SENZA CENSURA N.4 - NOVEMBRE 1997

IL CARCERE ISRAELIANO IN PALESTINA

Cooperazione contro la Resistenza palestinese

L'evoluzione del carcere israeliano dà indicazioni illuminati su come gli schemi repressivi si adeguino all'era delle pacificazioni imperialiste che ha seguito il crollo dell'Unione Sovietica e la 2° guerra del Golfo. Il carcere per i Palestinesi è sempre stato un evento difficilmente evitabile e le torture ed ogni forma di brutalità sono sempre state una caratteristica delle carceri israeliane (e non solo).

L'elemento nuovo e stridente è il fatto che gli oltre 4.000 Palestinesi in carcere oggi vi rimangono nonostante un "accordo di pace" tra l'O.L.P. e lo stato israeliano.

Questo apparente paradosso, per essere compreso, va collocato in un ambito di analisi che riservi un'attenzione costante all'evoluzione che l'uso del carcere ha avuto nel procedere dei negoziati, sia da parte israeliana che da parte dell'Autorità Palestinese, e la complementarità sempre meno celata delle rispettive strutture repressive.

Per indagare queste dinamiche è utile soprattutto analizzare la situazione dei prigionieri partendo da alcune categorie e da alcune pratiche.

I PRIGIONIERI AMMINISTRATIVI NELLE CARCERI ISRAELIANE

La categoria dei detenuti amministrativi si presta in modo particolare a questo tipo di osservazione: attualmente ci sono oltre 800 detenuti amministrativi, un numero enorme se pensiamo che è in atto un processo negoziale.

Inoltre questi prigionieri, nell'epoca di Oslo, si trovano di fronte a queste nuove modalità:

- un isolamento sempre più deciso dal proprio ambiente e dai propri familiari, non solo a causa delle chiusure dei Territori da parte di israele, ma anche perché sempre più spesso vengono addotti motivi di sicurezza per impedire ogni contatto col mondo esterno;
- una dilatazione kafkiana della pena;
- la separazione dei prigionieri all'interno del carcere ed in diverse carceri.

Tutto questo va visto alla luce del fatto che questi prigionieri appartengono praticamente tutti all'opposizione e che su di loro si è concretamente sperimentata l'integrazione israelo-palestinese rispetto alla sicurezza.

Per fare solo un esempio, quando gli israeliani si sono ritirati alla fine del 95 dalle città della West Bank (esclusa Al-Kalil) si sono "portati dietro" oltre una cinquantina di oppositori di Arafat che stavano facendo la loro campagna per il boicottaggio delle elezioni Palestinesi che si sarebbero tenute nel gennaio del 96.
Il numero dei prigionieri amministrativi è aumentato clamorosamente negli ultimi mesi, passando dai circa 300 prigionieri amministrativi della fine di luglio agli attuali oltre 800, dopo che gli israeliani, alla fine di settembre, hanno arrestato in una sola settimana 500 Palestinesi (mettendone circa 300 in "detenzione amministrativa").

Le condizioni di vita e sanitarie dei detenuti stanno peggiorando costantemente: l'ultima vittima di questa situazione è stato, il 16 settembre, un prigioniero amministrativo detenuto a Magiddo, Marwan Nahali di 32 anni, morto a causa del rifiuto delle autorità israeliane a fornirgli le cure mediche di cui aveva bisogno.

Gli scorsi mesi hanno visto i prigionieri amministrativi impegnati in frequenti proteste contro le provocazioni degli israeliani.
Un esempio di queste provocazioni è stato, lo scorso marzo, l'aver ignorato un accordo raggiunto tra l'autorità carceraria e i prigionieri, che prevedeva che gli ordini di detenzione amministrativa sarebbero stati rinnovati solo l'1 e il 16 del mese.

Per comprendere l'importanza di questo accordo si deve cercare di aver presente la situazione psicologica di chi, magari da anni, è in balia di un sistema che ogni giorno può decidere della sua vita senza dare spiegazioni, nemmeno quelle proprie dei sistemi repressivi codificati che, comunque, comunicano l'entità della "punizione" inflitta.
Questo è solo un esempio degli innumerevoli strumenti di annientamento psicologico che lo stato sionista mette in campo contro la resistenza dei prigionieri.

Alle proteste è seguita, come di consueto, la repressione.
Alle iniziative di lotta organizzate nelle carceri le autorità hanno risposto con gas lacrimogeni e getti d'acqua bollente.
Decine di prigionieri sono stati feriti e, nella migliore tradizione israeliana, non hanno ricevuto le cure mediche necessarie.

Un ulteriore salto di qualità si è registrato tra ottobre e novembre con l'arresto amministrativo di 2 donne: Itaf Aiyan e Nadia Haddad.
Entrambe erano state scarcerate lo scorso febbraio, insieme a tutte le altre prigioniere politiche, dopo una lotta di oltre un anno che ha rappresentato senza dubbio uno dei momenti più alti della resistenza palestinese contro il carcere.
Itaf, la prima delle due ad essere riarrestata (il 21 ottobre), ha iniziato uno sciopero della fame ad oltranza.

IL "LAVORO SPORCO" DELL'AUTORITA' PALESTINESE

Ma la detenzione amministrativa israeliana è solo un aspetto, anche se rilevante, di come in Palestina il carcere si stia modellando sulle esigenze della normalizzazione.

Infatti la borghesia palestinese ha già iniziato a svolgere il suo ruolo nella divisione dei compiti che si va definendo nel nuovo ordine regionale.

La sceneggiata ad uso e consumo dell'opinione pubblica palestinese a cui si è assistito dopo l'operazione militare di Hamas dello sorso 30 luglio, a Gerusalemme ovest, in cui l'Autorità palestinese ostentava la sua indisponibilità ad operare arresti sulla base di liste fornite da israele, nonché a riprendere la cooperazione con i servizi di sicurezza israeliani, rispondeva evidentemente alla necessità di simulare almeno un minimo livello di conflittualità in un momento in cui la politica del governo israeliano stava colpendo in modo ancora meno celato del solito, le condizioni di vita dei Palestinesi.

Nessuna sorpresa è infatti seguita alla rapida ripresa ufficiale della cooperazione, che molti ritengono non si fosse interrotta nemmeno per un momento.

Sulla base di questa collaborazione, attraverso il carcere e la repressione, l'Autorità Palestinese (con i suoi 9 servizi di sicurezza a cui è destinata la parte più consistente del budget) sta ridefinendo la fisionomia della società e soprattutto dell'opposizione palestinese.

Per continuare con l'esempio della presunta "grave crisi" seguita alla prima operazione suicida della scorsa estate va sottolineato che non solo l'Autorità Palestinese ha operato numerosi arresti, a dispetto delle dichiarazioni intransigenti nei confronti di israele, ma che questo è avvenuto in una situazione che già vedeva in carcere un numero molto elevato di militanti dell'opposizione.

Dopo la seconda operazione suicida, il 4 settembre, Arafat ha fatto partire, prima un po' in sordina, poi senza ritegno, una campagna di arresti che ha colpito decine di militanti di Hamas e della Jihad e che è culminata con le retate e la chiusura di decine di istituzioni islamiche a Gaza a fine settembre.

Alla fine di questa "operazione" il numero di arresti sembra abbia raggiunto la cifra di 150, anche se, come sempre quando si parla degli arresti dell'Autorità Palestinese, le cifre sono approssimative.

Le detenzioni dell'Autorità Palestinese nella quasi totalità dei casi sono politiche e hanno tutte le caratteristiche della detenzione amministrativa (per ragioni di sicurezza, senza che siano prodotte prove o che si arrivi a un processo) ma senza avere nemmeno quel minimo di regolarità formale che israele crea emettendo, attraverso lo shabak, un ordine specifico.

Questa pratica va di pari passo con l'organizzazione di incontri e iniziative comuni con l'opposizione che sempre più cercano di definire un ambito di compatibilità nella scena politica palestinese sul modello degli alti regimi filoisraeliani della regione e che rappresentano la base di quella normalizzazione dell'area che procede spedita e che non viene certo messa in discussione dall'ostentata indignazione dei vari Arafat, Hussein e Mubarak di fronte all'espansionismo egemonico israeliano.

Naturalmente il fatto che questo basti a controllare i sentimenti e le motivazioni materiali antisioniste delle masse arabe è, in prospettiva, estremamente improbabile, come dimostrano i focolai di resistenza che sopravvivono in Medio Oriente nonostante la feroce repressione dei regimi, last but not least, quello dello sbiadito simbolo della Rivoluzione Palestinese, Abu Ammar.

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