità sindacale è stata il vettore di una coesione “blindata”, in realtà in via di rapida erosione a causa delle conseguenze dei processi di ristrutturazione, che permetteva una pacifica integrazione europea, anche nel caso in cui questa prendesse la forma delle scelte guerrafondaie prese in occasione del conflitto nei Balcani.
La collaborazione nell’elaborare le scelte economiche a tutti i livelli, il controllo dei fondi pensionistici, la possibilità di co-gestione del mercato del lavoro, dalla formazione all’intermediazione di mano d’opera fino all’area dei servizi all’impresa garantiti dallo “sportello unico”, erano e rimangono la contro-partita per il ruolo svolto di “polizia interna alla classe operaia” che è una funzione fondamentale sul fronte interno della contro-rivoluzione preventiva.
L’arretratezza e la timidezza politica nel volersi confrontare realmente con i mutamenti sociali in atto si è dissolta con il primo sciopero separato della Fiom, nel corso del rinnovo della parte economica del CCNL dei metalmeccanici nell’estate del 2001 e poi con le giornate di Genova, il tutto a poca distanza dall’insediamento del governo di centro-destra.
Ma da allora, comunque, il polo imperialista europeo in formazione o è stato sempre più considerato come un possibile interlocutore dalla “destra” di movimento, così come da tutte le formazioni politico-sindacali istituzionali, o è stato tenuto in scarsa considerazione dall’agenda critica della multiforme area antagonista, mentre pochi sono stati gli sforzi di comprensione, il dibattito e i tentativi di organizzazione all’interno e contro quest’area geo-politica, sebbene le sue determinazioni oggettive entrassero, come la polizia nelle case, nelle aziende e nei quartieri, nelle vite dei proletari più attivi.
Il lavoro di SC, con il suo modesto ma continuo contributo, cerca di fungere da cerniera nella possibile saldatura tra le spinte del proletariato metropolitano e l’istanze di trasformazione radicale degli attuali rapporti di produzione, nel suo lavoro di chiarificazione e di confronto con i compagni più interessati alle tematiche di cui tratta per lo sviluppo di ipotesi di un lavoro politico ormai maturo.
Ci limitiamo a segnalare alcune accelerazioni interessanti per lo sviluppo di questo lavoro.
La spinta della sinistra operaia reale all’interno dei pre-contratti del settore metalmeccanico, soprattutto in Emilia-Romagna, che aveva ritrovato capacità d’iniziativa già con i comitati referendari e in parte con lo sciopero a caldo contro la guerra, sembra aprire uno spiraglio, che già è stato oggetto di una attenzione particolare da parte dello stato e che può costituire un esempio positivo per il rilancio dell’iniziativa su base aziendale e territoriale.
L’esplodere della questione abitativa legata alla precarietà sociale complessiva, affrontata da sempre più proletari con la pratica dell’occupazione e in alcuni casi, con la sua adeguata auto-difesa e il pattugliamento contro le provocazioni poliziesche, come a Milano o a Padova, tende a creare un problema effettivo di gestione ai processi di ristrutturazione delle metropoli imperialiste e anche un precedente di conquista, con la lotta, di migliori condizioni di esistenza.
In ultimo, l’emersione della necessità di un supporto alla resistenza Irakena, che ha ridato linfa all’Intifada, e che sono esempi pratici della possibilità di opporsi alla globalizzazione capitalistica e costituiscono la fine del mito dell’invincibilità dell’imperialismo più forte, preparano un terreno favorevole all’ipotesi internazionalista che vivono dall’altra parte dell’area euro-mediterranea.