Editoriale
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"Se la guerra attuale suscita fra i socialisti cristiani
reazionari, fra i piccoli borghesi piagnucoloni, soltanto l'orrore e lo
spavento, soltanto l'avversione per ogni uso delle armi, per il sangue,
per la morte, ecc., noi dobbiamo dire: la società capitalista è
sempre stata ed è, sempre, un orrore senza fine. E se oggi la guerra,
la più reazionaria di tutte le guerre, prepara a questa società
una fine piena d'orrori, noi non abbiamo alcuna ragione di cadere in preda
alla disperazione. Infatti, oggettivamente, che cosa è, se non
una manifestazione di disperazione, questa rivendicazione del disarmo,
o più esattamente: questo sogno di disarmo, in un'epoca in cui,
sotto gli occhi di tutti, colle forze della stessa borghesia, si prepara
la sola guerra che sia legittima e rivoluzionaria, la guerra civile contro
la borghesia imperialista?"
(Il programma militare
della rivoluzione proletaria, Lenin 1916)
In questi ultimi mesi lo scenario politico italiano ed,
in alcuni casi, internazionale è stato contraddistinto dallo sviluppo
del movimento contro la guerra, composto per molti versi dal variopinto
popolo no-global, nato simbolicamente qualche anno fa a Seattle.
Ma dopo molte manifestazioni, alcuni scioperi (in realtà solo qualche
manciata d'ore di astensione dal lavoro), numerosi blocchi e tanti piccoli
sabotaggi, sembra improvvisamente essere defluito tutto: rimangono, come
simboli di quello che è stato, solo alcune bandiere della pace,
ormai sgualcite o arrotolate, appese alle finestre.
La fine del movimento contro la guerra è stata sancita con la capitolazione
del regime di Saddam Hussein. Paradossalmente proprio chi proclamava l'equidistanza
tra l'imperialismo USA e il regime di Saddam ha capitolato di fronte all'invasione
e alla 'vittoria' delle truppe statunitensi. La critica del movimento
pacifista agli eserciti e alla logica militare, si è così
presto assopita di fronte al nuovo scenario, che vede sul campo un solo
esercito regolare invasore. Le armi, che scandalizzavano i pacifisti,
ora sembrano meno pericolose impugnate solamente dagli USA...
La comprensione del fatto che la guerra sia stata un atto imperialista
crediamo sia un elemento recepito dalla stragrande maggioranza del movimento
(dalle componenti cattoliche a quelle d'estrema sinistra), ma sui motivi
profondi di questi conflitti e sulle loro ripercussioni si è rischiato
spesso di cadere nell'empirismo spicciolo. Definire l'invasione USA unicamente
una guerra per il petrolio è giusto ma limitativo, soprattutto
se non si analizza lo stato di crisi in cui versa l'economia capitalista,
elemento di vitale importanza per tutti quelli che hanno a cuore un mondo
diverso e possibile.
Ma al di là dei palinsesti televisivi creati per lo spettacolo
della guerra, con tanto di bollino laterale sullo schermo, in Iraq il
conflitto non si ferma. Se il governo e l'esercito del Rais, che provocavano
non pochi mal di pancia ai pacifisti nostrani, si sono sciolti come neve
al sole, le azioni della resistenza popolare irakena sembrano invece susseguirsi.
Dall'incubo dei kamikaze, spesso utilizzato come spauracchio e come arma
di propaganda imperialista per giustificare la superiorità morale
delle truppe USA, si è passati ad azioni partigiane che colpiscono
in modo sempre più deciso gli invasori, arrecando il maggior danno
con il minor sforzo.
Forse ora inizia l'incubo della guerriglia, e a guerra televisiva finita!
Difficilmente un esercito regolare ha la capacità di utilizzare
l'intero territorio per la guerra; la lotta di resistenza popolare invece
trova in ogni casa, in ogni manifestazione, un focolaio di organizzazione
per l'azione. Perfino la muraglia dell'informazione occidentale inizia
ad avere delle falle e fa trapelare l'instabilità della zona conquistata
dagli USA. Ogni giorno si ha notizia di soldati uccisi e mezzi distrutti
dagli antimperialisti irakeni.
La stessa situazione, del resto, si può riscontrare in Afganistan.
Non abbiamo notizie delle formazioni partigiane operanti in quelle zone,
ma possiamo basarci sul numero di azioni e di militari imperialisti morti
per valutare la capacità reattiva che hanno questi popoli. Lo scenario
palestinese, lo stato di guerra permanente dovuto all'invasione sionista,
sembra riverberarsi anche in quelle zone, e pone non pochi problemi alle
truppe d'occupazione. La strategia imperialista USA può tuttavia
aver già messo in conto questa situazione, e relegare il proprio
controllo unicamente a determinate zone di interesse dei paesi conquistati.
Per fare questo può favorire la guerra tra piccoli "signori
della guerra", in modo da rendere impossibile un compattamento della
resistenza popolare antimperialista. Forse. Lo spauracchio di una nuova
Palestina, con quello che comporta in termini di organizzazioni e capacità
di combattimento è un problema che l'imperialismo americano ha
ben presente.
Non volgiamo fare l'apologia di questi avvenimenti: abbiamo ben presenti
i limiti e i ritardi della definizione, da parte del proletariato medio-orientale,
di un proprio programma di autonomia; tuttavia l'azione antimperialista
popolare rappresenta di fatto la spina più acuminata che oggi trafigge
il fianco del governo USA, mettendo in risalto, per quanto ci riguarda,
la falsa coscienza del movimento contro la guerra proprio rispetto alle
forme di lotta che milioni di persone si danno in questo mondo per contrastare
l'imperialismo.
Possiamo affermare che questa situazione di guerra permanente e la conseguente
ridefinizione di diversi blocchi imperialisti, come nel caso dell'Europa,
ha spiazzato nei fatti il movimento contro la guerra, che non è
riuscito a superare la sua generosa ma limitativa spinta etico-morale.
Le bandiere delle pace, appese a migliaia alle finestre delle case in
Italia e i cortei di massa in tutto il mondo che reclamavano una generica
pace, non potevano infatti dare risposte efficaci di fronte all'arroganza
dell'imperialismo. L'unica risposta possibile sul campo, la resistenza
armata del popolo irakeno all'invasore, ha ulteriormente reso ambiguo
l'approccio non violento di buona parte del movimento.
Se dunque il fenomeno delle bandiere della pace è senza dubbio
stato un primo passo importante, e dopo tanti anni lo scegliere da che
parte stare è ritornato ad essere vissuto in modo pubblico; se
i cortei di massa hanno dato forza e coraggio ad una sinistra relegata
al minoritarismo e all'inseguimento del berlusconismo, tutto questo tuttavia
non ha retto il passaggio dal piano simbolico a quello reale della guerra
imperialista: troppo è il divario che intercorre tra la sensibilità
pacifista e la concretezza delle lotta antimperialista! Questo deficit
ha portato in superficie la reale essenza del movimento, che partito dalle
metropoli del centro imperialista si è difficilmente coniugato
con le forme di resistenza che si davano, e si danno tutt'ora, le popolazioni
bombardate dagli aerei USA.
Qui, le lotte operaie che attraversano le metropoli risentono di una mancanza
di prospettiva e di un relativo abbandono da parte delle porzioni maggioritarie
del "movimento". La pace così tanto invocata, serve così
anche per nascondere il conflitto sociale in atto, latente ma reale. Soggetti
come i sindacati, balbettano di fronte alle manovre di attacco precise
che Confindustria scaglia contro la classe lavoratrice.
La Francia, l'Italia, ma anche la culla dello stato sociale europeo (Svezia,
Austria, Belgio), sono attraversate da movimenti sociali che contrastano
i processi di precarizzazione della società nel suo complesso.
Questi movimenti tuttavia non hanno ancora la forza per esprimersi in
modo autonomo, e difficilmente è individuabile al loro interno
una sinistra operaia capace di darsi una prospettiva rivoluzionaria. Le
contestazioni ai sindacati di regime in Italia, gli incendi alle sedi
delle Unioni Industriali francesi nel corso dei cortei operai, sono da
considerasi momenti importanti ma troppo sporadici per rappresentare un'inversione
di tendenza rispetto alla passività dilagante del proletariato
metropolitano, che vive ancora una fase di relativo benessere.
La precarietà comunque avanza, provocata da processi di crisi tali
da rendere instabili alcune intere porzioni di classe, da cui cominciano
a partire segnali dell'intensificazione della lotta anticapitalista. Questi
fenomeni non investono in pieno la società, ma solo alcune porzioni
di essa, e tuttavia il blocco omogeneo che per anni ha costitutito la
maggioranza della popolazione della metropoli imperialista si sta sgretolando
lentamente.
Questa dimensione interclassista del Movimento non poteva che portare
alla sottovalutazione del quadro di crisi che attraversa la metropoli
nel suo complesso e inevitabilmente non ha consentito di coniugare la
lotta anticapitalista con la lotta antimperialista. Di fronte a questo
scenario le risposte che il Movimento si è dato sono state simboliche
e spesso inferiori alle stesse aspettative della forza sociale espressa
attraverso le oceaniche manifestazioni.
Quelle organizzazioni e quelle aree che si sono maggiormente contraddistinte
dentro il movimento contro la guerra, non sono riuscite a raccogliere
molto in termini di radicamento territoriale. Le vertenze sindacali e
territoriali, pur mosse da cornici di piazze piene non hanno avuto, da
un punto di vista locale, la stessa incisività.
Il simbolico ha di gran lunga surclassato il reale, impedendo di scalfire
gli attuali rapporti di forza dentro la metropoli.
Ci troviamo, ora, di fronte ad uno scenario che vede il manifestarsi di
una resistenza antimperialista e segnali di rottura del fronte interno
alla metropoli. L'attuale situazione di crisi ha provocato un inasprimento
delle forme repressive della contro-rivoluzione preventiva. Facciamo un
esempio. La messa fuori legge di Batasuna nei paesi baschi è un
tassello importante da analizzare, se messo in relazione con l'attuale
silenzio del movimento. Un partito ufficiale viene inserito all'interno
della lista dell'antiterrorismo USA, un partito presente in Parlamento,
con un consenso che travalica i confini tipici dei gruppi iperpoliticizzati.
Ciò che hanno fatto pagare a HB è la sua presenza reale,
che esprimeva nei termini di resistenza attiva. La sua esistenza favoriva
un processo di indipendenza e autonomia della classe e del popolo basco,
tali da incrinare gli attuali rapporti di forza nello stato spagnolo e
nel nuovo polo imperialista europeo.
Vediamo così che i margini di agibilità politica per i rivoluzionari
si restringono, e i limiti degli impianti riformisti vengono maggiormente
in luce. La durezza dello scontro, che si esprime anche nei termini repressivi,
trova impreparata la stragrande maggioranza del movimento.
Il fatto che diverse porzioni antagoniste del movimento
si stiano ponendo l'obiettivo di tracciare un bilancio su quanto avvenuto
negli ultimi mesi è da salutare positivamente. Si iniziano a focalizzare
alcuni nodi: la costituzione di un blocco imperialista europeo, la natura
della lotta antimperialista delle masse arabo-islamiche, la resistenza
operaia alla precarizzazione sociale. Questi nodi sono elementi importanti
su cui iniziare un confronto serrato. Un confronto che inevitabilmente,
proprio per i temi trattati, rompe con l'opportunismo proprio attraverso
la comprensione dei fenomeni sociali in atto.
Queste verifiche, in quanto tali, speriamo sappiano anche fuggire dalle
pastoie della politica spettacolo, che ha attraversato il movimento contro
la guerra stesso, superando le fughe in avanti mascherate da uno sterile
organizzativismo e un liquidatorio nullismo speculativo. La vivacità
del dibattito, che non va confusa con l'eclettismo, sarà tale solo
se saprà coniugare le esigenze del movimento con i reali processi
di indipendenza e lotta del proletariato metropolitano.
Non è, insomma, solo attraverso un principio numerico addizionale
che si risolve l'attuale empasse del movimento antagonista.
Come Senza Censura vogliamo contribuire a questo processo di verifica
continuando un lavoro di definizione dell'imperialismo e della resistenza
proletaria. Il nostro contributo, né esaustivo ma nemmeno propagandista,
tenta di arrivare ad una comprensione dei processi sociali in atto, andando
ad enucleare i punti di rottura che si manifestano attraverso la lotta
anticapitalista e antimperialista.
Il nostro obiettivo è che tale contributo possa essere, uno tra
i tanti, di stimolo al rilancio dell'iniziativa politica del proletariato
metropolitano.
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