Senza Censura n. 6/2001

[ ] Il quarto morto



Sulla fucilazione di Carlo Giuliani

"Papa - Nuova Guinea. Dopo che il Primo Ministro aveva ricevuto una petizione presentata da 4000 studenti manifestanti, nella quale si chiedeva tra l'altro il ritiro dei rappresentati del FMI e della Banca Mondiale che si stavano riunendo nel Palazzo Presidenziale, verso sera la polizia ha disperso il sit-in intorno al Palazzo governativo con l'utilizzo di gas lacrimogeni e di manganelli. Ci sono stati tre morti per colpi di arma da fuoco, parecchie persone sono rimaste ferite
(The Post Courier - Singapore 26.6.01)

Nell'arco di pochi mesi Carlo Giuliani è il 4° morto degli scontri nelle proteste mondiali contro le agenzie del potere dei G8. Nella coscienza metropolitana del movimento antiglobalizzazione Carlo Giuliani è il primo morto. Perché Carlo non è morto nelle periferie sperdute del mercato globale, non è uno dei tanti sconosciuti delle lotte contro i programmi del FMI e della BM. Il colpo mortale ha colpito a soli pochi metri di distanza dalla zona rossa del G8, nel centro dell'Europa.
La risposta dell'imperialismo ai due giorni di protesta di massa ed alla rivolta di Genova hanno dimostrato (ancora una volta) che anche nelle condizioni europee l'escalation è imminente. Ma l'arma della paura non è un fenomeno italiano. Non è il regime Berlusconi-Fini ad essere il vero nemico. Costoro non sono altro che una coppia poco appetitosa di rappresentanti del potere borghese. Di fronte al movimento c'è niente meno che il regime globale del "capitale complessivo", quindi la forza che ha sconfitto le lotte di classe degli ultimi secoli.
A Genova il potere è stato delegittimato. Perché per i capi del mondo i vertici del G8 non sono solo un palcoscenico simbolico, ma anche un importante strumento ideologico della propria autorappresentazione e della rappresentazione mediatica del potere. L'annunciato ritiro dal centro alle periferie del deserto (WTO/Quatar) e della montagna (G8/Canada) è per questo un'importante vittoria politica del movimento.
Comprendere questo è facile, perché é il potere a dichiararlo. Per il futuro del movimento all'interno degli Stati centrali del capitalismo è importante riflettere sulla propria azione e sulla propria politica. Perché il prezzo di questa vittoria è anche la perdita della propria spensieratezza. Il gioco dello scontro come mezzo per il dialogo è (per il momento) finito: i pestaggi, i gas lacrimogeni, gli spari, il mirato terrore di massa contro persone disarmate, la scuola Diaz, i prigionieri -un attacco che era iniziato già a Praga e a Goteborg- è la risposta dei G8 non solo alle pietre e alle molotov dei militanti, ma anche alla "disobbedienza civile", alla metafora della guerra utilizzata da ampi spezzoni del movimento, alla propagandata "guerriglia dei media" delle Tute Bianche italiane. Il messaggio è inequivocabile "Rimanete a casa, non scendete in piazza, perché potrebbe finire male".
Se nel 1999 Seattle è stato uno dei primi punti di cristallizzazione internazionale delle proteste di massa e militanti contro gli effetti del neoliberismo anche all'interno dei suoi Stati centrali, allora Genova diventerà probabilmente il catalizzatore e il punto di svolta del movimento - o per lo meno questo potrebbe valere per l'Europa. L'ammissione che la risposta militare dell'imperialismo alle lotte di strada ed alle poteste di massa a Genova esige un ripensamento delle forme di lotta del movimento e del suo gioco di squadra (e la necessità di ciò emerge con chiarezza in tutte le prese di posizione ufficiali dopo Genova, non importa da quale parte provenissero: militanti, non violenti, singoli o gruppi politici) non è la prova di una sconfitta, bensì delle potenziali prospettive della crescente opposizione contro il peso dello sfruttamento capitalistico.
Il successo politico di Genova è costato caro. Ha lasciato dietro di sé un morto, sangue, dolore e la presa di coscienza da parte di centinaia di migliaia di persone che anche la democrazia parlamentare non disdegna i metodi del terrore fascista. Ma questo non significa automaticamente la certezza dell'evoluzione futura del movimento. Il futuro è aperto. Un regresso è altrettanto possibile di un ampliamento. La violenza sperimentata a Genova richiede nuove forme di comunicazione e di collaborazione (non: organizzazione) che sia in grado di contenere l'impeto interno del movimento, resistere alla tensione dello scontro esterno e al tempo stesso continuare a garantire ai molteplici e dispersi nuclei della rivolta e della protesta il più ampio spazio di agibilità. Chi vuole portare il movimento all'unica "giusta via", gli toglierà solo la scintilla liberatrice della protesta e della rivolta. Che si tratti della parola d'ordine dell' "unità proletaria" di un burocratico partito di massa, come viene venduto dagli illuminati coltivatori del proprio orticello, i neo ML, che adesso cercano nuovi adepti, oppure che si tratti del posto alla tavola rotonda per i "pragmatici" che adesso vogliono addomesticare, selezionare e, in caso di necessità espellere, i "neri".
Chi attacca il capitalismo all'interno dei suoi Stati centrali in nome degli Stati nazionali misconosce il dato di fatto della sua struttura di potere supernazionale e il suo carattere classista. Ciò che vuol essere astutamente pragmatico non è in realtà che una finzione. Poiché il capitalismo globale è l'internazionale dei capitalisti (dei centri dei G8 ma anche -in maniera crescente- singoli vincitori del sud del mondo) che concentra, accumula e difende il proprio potere.
Anche l'effimero tentativo dei verdi "sediamo alla stesso tavolo e parliamo dei problemi" non è altro che una brutta barzelletta. Di che cosa si può discutere con un partito verde di un governo G8, che forza la guerra in un'annessa Repubblica parziale, se non della sua comprovata efficacia del suo potenziale di annientamento militare ed economico?
Stare "al di fuori" della struttura del potere, voler dialogare, non è altro che un'idea ingenua di co-partecipazione. Si verrà ascoltati solo quando si tratterà di voti per le prossime elezioni e dove il potere dominante vede la possibilità di neutralizzare la delegittimazione ottenuta per le strade.
Ma la discussione attuale su possibili ed effettive "spaccature" -anche se il pericolo incombe e la "questione della violenza" quale contraddizione del movimento è immanente- tutto questo non colpisce il cuore del problema. Perché la resistenza già da tempo ha iniziato ad abbandonare la prassi del pensiero unitario uniformato delle passate contestazioni. L'evoluzione del movimento e dei suoi soggetti deve mantenere il carattere "spontaneo" e diffuso, ampiamente decentralizzato, deve proteggere la sua forza eterogenea, anzi svilupparla, presentarsi contemporaneamente in luoghi diversi oppure diffondersi per contagio. Le azioni di disturbo all'imperialismo, puntuali, locali o regionali, indipendentemente dai mezzi e dalle forme prescelti, possono diventare punti di congiunzione di cambiamenti sociali, solo se si organizzano politicamente in modo reciproco. Non può trattarsi della riattivazione di una passata retorica e di superati codici di comportamento. Questo riguarda in particolare il movimento in Germania che - diversamente dall'Italia o anche dalla Francia- non ha ancora tagliato i ponti con la propria marginalizzazione sociale e non si è liberato delle chimere del passato.
I leader delle correnti "riformistiche" se questo è veramente il loro obiettivo, devono abbandonare l'atteggiamento di vedere nella rivolta militante solo la "provocazione", invece di una premessa necessaria per l'emancipazione dal mondo della merce. E i militanti devono capire che il linguaggio delle pietre può essere politicizzato nell'intervento, nelle proposte e nella lotta per posizioni sostanziali del movimento. Solo così si può abbandonare il deserto politico creato dalla sconfitta di tutti i progetti strategici ed organizzativi della sinistra radicale dalla fine degli anni '80 (dall'autonomia alla guerriglia urbana). Anche qui non c'è ritorno, ma solo un possibile salto in avanti.
Poiché l'esperienza con la concentrazione del potere imperiale e la contemporanea capitalizzazione delle risorse naturali, di tutte le sfere culturali e sociali della vita umana, che questo venga capito in modo cosciente oppure venga percepito inconsciamente nei suoi effetti, ha già da tempo fatto acquisire al movimento sociale delle "lotte antiglobalizzazione" un nuovo stile concreto. La sua forma è la sua pluralità e la sua consapevolezza dell'utopia 'un altro mondo è possibile'.
Naturalmente le agenzie commerciali e le cittadelle dell'imperialismo non sono ancora mature per l'assalto, ma possono essere poste sotto assedio e costrette dietro al filo di ferro ed ai poliziotti. Il terreno aperto della strada, dal quale a Genova il movimento doveva essere scacciato in modo esemplare, deve essere difeso anche dopo Genova come luogo di disturbo e di attacco. Chi dimentica questo non scongiura una eventuale sconfitta "militare" in occasione di scontri futuri, bensì toglie al movimento il suo terreno più consono. Ma è anche vero che la difesa dell'articolazione nelle strade di fronte alla minaccia armata dello Stato è possibile solo se il movimento si conquista nuovi spazi e strumenti sociali di comunicazione e di intervento. Questo non significa nient'altro se non che la militanza si deve politicizzare e la politica nella sua essenza deve diventare militante.
Sono indette giornate di azione mondiale in occasione del vertice Nato a Napoli in Italia il 26 e il 27 settembre, nel deserto del Quatar dal 9 al 13 novembre della riunione del WTO, il 15 dicembre del vertice CEE a Bruxelles e all'inizio di febbraio 2002 del complesso industriale-militare a Monaco.

"Siamo realisti pretendiamo l'impossibile!"

La redazione di "So oder so!"

Traduzione da "So oder so!" n° 9, autunno 2001

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