Senza Censura n. 3/2000 [ ] Alcuni appunti sull'Intifada Al-Aqsa Mentre chiudiamo questo numero di SC l'Intifada Al-Aqsa non accenna a diminuire il suo impatto e la sua dirompenza nonostante la feroce repressione sionista e i vari tentativi di normalizzazione da parte della leadership di Arafat (prontamente rientrati di fronte alla loro totale inefficacia) e degli USA. Cosa renda questa sollevazione diversa dalle molte altre che si sono verificate con una frequenza ed un'intensità maggiori di quelle che i media hanno avuto interesse a registrare, sarà un terreno importante di riflessione per chi, anche in occidente, vede la solidarietà con il popolo palestinese come un momento concreto di avanzamento di tutto il fronte antimperialista, nel centro come nella periferia. Non tentiamo nemmeno (se non con alcuni richiami nelle news) di registrare gli eventi di queste settimane: il loro resoconto è stato fatto circolare in tempo reale da molti comitati palestinesi che l'hanno riportato (e continuano a farlo) praticamente ora per ora con una tempestività che non potremmo comunque riprodurre. Preferiamo segnalare l'indirizzo web di uno di uno dei comitati più puntuali in quest'opera di monitoraggio : http://www.addameer.org Per il momento ci limitiamo ad alcune considerazioni: o L'AP integrando cooptazione, controllo e repressione era riuscita a contenere cicli di conflittualità anche elevata che avevano sottolineato alcuni passaggi dei negoziati e alcune azioni israeliane che superavano persino i consueti livelli di arroganza criminale dello stato sionista. Finora l'AP si era dimostrata capace di dirigere queste rivolte che nascevano spontaneamente e di incassare i dividendi del senso di frustrazione che ne segnava la conclusione determinata oltre che dallo squilibrio delle forze in campo anche dall'assenza di prospettive, attestando la strada del negoziato come inevitabile nonostante la sua impresentabilità. o Sembravano ormai consolidati 2 obiettivi, certamente non secondari, del progetto di normalizzazione: quello di aver collocato entro confini di recuperabilità anche i livelli di mobilitazione più alti, che si vedevano costretti ad avanzare come massima rivendicazione il rispetto degli accordi firmati o, nella migliore delle ipotesi, della "legalità internazionale", un terreno particolarmente agevole per l'imperialismo ed i suoi interessi che sono i fattori di definizione di questa legalità. L'altro importante obiettivo che sembrava essere stato raggiunto con il "processo di pace" era la marginalizzazione della "questione palestinese". Cosa è cambiato Le modalità inedite di questa rivolta trovano la loro origine in fattori interni ed esterni al quadro di Oslo. Per quanto riguarda i primi va certamente considerato il fatto che è stato raggiunto il nucleo centrale della questione, quegli aspetti che hanno reso la causa palestinese così importante per il movimento antimperialista internazionale. Sono infatti arrivati al pettine i nodi del conflitto: Al-Quds (Gerusalemme) motivo scatenante dell'Intifada Al-Aqsa e soprattutto il diritto al ritorno dei 5 milioni di rifugiati (lasciato ai margini dalla diplomazia e dai media ma onnipresente nelle rivendicazioni palestinesi). Questi 2 punti insieme alla questione delle colonie e dello stato palestinese, ad essi strettamente collegati, minano alla base l'idea stessa dell'esistenza dell'entità sionista, testa di ponte degli interessi imperialisti nella regione, un vero e proprio cancro innestato nel corpo del mondo arabo per rispondere alla necessità di controllo di vaste masse con un altissimo potenziale di conflittualità che avrebbero potuto scompaginare i piani imperialisti in questa regione di enorme rilevanza strategica e dalle imponenti risorse. Quelle stesse masse che i regimi arabi asserviti all'imperialismo non davano sufficienti garanzie di essere in grado di controllare efficacemente. A questo punto dei negoziati rimanevano solo 2 strade: o una capitolazione anche simbolica senza la possibilità di rimandare ad un improbabile futuro il riconoscimento dei diritti fondamentali del popolo palestinese di cui Arafat ha sempre continuato a blaterare in questi anni, oppure una ridefinizione del quadro degli accordi che consentisse ad Arafat di far ingoiare al suo popolo gli ultimi rospi che restavano da ingoiare, e che erano i più indigeribili. La prima strada, quella di Oslo, si è rivelata impercorribile, divelta da un'imponente sollevazione popolare che anche se dovesse interrompersi in questo momento non ne permetterebbe la riproposizione, tanto che oggi anche i più accesi sostenitori di Oslo (in campo palestinese, arabo e israeliano) ne hanno decretato la morte. L'altra strada viene testata dall'esercito israeliano con i bombardamenti dei bantustan autogovernati. Una strada dai contorni ancora indefiniti e con molti punti interrogativi, primo tra tutti se sarà ancora la leadership di Arafat o qualche altra frazione della borghesia palestinese che dovrà provare a venderla. Comunque lasciando da parte i fattori interni al piano degli accordi, quello cioè imposto dalla controrivoluzione, sono i fattori esterni ad esso che paiono i più promettenti in termini di sviluppo e di prospettive. Lo stato sionista puo' essere sconfitto Quest'ordine di fattori ci suggerisce di fare un passo indietro, ritornando all'unica vittoria araba contro lo stato sionista in oltre 50 anni: la vittoria di Hezbollah che ha costretto l'esercito di occupazione israeliano ad un'ingloriosa e precipitosa fuga dal sud del Libano lo scorso 24 maggio. L'impatto di questo avvenimento tra le masse arabe è stato enorme e per i palestinesi che sperimentano un confronto quotidiano con gli israeliani questa vittoria ha aperto una nuova prospettiva. Non solo a livello popolare si è fatta strada la convinzione che la strada percorsa da Hezbollah è un'alternativa possibile agli accordi, le stesse organizzazioni palestinesi che in questi anni pur opponendosi a Oslo non avevano praticato fino in fondo le possibilità di una destabilizzazione importante ( vuoi per paura di non essere in grado di gestirne le conseguenze, vuoi per calcoli più opportunistici) sembrano aver operato un'inversione di tendenza. Non si spiegherebbe altrimenti la consistente presenza di armi che tutti hanno notato nelle manifestazioni e che non può essere attribuita solo alla presenza della polizia palestinese a fianco dei dimostranti, o alla massiccia presenza di Tanzim (l'organizzazione armata di Fatah). Non abbiamo elementi per sapere quali saranno i passaggi concreti di questo diverso approccio al conflitto con lo stato sionista, sia in termini di coordinamento di alcune forze palestinesi in un più ampio fronte antisionista, sia di linearità di percorso, ma un arresto momentaneo di queste dinamiche non potrà mettere in discussione l'impianto complessivo che le sostiene. Crediamo sia di una certa utilità riportare queste considerazioni (pubblicate da un settimanale egiziano) di Khaled Misha'al, capo dell'ufficio politico di Hamas, un'organizzazione che al di là delle enunciazioni di principio e della capacità dimostrata di creare momenti di destabilizzazione, non aveva finora dato l'impressione di voler portare fino in fondo le possibilità di aprire uno scontro di ampie proporzioni: "Quest' Intifada rappresenta una svolta decisiva che segna la fine di una fase e l'inizio di un'altra. Questa fase richiederebbe ai governi arabi di sviluppare una nuova strategia, semplice ma impegnativa: la resistenza popolare non deve essere imbrigliata. Se non ci sono le condizioni per una guerra convenzionale, dato lo squilibrio di forze, è ben diverso per la guerra del popolo. (...)" In questa dichiarazione, rilasciata alla vigilia del summit della Lega Araba, non va vista un'aspettativa reale verso i governi arabi (Hamas può essere forse accusata di tante cose ma non di essere così naive, tanto più dopo la repressione subita a partire dall'anno scorso )ma la consapevolezza che sono giunte a maturazione una serie di dinamiche di conflitto. Crediamo inoltre sia opportuno leggere tra le righe di questa alleanza tattica con Fatah che da molti commentatori viene presentata come la grande novità di quest'intifada: è evidente che nessuno, tanto meno in questo momento, vuole prendersi la responsabilità di rompere l'eterogeneo fronte palestinese che sembra essersi creato. E' inevitabile però, visto che questo fronte nasce sulla spinta di un'accelerazione repressiva, che lo scontro sia solo rimandato al momento in cui l'imperialismo avrà ridefinito assetti e modalità di controllo, e i suoi agenti avranno risolto alcuni problemi interni. Un'operazione vitale prima di tutto per la leadership di Arafat e in generale per la borghesia palestinese, ma che impegnerà non poco anche i regimi arabi filoimperialisti, Egitto e Giordania in testa, travolti da un'eccezionale ondata di proteste che non sono riusciti minimamente a cavalcare e che in molti casi ha visto saldarsi la solidarietà al popolo palestinese e le proteste per il ruolo che i regimi arabi svolgono per conto dell'imperialismo con le proteste per le politiche economiche dettate dall'FMI che questi regimi mettono in atto con zelo. L'internazionalizzazione dell'Intifada Al-Aqsa L'ondata di proteste che ha scosso ogni angolo del mondo arabo sta crescendo non solo quantitativamente ma qualitativamente, mentre passa da richieste legalitario-umanitarie (del tipo commissione d'inchiesta internazionale e simili), ampiamente assecondate dai governi, a richieste molto più avanzate: apertura delle frontiere per permettere ai rifugiati palestinesi e a tutti coloro che vogliono farlo di andare a combattere a fianco dei palestinesi e inoltre armi e supporto logistico. Scontata la reazione dei governi che hanno esercitato livelli di repressione elevatissimi (cariche brutali, arresti preventivi e durante le manifestazioni , ecc.), tanto più che questo movimento travolgente ha subito individuato gli USA come nemico al pari dei sionisti: si sono intensificati infatti gli attacchi ad obiettivi statunitensi e gli appelli a colpire gli interessi americani ovunque si trovino, a partire dal mondo arabo. Appelli che gli yankees non si possono permettere di sottovalutare dopo aver riportato a casa nei sacchi di plastica 17 dei propri soldati. Una vista che riesce sempre a colpire nel vivo questi infami massacratori. I Palestinesi del 48 Uno degli elementi di novità dell'Intifada Al-Aqsa è stata la partecipazione non marginale (almeno per una sua fase) dei rifugiati interni, i palestinesi che vivono nella parte di Palestina che l'esercito sionista ha occupato nel 48 dando origine allo stato israeliano. Abbiamo chiesto a Mohamed, un compagno che vive a Nazaret, di metterne a fuoco le dinamiche più significative. "Lo stato israeliano dall'inizio della sua esistenza ha portato avanti una politica di "israelizzazione" delle masse palestinesi che vivono all'interno della linea verde. Questa intifada ha fatto capire allo stato israeliano e alla leadership palestinese che noi siamo una parte integrante del popolo palestinese, che ogni cosa che riguarda i palestinesi nei territori occupati nel 67 ci riguarda. Che non esiste nessuna soluzione della "questione palestinese" senza l'indipendenza dello stato palestinese con Gerusalemme come capitale, senza il ritorno dei rifugiati e il rilascio di tutti i prigionieri. Lo stato israeliano ha esercitato una repressione mai vista prima: durante l'intifada dell'87 gli israeliani sparavano per colpire le persone, non per ucciderle. Questa volta l'esercito, i poliziotti e le unità speciali sparavano per uccidere. Anche qui, nei territori del 48, sono state ammazzate 14 persone e più di 1000 sono state ferite. Tutte le ferite mostravano che avevano mirato a punti vitali, al cuore, alla testa... . Ogni giorno nei territori occupati nel 67 muoiono almeno 10 persone. La nostra valutazione è che questa intifada continuerà fino all'indipendenza dello stato palestinese, fino al ritiro dell'esercito israeliano da tutti i territori occupati. Questa volta Arafat è arrivato ad un punto in cui non può più fare compromessi. Non può più accettare (e a questo l'hanno costretto le masse palestinesi) le condizioni israeliane del compromesso 'di pace'." SC- Ora com'è la situazione nei Territori Occupati nel 48? "Le masse palestinesi hanno fatto l'intifada per una decina di giorni, ma qui la situazione è molto diversa da quella che c'è in Cisgiordania e a Gaza, nel senso che qui siamo completamente accerchiati non solo dall'esercito israeliano ma anche dai coloni. Infatti se guardiamo le cose che sono successe a Nazaret, i coloni della città di Natzeret Elias hanno attaccato i cittadini palestinesi di Nazaret uccidendo 2 persone dentro le loro case. Tutte le sere, ancora oggi, ci sono i coloni nelle strade che aspettano il passaggio delle macchine palestinesi, c'è un boicottaggio totale delle città palestinesi: nella città di Uhm al-Faham (dove sono state uccise 3 persone) ancora oggi non arriva il sale. Comunque questa intifada ha fatto sentire al mondo la voce di noi palestinesi del 48, molti pensavano che non esistessimo, che fossimo israeliani. Anche per gli accordi di Oslo noi non siamo una parte del popolo palestinese." SC- Una grossa responsabilità per questa situazione ricade sulla leadership del 48..... "Certo, è costituita dai parlamentari palestinesi che sono nel parlamento israeliano, alcuni di loro in partiti sionisti, e dai sindaci delle città e dei villaggi arabi che in larga misura sono i rappresentanti delle famiglie della grande borghesia. Noi ora, come gruppo di attivisti e intellettuali, stiamo cercando di costituire un forum che in futuro potrebbe sostituire questa leadership che ha fatto un compromesso molto grave con gli israeliani, impegnandosi a fermare l'intifada nei territori del 48 e concentrandosi su rivendicazioni come una commissione d'inchiesta e l'ottenimento degli stessi diritti dei cittadini ebrei-israeliani. Noi invece vogliamo essere riconosciuti come una minoranza palestinese all'interno dello stato israeliano, cioè vogliamo essere riconosciuti come una parte integrante del popolo palestinese." [ ] Close |