Senza Censura n. 2/2000

[ ] Adriatico: avamposto permanente per la guerra imperialista nei Balcani


Già prima della stesura formale del "Nuovo Modello di Difesa" gli abitanti delle regioni adriatiche potevano palpare con mano le modificazioni di carattere strutturale rispetto agli assetti precedenti al crollo del blocco sovietico delle varie basi Nato.
Nell'estate del '92 incomincia la presenza massiccia di navi da guerra e portaerei nel medio-alto adriatico. Da allora questa presenza è diventata permanente con l'attacco diretto a ciò che rimane della Federazione Yugoslava nel Marzo '99, individuando nei porti di Trieste e Ancona i due perni principali.
E' una delle manifestazioni più vistose del ruolo che ha assunto l'Italia, che lungi dal venir meno con la fine della guerra fredda, viene viceversa accresciuto col "Nuovo Modello di Difesa", facendo, com'è noto, del nostro paese una base avanzata per la proiezione della potenza Usa e Nato verso l'Est e il Sud.
Così mentre vengono potenziate le basi militari situate nel Meridione e nelle isole, il cui ruolo era già marcato negli anni '80 nel quadro del rafforzamento del fianco sud della Nato, si razionalizzano e rifunzionalizzano anche quelle situate nelle regioni adriatiche settentrionali e centrali, che sembravano aver perso d'importanza con lo scioglimento del Patto di Varsavia.
I preparativi di guerra e di aggressione alla Federazione Yugoslava con l'obiettivo prioritario di scomporla a seconda degli interessi, a volte contrastanti, delle varie potenze della Nato si collocano in un periodo antecedente ai primi vagiti degli scontri "etnici".

La potenza di "fuoco" stabilita nell'area che stiamo esaminando non ha precedenti.

Partendo dal Nord-Est e scendendo verso Ancona abbiamo Aviano, Istrana, Vicenza, Villafranca.
In Emilia Romagna, nonostante lo smantellamento della base Nato di Miramare di Rimini con compiti di missioni nucleari "strike", abbiamo anche qui una vera e propria roccaforte della Nato pienamente inserita nel contesto operativo di guerra nei Balcani: i Tornado della base di S. Damiano (PC), la base aerea di Pisignano dove transitano regolarmente caccia-bombardieri dei vari paesi membri della Nato; Rimini con la base elicotteristica per il trasporto delle truppe del 1° Reggimento italiano di fanteria aviotrasportata della caserma "Di Gennaro"; Poggio Renatico (FE) che oggi è il centro strategico per il controllo della difesa aerea italiana i cui bunkers devono ospitare il CAOC (la componente Nato per la gestione delle crisi nel Mediterraneo). Poi abbiamo il porto di Ancona e l'aereoporto di Falconara utilizzati per il trasporto e supporti logistici alle truppe di stanza in Bosnia e Kossovo.
I processi di riadeguamento e modernizzazione di queste basi in diversi casi sono tutt'ora in corso per ottimizzarne la loro efficienza in un programma di "guerra di lunga durata".
Le prospettive rischiano di essere peggiori di quanto abbiamo già visto. Basta una sommaria lettura dei documenti del Nuovo Modello di Difesa per rendersi conto che la guerra intesa come "continuazione della politica con altri mezzi" diventa un dato permanente e che ogni approccio di tipo riformistico alla crisi non è nei calendari e nelle agende della borghesia imperialista.
Non solo perché il conflitto non è cessato con la fine dei bombardamenti o perché continuano gli scontri a Mitrovica, nuova Belfast balcanica; è la mancata normalizzazione di tutta l'aea (per non parlare di quella Medio Orientale) che è ben lungi dall'essere realizzata.

Nello scacchiere Mediorientale e del Nord Africa dopo aver provocato, con la sua politica coloniale e neo-coloniale, una situazione di crescente tensione sociale in tutto il mondo arabo e musulmano, l'Occidente cerca di esorcizzare le conseguenze di questa politica: è un dato inconfutabile che covano i fermenti e le ribellioni di grandi masse che alimentano un crescente sviluppo di movimenti islamici che si contrappongono agli assetti politici su cui si fonda l'influenza imperialista.
Questi movimenti di masse disilluse che abbracciano posizioni tradizionaliste e religiose sono in relatà il prodotto delle contraddizioni di classe e la conseguenza della progressiva marginalizzazione dei vari movimenti popolari nazionalistici pan-arabi ad impronta socialista dopo il disimpegno della Russia..

Altrettanto forti sono le spinte a penetrare con ogni mezzo nei Balcani per la presenza di strutture sociali e produttive più avanzate con enormi potenzialità per la tendenza delle imprese italiane ed europee a delocalizzare le produzioni nella spasmodica ricerca di un costo del lavoro sempre più basso (vertice di Giugno a Bologna dei paesi OCSE sulla piccola e media impresa e Vertice sulla sicurezza in Adriatico di Ancona).
I Balcani rappresentano la futura "Tijuana d'Europa" (solo a Tijuana si contano più di un milione di operai) dove forme di accumulazione primitiva come la cosiddetta "economia illegale" servono a gettare le basi infrastrutturali di quella che sarà una grande "zona franca" dove trasferire buona parte della produzione e reclutare nuovi schiavi per il mercato del lavoro dei servizi nella metropoli: il modello amerikano insegna.
Ma se l'area non è pacificata, la sottomissione delle sue potenzialità non sarà possibile in tempi e modi prevedibili. In Slovenia, Polonia, Russia, Ucraina, etc. tale resistenza è tutt'ora una realtà scomoda; i governi fantoccio della democrazia imperialista non riescono a far digerire tutti i rospi programmati e voluti dal Fondo Monetario Internazionale.
Qui si spiega il virulento attacco, non solo militare, contro la Jugoslavia e la componente etnica più ostile al suo smembramento, quella serba, fomentando ogni tipo di nazionalismo come parte di una strategia volta a colonizzare definitivamente l'Est.

Il movimento contro la Nato e la guerra nel suo insieme ha espresso la sua profonda debolezza durante i bombardamenti. Questa debolezza è il riflesso di una visione tutta italiana dello scontro di classe, mentre il capitale dal punto di vista dell'iniziativa politica ha già abbattuto le frontiere da molto tempo. A questo si sommano una progressiva caduta di radicalità delle lotte dovuta ad una subalternità alle "briglie di contenimento" di Rifondazione Comunista e alla sinistra "sociale" neo-riformista.

I compagni greci hanno dimostrato durante i bombardamenti, e dopo, la grossa valenza comunicativa per le masse del Mediterraneo espressa nelle lotte contro la presenza imperialista e l'aggressione Nato alla Jugoslavia.
Grecia a parte, la realtà è che siamo in assoluto ritardo nel capire, fin dal suo inizio, la vera strategia imperialista nella guerra alla Jugoslavia per: la mancanza di una inchiesta operaia sulle proiezioni degli interessi del capitale italiano, europeo ed occidentale nei Balcani (delocalizzazione, gestione dei flussi di forza lavoro, tipologie delle produzioni, produzioni nocive, ecc.); la lettura con una forte impronta idealista dei nuovi conflitti etnico-religiosi spesso analizzati superficialmente, con distacco e sufficienza senza un serio tentativo di capirne le radici e le prospettive nell'era della globalizzazione; la mancata ricerca di interlocutori in questa aree fra chi ha espresso antagonismo e resistenza ai dettami economici politici dell'imperialistmo, anche se in modo contraddittorio o ancorate alle tradizioni fin anche religiose; la lotta di classe non è finita perché i minatori rumeni marciano con i ritratti dei loro santi o i braccianti marocchini immigrati in Spagna scioperano inneggiando ad Allah.

Sul piano interno la mutazione della composizione di classe e il patto neo-corporativo fra le "parti sociali", condizioni imprescindibili per far entrare il paese in guerra, hanno frantumato ogni solidarietà di classe. Il proletariato italiano non è sceso in campo di fronte ad un grave evento come la guerra. E' un dato oggettivo, frutto della concertazione neo-corporativa fra padronato, partiti e sindacati di cui bisogna prendere atto senza atteggiamenti autistici.

Fino a quando durerà questo patto non ci è dato saperlo e ogni sforzo soggettivo ha dato pochi frutti. Di certo non dobbiamo e non possiamo aspettare che questo avvenga, affinché la lotta all'imperialismo e alla Nato non assuma forme scadenzistiche e contingenti ma sia elemento permanente e consolidato della iniziativa rivoluzionaria nei nostri territori, collocata nel quadro complessivo delle lotte del proletariato balcanico e mediterraneo, in una posizione sicuramente minoritaria per i prossimi anni ma non per questo incapace d'incidere sui processi.

Coordinamento Romagnolo contro la guerra e la Nato

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