Imperialismo in America Latina
Per un'inizio di riflessione sulle strategie della controrivoluzione in
America Latina.
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Anche in America Latina da diverso tempo si sta sviluppando
un articolato e stratificato insieme di contraddizioni nazionali, "sub
continentali" e naturalmente internazionali che vede un importante
conflittualità sociale e di classe contrapporsi al dominio da sempre
incontrastato degli Stati Uniti.
Seppur con un certo ritardo e a partire da questo numero ci sembra necessario
iniziare ad occuparci con continuità delle strategie della controrivoluzione
che la borghesia imperialista dispiega anche in questa parte di mondo.
Pensiamo che il rapporto tra crisi di accumulazione e guerra imperialista
sia il nesso centrale attorno al quale il capitalismo "interpreta"
da sempre la storia e oggi, oltre l'Afghanistan o l'Iraq, anche questo
continente è al centro di grossi interessi e teatro di cruenti
scontri come quello in atto da anni ormai in Colombia.
Comprendere quanto accade oggi in America Latina per noi vuol dire cercare
di mettere a fuoco la specifica situazione economica, politica e militare
ma tenendo lo sguardo rivolto all'orizzonte della crisi del modo di produzione
capitalistico e delle sue implicazioni a livello planetario.
Proprio partendo dalla crisi sappiamo in generale che essa evolve e si
sviluppa nella storia su piani successivamente diversi, con spostamenti
qualitativamente sempre più in "alto" aggravandosi per
estensione e profondità.
La tendenza alla diminuzione progressiva dell' accumulazione di capitali
guida i padroni ad accentrare in poche avide mani, in poche grandi corporazioni
e multinazionali una sempre crescente quantità di denaro, di forza
e capacità produttiva. Ad un certo punto neanche plasmare a proprio
piacimento la forma sociale che produce (cioè ridurre drasticamente
il costo del lavoro) e neanche scommettere immensi capitali sui tavoli
sgualciti del casinò finanziario mondiale basta più a "salvarsi"
dalla tendenza alla stagnazione dell'economia. Sappiamo che ad ogni stadio
di sviluppo, l'immensa capacità e forza produttiva sviluppata,
pur accrescendo di molto il saggio di plusvalore a danno principalmente
del salario, non riesce a compensare adeguatamente l'innalzamento della
composizione organica del capitale e quindi tende inevitabilmente ad abbassarsi
sempre di più la quota di profitto ricavata: da questa contraddizione
interna a stadi successivi nascono le diverse spinte di guerra che hanno
attraversato la storia e che vedono ora la nazione che domina nel panorama
del capitalismo mondiale impegnarsi in diversi fronti di conflittualità
imperialista e in un rinnovato terreno di rivalità con altre potenze
capitaliste.
Senza le catastrofiche teorie che attendono il collasso e consci dei limiti
che può rappresentare qualche pagina se paragonata alla vastità
e complessità dell'argomento della crisi, ci sembra comunque importante
iniziare a parlare di America Latina fornendo qualche dato e qualche elemento
ragionato sulle condizioni economiche che presuppongono e sottendono i
progetti di espansione e conflittualità imperialista che vengono
pianificati e attuati.
Stampa e informazione sono uno strumento micidiale nelle abili mani degli
stati imperialisti e sono un tassello essenziale per prevenire e preparare
le campagne di guerra e aggressione imperialista: la lezione del Vietnam
anche in questo senso costituisce un esperienza fondamentale per loro.
E ora che l'attenzione è rivolta ad oriente, la lente distorta
dei pennivendoli occidentali deforma la realtà che diventa decontestualizzata,
isolata, isolabile e astratta dai processi storici/economici/politici
e sociali in cui siamo coinvolti a livello planetario: spesso, oggettivamente
o soggettivamente, siamo vittime di una visione unilaterale in cui il
modo di produzione capitalistico comunque, con alti e bassi, sarebbe l'unico,
il definitivo modello di sviluppo praticabile e le guerre il male necessario
alla generalizzazione dei valori e diritti democratici. Visioni del genere
influenzano inevitabilmente l'interpretazione e la comprensione del rapporto
causa/effetto degli avvenimenti e dei fatti storici e forniscono la sponda
e l'apripista a campagne contro il "terrorismo" anche nel continente
sudamericano con ad esempio l'equiparazione guerriglia a narcotraffico.
Stravolgono il senso di quelle che sono le diverse interessanti esperienze
di lotta delle avanguardie di massa che invece da tempo, anche in America
Latina, stanno sviluppando forza, coscienza e capacità di intervento
come armi indispensabili perché siano i popoli anche in questo
continente a presentarsi preparati al prossimo appuntamento con la storia.
Uno sguardo alla crisi negli Stati Uniti.
C'è un insieme di indicatori economici, politici e sociali che
alimentano le preoccupazioni della borghesia imperialista statunitense.
Il PIL come valore complessivo dei beni e servizi che vengono prodotti
da un paese in un anno viene utilizzato dagli economisti borghesi per
calcolare la crescita dell'attività economica di un paese.
Il rallentamento graduale della crescita PIL, iniziata già negli
anni settanta, ha avuto sicuramente momenti di discontinuità ma
anche forti accelerazioni verso il basso confermando a lungo termine le
previsioni di tendenza negativa. Dalla metà del 1999 il Fondo Monetario
Internazionale, dopo aver constatato un aumento reale del PIL degli USA
del 3,9% nel '97 e '98, prevedeva una crescita del 3,7% per il 1999 e
del 2,6% per il 2000 (FMI,1999). Altri studi e articoli addirittura abbassavano
il pronostico al 2,2% (Economist) o anche al 2% (OECD).
Inoltre, la natura stessa di questo indicatore è stata modificata
(leggi truccata) nel corso di questi ultimi anni e questo "adeguamento"
ha contribuito a costituire uno degli elementi di compensazione per la
"trasformazioni" del sistema produttivo, almeno in apparenza.
Nel '97 gli economisti cercano di coprire uno spettacolare smantellamento
di settori economici, da sempre strategici e trainanti come quelli legati
alla produzione di valore, con i fuochi d'artificio della borsa e, come
abbiamo visto, sbandierando un PIL al 3,9%. Lo smantellamento di settori
produttivi si traduce nel fatto che l'elemento centrale che compone questo
indicatore non è più dato dai settori manifatturieri, delle
costruzioni, dell'industria estrattiva e dei trasporti, ma è costituito
dai cosiddetti "servizi". Se nel '44 quello statunitense per
il 55% era determinato dai settori produttivi portanti, in questi ultimi
anni questa cifra è scesa fino al 32,5%. Visto che quindi 67,5%
è prodotto dai servizi, in definitiva si può dire quanto
il PIL testimoni (comunque sia che cresca o che rallenti!) l'attuale fase
di terziarizzazione e quindi sia più indicatore della "deindustrializzazione"
che dell'attività produttiva vera e propria e non solo in Nord
America.
L'indebitamento commerciale (ma anche interno) degli Stati Uniti è
poi cresciuto per lungo tempo ed è diventato sette volte più
grande in due decenni. Fondi esteri da Giappone ed Europa Occidentale
"compensano" da tempo la bilancia dei pagamenti USA: le altre
economie capitalistiche sostengono con il loro investimenti il mercato
statunitense, motore della domanda a livello globale, e ne hanno "allungato
la vita" allontanando il momento di una crisi ancora più profonda
che trascinerebbe nel disastro l'economia mondiale. Facendo questo però
hanno indubbiamente anche contribuito a levare il terreno su cui una struttura
economica poggia, amplificando e rafforzando i punti deboli del faro USA
dell'economia capitalistica mondiale.
Dal punto di vista finanziario vale la pena citare quanto avvenuto nel
1998. In quell'anno il Long Term Capital Management (LTCM), considerato
il più importante fondo di investimento a livello planetario, stava
per lasciare un buco di 16 miliardi di dollari. Il LTCM era composto da
capitali versati dalle grandi banche centrali dei principali (16) stati
imperialisti ovviamente in quota proporzionale al peso economico di ciascuno.
Il "gruzzolo" raccolto è stato presentato al sistema
di credito internazionale e ha così raggiunto la cifra di 1250
miliardi di dollari: come si può immaginare questa somma enorme
è stata utilizzata per accaparrarsi quote di debito estero, speculare
sulle monete e sui titoli di borsa di alcuni stati latino americani e
non solo. Le aspettative di valorizzazione e probabilmente la "garanzia"
che alla guida di questa operazione c'erano i capi in testa della finanza
mondiale, ha portato questo fondo ad esporsi per una somma di dieci volte
più grande di quella inizialmente stanziata. Nel Settembre del
1998 i sogni del LTCM svaniscono sotto il peso di 9 miliardi di dollari
irrecuperabili. Le banche nel mondo (quelle dei paesi "subimperialisti")
e in America Latina che avevano ricevuto queste somme di denaro per investirle
nelle imprese locali, non hanno avuto rientro economico e hanno dichiarato
bancarotta. Un disastro che ha visto i paesi imperialisti ispiratori di
questa avventura operare per un salvataggio che ripianasse il debito,
contenesse la sfiducia nel sistema del credito e negli investimenti finanziari,
cercando di impedire la fuga di capitali dai paesi dell'America Latina
e non solo. Un buco che è stato poi "coperto" direttamente
dalle banche centrali degli Stati Uniti e dell'Ue che hanno tutto l'interesse
a mantenersi vari sistemi produttivi e finanziari periferici nell'orbita
economica del centro imperialista.
Ma mentre si allarga la forbice tra finanza ed economia reale, scoppiano
enormi bolle finanziarie (come LTCM), si scoprono i trucchi contabili
degli economisti che giocano sugli indicatori (come il PIL) la crisi economica
si traduce anche per i paesi imperialisti in salari sempre più
bassi, crescita della disoccupazione e interi settori sociali condannati
alla povertà.
Crisi in America Latina.
Più sopra si parlava del "aiuto" finanziario delle altre
economie mondiali all'indebitamento commerciale USA.
Sembrerà strano ma anche l'America Latina ha avuto la sua piccola
parte in questo "sostegno": nei decenni e con costi sociali
enormi, questo continente si sta lentamente integrando nella riproduzione
capitalistica globale e la borghesia del subcontinente americano ha iniziato
così ad incassare le proprie piccole fette di spartizione della
torta nei cicli di prosperità. Ma ogni periodo "recessivo"
in America Latina viene amplificato ed aggravato dalla propria subalternità
agli altri stati imperialisti.
In questo continente infatti nel corso degli anni le borghesie nazionali
dei diversi paesi, comunque crescono e in alcuni settori, a fianco ad
esempio dei più tradizionali proprietari terrieri e altro, matura
anche uno strato di ceto medio e di imprenditori. La borghesia latinoamericana
da tempo sviluppa progetti di integrazione propri come il Mercosur (Brasile,
Argentina, Uruguay e Paraguay ), progetta e attua piani nazionali di riforma
e si sforza di limitare l'ingerenza straniera nella propria economia cercando
anche di contrapporsi alla sempre più crescente dollarizzazione.
Il presidente del Brasile Lula interpreta da una parte la conflittualità
dei contadini, dei lavoratori e dei proletari delle metropoli e dall'altra
cerca di favorire processi crescita di un proprio sistema produttivo su
scala nazionale e continentale per sottrarsi al giogo imperialista straniero
e dalle diverse oligarchie nazionali. Con figure come il presidente del
Venezuela Hugo Chavez poi vediamo un processo di riforma abbastanza radicale:
divieto di privatizzazione di alcuni settori, riforma agraria e politica
di valorizzazione del proprio petrolio.
Strettamente dipendenti dagli Stati Uniti quindi i paesi dell'America
Latina vedono un brutto inizio di dello scorso 2002. La riduzione dei
prezzi dei prodotti latino americani e il degrado di sistemi finanziari
come quello argentino (indotto come abbiamo visto anche con l'LTCM) sarebbero
tra le cause principali di questa situazione, sullo sfondo naturalmente
di quella che viene chiamata "stagnazione dei consumi a livello planetario".
In più le recessioni nazionali dei paesi del Sud America sembrano
alimentarsi tra loro con una contrazione del 41% nel corso del primo trimestre
2002. In tutta la regione si assiste a una disoccupazione crescente che
vede raggiungere nel 2001 il tasso maggiore dalla fine della seconda guerra
mondiale, per la fine del 2002 questo dato è cresciuto ancora.
In Colombia e in Uruguay alla fine del 2001 il 20% della popolazione attiva
era senza lavoro.
In Argentina, sempre secondo dati ufficiali fortemente sensibili ai "condizionamenti"
e "aggiustamenti" governativi, la percentuale della disoccupazione
si aggirerebbe attorno al 20%, mentre la cifra reale sarebbe del 30% e
oltre. Inoltre vi è stata una colossale svalutazione della moneta
locale (in una lotta impari con il dollaro), con fulminee e apocalittiche
implicazioni inflazionistiche, che si sono combinate con il blocco degli
stipendi e alla confisca dei depositi finanziari del dicembre del 2001.
L'industria e la finanza sono state saccheggiate dalle imprese straniere
che controllano ora gli ex servizi pubblici e il sistema bancario. La
situazione economica di questo paese è approdata ad un vero e proprio
fallimento, con le drammatiche conseguenze sociali che tutti ben conosciamo,
seguendo negli anni gli "aggiustamenti strutturali" imposti
dal FMI (da intendersi naturalmente come istituzione economica internazionale
in mano alla borghesia nazionale USA).
In un intervista recente, il presidente del Venezuela Hugo Chavez spiega
con un esempio la giustezza del processo di riforma intrapreso con la
Costituzione Bolivariana: "In Venezuela nel 1989 si assiste a una
rivolta enorme contro un pacchetto di misure imposte dal Fondo Monetario
Internazionale.... Contro l'aumento del costo del combustibile, contro
la privatizzazione delle imprese, dei servizi, della salute, dell'educazione.
Io ho partecipato a una ribellione militare, progressista, a lato del
mio popolo. Contro le oligarchie, contro quelle stesse persone che mi
vogliono far fuori adesso. Quella rivolta antiliberista è costata
la morte a studenti, giornalisti, dirigenti politici. Altrove, nel continente,
accettarono il modello. In Argentina si sono fatti un overdose di neoliberismo.
Hanno privatizzato tutto. Si vede ora con quali risultati. Se il Venezuela
nell'89 non si fosse ribellato ora starebbe come l'Argentina. Da tre anni,
a Caracas, siamo nella fase della proposta. La proposta si è fatta
costituzione. E' antiliberista la nostra norma fondamentale e sono antiliberiste
le leggi che stiamo approvando. L'ultima l'abbiamo appena votata: la legge
che impedisce la privatizzazione del sistema pensionistico."
Per quanto riguarda il Brasile se i paesi imperialisti sembrano essersi
dimostrati meno esigenti, la linea di tendenza e l'approccio sono stati
comunque i medesimi. La crisi finanziaria degli ultimi tempi, in parte
indotta artificialmente dalle oligarchie parassitarie brasiliane spaventate
da una possibile elezione di "Lula", ha cercato di evocare lo
spauracchio dell'"argentinizzazione" anche per il Brasile. E'
stato consesso un finanziamento erogato con il contagocce che permette
di esercitare, come è già successo, la pressione necessaria
a svuotare l'economia di un paese con piani di "aggiustamento strutturale",
che sono insieme uno stravolgimento fiscale, monetario e produttivo. In
altri termini il Brasile per evitare una situazione come quella Argentina
dovrebbe imboccare la stessa strada che ha portato questo paese al disastro.
E' stata accennata la tendenza al rallentamento della crescita PIL (in
Stati Uniti, Germania e Giappone) e dell'"adeguamento" di questo
indicatore al fenomeno della terziarizzazione dell'economia, come uno
degli indici di evidente crisi di accumulazione USA in questa fase.
E di fronte ad un'accelerazione della caduta del tasso di profitto come
rapporto attuale tra capitale e lavoro e al riproporsi (almeno in prospettiva)
di diversi "fronti" di rivalità internazionale è
necessario osservare qualche elemento che metta in evidenza quali politiche
gli USA stanno approntando dal punto di vista sia economico che militare,
per cercare comprendere quale passaggio di crescita e di rafforzamento
del proprio dominio vuole determinare ora l'imperialismo americano in
questo continente.
Prospettive USA in America Latina: programma
di "cooperazione" per l'emisfero.
La dottrina che da sempre ispira la politica Usa per quanto riguarda il
subcontinente americano è sempre la stessa da oltre 100 anni: al
grido di "l'America agli americani" le diverse amministrazioni
hanno progressivamente cercato di accrescere e consolidare il proprio
dominio con tutta la spregiudicatezza, arroganza e certezza di impunità
di cui sono stati capaci.
Con l'entrata in vigore nel 1994 del trattato denominato NAFTA tra Canada,
Usa e (successivamente) Messico prende forma un'area commerciale in cui
beni, servizi e capitali dei paesi che ne fanno parte possono liberamente
circolare.
Non ci vuole molto a togliere la patina di falso "egualitarismo commerciale",
libertà di impresa e accesso ai beni che sottende una manovra di
questo tipo: chi possiede la maggiore quantità di capitali, chi
ha la possibilità di sostenere al meglio la propria economia/i
propri prodotti e chi ha da giocarsi la carta "magica" della
tecnologia e lo spauracchio della forza militare, con il progetto pilota
del NAFTA e la prospettiva di uno spazio commerciale continentale, ha
la strada spianata per il proprio dominio incontrastato in questa fetta
di mondo. Questo vuol dire nuove, più ampie porzioni di controllo
commerciale ma soprattutto produttivo che consenta magari di incidere
significativamente in senso inverso sulla tendenza alla deindustrializzazione
testimoniata anche dal calcolo odierno del PIL come si diceva più
sopra.
Visto che si parla di accordi e trattati di libero scambio vale la pena
fare qualche confronto tra NAFTA e Unione Europea. La propaganda ufficiale
vede nel Nafta un processo di integrazione e prospetta quello continentale
come "lo sforzo più importante di integrazione portato avanti
da paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo con l'obiettivo comune
del libero commercio e degli investimenti in beni e servizi basati in
rafforzate e disciplinate regole commerciali".
Ma mentre l'Unione Europea oltre ad eliminare le barriere commerciali
interne, stabilisce comuni tariffe esterne e rende progressivamente operativi
dei regolamenti comuni (per quanto riguarda il cuore del progetto europeo
ovviamente) per beni, servizi, capitali e persone, i paesi membri del
Nafta mantengono le proprie norme sulle importazioni già esistenti
con gli altri partner commerciali: non sembra esserci uno sforzo di armonizzazione
completa dei regolamenti interni o delle politiche economiche e sociali
perché evidentemente si parte da un divario economico che fa comodo
mantenere.
Con il Nafta comunque si apre uno spazio commerciale senza dazi doganali
e in cui vi sono vincoli strettissimi per cui le compagnie nordamericane
possono intentare azioni giudiziarie contro qualunque ostacolo si frapponga
alla loro prospettiva di valorizzazione. Residui di leggi protezionistiche,
norme o leggi che influenzano i costi di produzione e direttamente o indirettamente
tutto quello che impedisce la privatizzazione di beni, servizi o risorse
con accordi come il Nafta vengono debellate.
Per fare un esempio se un' impresa nordamericana individua una risorsa
(pianta, minerale....) in Messico è oggi più che mai favorita:
con i propri capitali e con la tecnologia, la trasforma in merce, trovando
in questo paese il terreno favorevole per avviarne la produzione - approfittando
del bisogno di lavoro indotto anche dalla speculazione finanziaria-, gradualmente
magari poi recupera anche quote di mercato locale, per detenerne infine
completamente l'esclusiva perché ne possiede la proprietà
intellettuale.
Sfruttando i vantaggi della vicinanza geografica molte imprese dei paesi
imperialisti spostano da tempo la loro produzione in paesi lontani approfittando
delle condizioni economiche da loro stessi prodotte. La produzione di
beni standardizzati che hanno un posto sicuro nel mercato, prodotti realizzati
in lunghe serie e che non necessitano di alto contenuto tecnologico, di
elevata professionalità, di infrastrutture sofisticate/integrate
e frutto di una progettazione che vive oramai di piccoli aggiustamenti
evolutivi, è stata spostata a grande distanza approfittando magari
dei momenti e delle situazioni in cui era conveniente sia il costo della
manodopera che quello del trasporto e della distribuzione. Ora a fianco
della delocalizzazione estrema di alcuni settori, quello della vicinanza
spaziale in America come in Europa (per quanto riguarda il mediterraneo)
diviene un fattore strategico per i propri progetti di espansione: se
in passato, mossi principalmente dal basso costo del lavoro, gli imperialisti
hanno spesso spostato le fabbriche verso regioni anche molto distanti,
oggi viviamo un processo di razionalizzazione nel quale probabilmente
la vicinanza e la possibilità di integrazione nel ciclo di produzione
e progettazione avanzata e computerizzata possono costituire fattori determinanti
e il Nafta rappresenta anche questo passaggio.
Eduardo Lucita (1) nel 2001 cita una stima per cui più di 1.000.000
di posti di lavoro si siano perduti negli USA per la ricollocazione di
compagnie in Messico che approfittano della legislazione del lavoro più
favorevole. Molti di questi lavoratori hanno trovato nuovamente impiego
con meno sicurezza e salari che risultano del 77% più basso di
quelli di prima. Il deficit del Messico si è incrementato fino
a 18.6 miliardi di dollari. Nonostante le previsioni di un maggiore sviluppo
solo la regione frontaliera ha visto aumentare la sua attività
industriale. Ma questo incremento non ha portato prosperità: più
di 1.000.000 di messicani lavorano con un salario inferiore a quello minimo.
Inoltre la crescita delle attività industriali nella zona ha peggiorato
le condizioni ambientali e sanitarie.
Nel Dicembre del 1994 il governo USA convoca in Florida 34 governi del
continente (esclusa Cuba ovviamente) per "discutere l'unificazione
delle economie dell'emisfero occidentale in un solo accordo di libero
scambio". Questo obiettivo ha come data di realizzazione il 2005
ed è stato successivamente chiamato "Area del Libre Commercio
para las Americas" (ALCA). Anche dalla "contemporaneità"
tra Nafta e ALCA, e dal fatto che capitoli interi dei documenti di discussione
dell'ALCA sono stati copiati dallo sperimentato Nafta, si può dedurre
come l'ALCA non sia che una copertura più ampia, un estensione
di quest'ultimo a tutto il continente americano.
Rispetto però alle pianificazioni iniziali, le condizioni materiali
e i tempi per la realizzazione del progetto ALCA si modificano e, tenendo
conto del dinamismo internazionale, si alternano accelerazioni a brusche
frenate.
Ci sono stati in passato incontri di altri gruppi di paesi (Comunidad
Andina - Bolivia, Ecuador, Venezuela e Perù - ) e sembrerebbero
prefigurarsi nuovi equilibri nel subcontinente sudamericano in cui può
riprendere forza l'iniziativa del Brasile con il Mercosur.
Il Cile ha già fatto accordi bilaterali con il Nafta, l'Argentina
che fa parte del Mercosur ma ha avuto una posizione ambivalente nei confronti
del Nafta, mentre il Venezuela di Chavez, il Brasile di Lula, l'Ecuador
(di Gutièrrez) promettono una dura opposizione all'ALCA. La situazione
è complessa e molto articolata ed è difficoltoso realizzare
accordi di questa portata. La situazione sociale e politica conflittuale
che vivono numerosi paesi dell'America Latina, con un continuo ampliamento
del fronte di opposizione all'ALCA starebbe il motivo principale dei tentativi
di accelerazione dell'iniziativa per un suo inizio prima del 2005.
Si allarga infatti la percezione che l'ALCA determinerebbe maggiore dipendenza
e vulnerabilità economica dei paesi della periferia con una vera
e propria razzia delle proprie risorse produttive, idriche, alimentari
e minerarie a favore del rilancio dell'economia dei dominatori di sempre.
Avverrebbe un ulteriore e più profonda colonizzazione politica,
economica e militare di tutto il continente sotto il controllo degli USA
e Colin Powell non sembra volerlo nascondere: "Noi vogliamo vendere
merci, tecnologia e servizi statunitensi, senza ostacoli, o restrizioni,
ad un mercato unico di 800 milioni di persone, con un reddito totale di
11 trilioni di dollari all'anno, in un territorio che andrà dall'Artico
a Capo Horn".
Fonti:
www.ftaa-alca.org - www.intermarx.com
www.movisol.org
(1) Eduardo Lucita, direttore della rivista marxista
"Cuadernos del Sur".
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